Vite da cani
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Anteprima del libro
Vite da cani - Augusto Grudina
Augusto Grudina, Vite da cani
Copyright© 2012 Edizioni del Faro
Gruupo Editoriale Tangram Srl
Via Verdi, 9/A – 38122 Trento
www.edizionidelfaro.it – info@edizionidelfaro.it
Prima edizione: dicembre 2010 – UNI Service
Seconda edizione: gennaio 2012 – Printed in Italy
ISBN
978-88-6537-008-7 (Print)
978-88-6537-026-1 (EPUB)
978-88-6537-027-8 (Kindle)
In copertina:
Poor vagabond sleeping on the streets with his dog © Anyka
Il barbone Augusto
Era un sabato notte di una giornata calda e afosa di tarda primavera quando il neonato venne abbandonato all’interno di un piccolo e vecchio cestello in vimini. Una copertina in lana consumata di color grigio fumo, ripiegata in due, ne avvolgeva il corpicino privo di qualsiasi indumento.
Il povero bimbo nato chissà dove, veniva posato da ignote mani sopra il gradino di entrata della casa. Questa si trovava in un complesso edile soprannominato da tutti case gialle per il particolare colore canarino con cui erano state dipinte.
Di recente quelle abitazioni erano state consegnate dal Comune ai meno abbienti di Decimomannu, un paese situato a Sud della Sardegna a circa venti chilometri da Cagliari.
Fu Giovanna mentre faceva rientro a casa la sera tardi ad accorgersi di quell’ingombro posto davanti all’ingresso. All’inizio pensò che qualcuno avesse abbandonato dentro quella cesta qualche gatto o altro animale perché lei se ne prendesse cura. Non era stato però così e quasi le venne un accidente quando vide quelle piccole manine fuoriuscire da alcuni buchi della copertina consumata che avvolgeva il povero bambino fino a coprirgli il faccino.
Giovanna si alzava tutte le mattine presto per prendere il primo treno delle cinque e mezza e rientrare poi con l’ultimo delle ventuno. Questo avveniva tutti i giorni feriali. Lavorava come domestica.
Lavava, stirava, cuciva, cucinava: faceva in pratica tutto quello che i suoi padroni le richiedevano per la gestione della casa. Un lavoro pesante, capace di tenerla impegnata dieci ore al giorno. Certo, era massacrante, per giunta sottomessa, eppure quel misero compenso le serviva per mandare avanti la sua povera famigliola pure numerosa.
Separata dal marito all’età di soli 35 anni, si trovava ad accudire, insieme alla mamma rimasta vedova, i suoi sei figli.
Davanti a quell’incredibile incontro fatto al rientro a casa dal lavoro rimase come impaurita. L’agitazione l’aveva quasi paralizzata e non riusciva più né a parlare, né a muoversi. Non sapeva capacitarsi del perché proprio davanti all’ingresso di casa sua fosse potuto succedere un fatto simile.
Raccolse come d’istinto il cesto e ancora sconvolta lo portò dentro casa. Qui accese subito una luce al neon per farsi strada e poi depositò il contenitore in vimini sopra una piccola panca in legno posta all’entrata della casa. A questo punto chiamò immediatamente la madre che sapeva di essere in casa. L’anziana donna, sentendo la sua voce sconvolta chiese subito cosa stesse succedendo, avvisandola allo stesso tempo che i bambini già dormivano.
Quella casa si sviluppava tutto su un piano ed era composta da più stanze. C’era una cameretta di circa nove metri quadri dove dormivano tutti i figli maschi ammassati uno vicino all’altro in materassi adagiati sulle piastrelle del pavimento.
Tutti incastrati tra loro formavano un solo letto. I corpi venivano coperti qua e là da lenzuola e coperte consumate e aggrovigliate fra loro. Nella casa c’era poi una piccola cucina composta da un fornelletto dove si cucinava e una credenzina con dei vetri decorati, una piccola panchetta e un tavolo con qualche sedia e sgabello.
L’ingresso, di un metro quadrato circa presentava una cassapanca mentre sei ganci in ferro battuto infissi sul muro fungevano da guardaroba. Più avanti, il bagnetto. Un vero e proprio gabinetto dove su una parete vi era appeso con un chiodo lo specchio senza alcuna cornice.
Un lavandino e un vaso senza coperchio con della carta di giornale appesa a un chiodo all’angolo del muro era tutto l’arredamento.
In un ripostiglio della casa era stata recuperata un’altra piccola camera da letto dove dormiva Giovanna insieme alla madre e le sue due bambine. In questa cameretta c’era un letto a castello e un armadio di compensato.
Mamma, mamma
gridava Giovanna ancora con voce impaurita.
Guarda cosa c’era all’ingresso del cancello di casa. Era abbandonato dentro una cesta. Vieni a vedere: un neonato! Capisci, un neonato!
ripeté all’anziana madre quando questa alla fine accorse.
Qualcuno se n’è voluto liberare lasciandolo in una casa di poveracci come noi
.
Anche la madre di Giovanna, vedendo quel neonato continuare ad agitarsi e a piangere, si impaurì.
Forse è meglio chiamare i Carabinieri
azzardò con un filo di voce pensando a come la situazione potesse meglio risolversi. Giovanna, inizialmente, sembrava propensa a seguire l’idea della madre, ma poi ci ripensò e disse: Se il Signore ha voluto portarlo fino a noi, io questo bambino lo terrò con me
.
La mamma cercò di convincerla che stava sbagliando. Secondo lei la famiglia era già abbastanza numerosa e a mandarla avanti si faceva davvero fatica. Meglio lasciar perdere il volere del Signore e pensare alla realtà, alla miseria e alla povertà in cui erano affossati.
Come sarebbe riuscita poi a nascondere il ritrovamento?
Qualcuno poteva chiederne conto. Giovanna invece era ormai risoluta.
Simulerò una gravidanza
disse e in questo rione di persone tutte impegnate a mettere insieme il pranzo con la cena, nessuno si accorgerà di un figlio in più o in meno in questa casa
.
Ricordava di quanto era successo con gli altri figli che aveva avuto: se non fosse andata al Municipio per denunciarne la nascita, ancora oggi nessuno avrebbe saputo quanti figli avesse e il prete del paese non li avrebbe di certo cercati per battezzarli. Il cuore della mamma batteva forte e non riusciva a calmarsi. L’emozione e la preoccupazione la fece crollare e si adagiò sul pavimento priva di sensi. Giovanna altrettanto agitata e ora spaventata per il malore della madre, andò a prendere subito uno straccio.
Lo inzuppò d’acqua e le bagnò il viso. Bastò quello perché in pochi secondi la madre si riprendesse e appoggiandosi sulla figlia guadagnò una sedia. Qui, muta, ripensò a quello che stava accadendo.
Le parole risolute della figlia alla fine riuscirono a rasserenarla e così riprese fiato e padronanza di sé. Giovanna ripeteva la necessità di trovare la giusta soluzione, portando a conoscenza di quella situazione i figli e allo stesso tempo cercando di mantenere segreto il ritrovamento.
Rimasero sveglie quasi tutta la notte accudendo il neonato.
Dalla panca dove era stato sistemato provvisoriamente, gli venne tolta quella vecchia coperta dove quel corpicino nudo e arrossato continuava ad agitarsi. Con un po’ d’acqua calda versata dalla madre su una bacinella di plastica lavarono entrambe il piccolo. Fu a questo punto che notarono su un polso del piccolo, legata con un filo di cotone, una piccola placca in legno spezzata in due. Vi erano incise delle lettere. Si leggeva chiaramente Aug
.
Le due donne si guardarono negli occhi e pensarono tutte e due la stessa cosa: erano quelle sicuramente le iniziali del nome del piccino.
Giovanna e mamma Maria d’istinto rovistarono la vecchia copertina di lana e guardarono meglio se ci fosse qualcos’altro ancora dentro il cesto. Cercarono anche fuori dalla porta dove era stato ritrovato il piccino. Non riuscirono però a trovare nient’altro.