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L'orfana del ghetto
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L'orfana del ghetto
E-book319 pagine4 ore

L'orfana del ghetto

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Info su questo ebook

Una storia di coraggio, amore e sacrificio, basata su fatti realmente accaduti

Nel 1941, nel pieno della seconda guerra mondiale, una bambina viene alla luce in un ghetto in Polonia.
I genitori, Jacob e Zippa, sono disposti a tutto pur di tenere al sicuro la piccola Rachel, o “Lalechka”, come la chiamano affettuosamente. Un anno dopo, i nazisti cominciano a deportare la popolazione del ghetto. Jacob e Zippa, per salvare la figlia, decidono quindi di separarsene: una notte attraversano senza esser visti i confini del ghetto e affidano la piccola a Irena e Sophia, due amiche polacche di Zippa, prima di rientrare per restare vicini ai propri genitori. Da quel momento Irena e Sophia dovranno proteggere Lalechka dagli orrori della guerra, fingendo che sia parte della loro famiglia e rischiando la loro stessa vita. Una toccante storia di coraggio e amore, basata sui veri diari della madre della piccola, su interviste e su documenti d’epoca.

Una toccante storia vera
Un padre e una madre possono compiere il gesto d’amore più puro e straziante, pur di salvare una figlia: separarsene

«Una sconvolgente storia sugli anni dell’Olocausto.»

«L’autrice intreccia le storie di tre amiche, mostrando l’amore incondizionato che le spinge a mettere a rischio persino le loro vite.»

«Tra le più belle storie di sopravvissuti all’Olocausto che abbia mai letto.»

«Questo libro vi commuoverà, di sicuro, ma vi farà anche sentire la straordinaria forza e l’incrollabile determinazione di chi è animato dall’amore.»

«Una storia incredibile. L’autrice ha fatto un lavoro di ricerca impressionante, ed è riuscita a rendere reali i personaggi fin nei dettagli.»
Amira Keidar
È nata in Israele nel 1963. Mentre lavorava come ricercatrice, ha scritto dozzine di biografie per un programma televisivo, sviluppando una vera e propria passione per la narrazione delle vite degli altri. Nel 2007, dopo aver lasciato il lavoro, si è trasferita in Polonia, dove ha cominciato a svolgere ricerche per il libro che aveva in mente. L’orfana del ghetto è il risultato dei suoi studi.
LinguaItaliano
Data di uscita5 mag 2022
ISBN9788822763723
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    Anteprima del libro

    L'orfana del ghetto - Amira Keidar

    Prologo

    Irena

    La notte fra il 24 e il 25 agosto era torrida. Infuocata. L’aria era soffocante, opprimente, senza un alito di vento. Io avevo 27 anni e vivevo con mia madre e mio fratello maggiore Kazimir a Shedlitz (Siedlce), una cittadina incolore una sessantina di chilometri a est di Varsavia. Io e mamma eravamo sole in casa. Mio fratello era andato in campagna con la moglie e il figlio per stare un po’ da nostra zia Felicia e darle una mano con la fattoria. Il marito di Felicia, lo zio Valente, era in un campo tedesco per prigionieri di guerra, e a parte un’unica cartolina postale risalente a più di un anno prima non avevamo mai ricevuto sue notizie.

    Avevo sonno, ma mi turbinavano in testa molti pensieri e mi impedivano di assopirmi. Erano mesi che non dormivo una notte intera. La strada, fuori, era silenziosa. Diversamente da quanto era accaduto negli ultimi giorni non si sentivano spari, né passi pesanti di stivali militari che facessero tremare le pareti – erano cessate anche le grida d’angoscia che nelle notti precedenti si erano levate dal quartiere ebraico.

    Improvvisamente qualcuno bussò alla nostra finestra sul retro, piano ma con decisione. Indovinai subito chi fosse.

    Conoscevo Zipora Jablon fin dalla prima elementare, e fin da subito lei, io e Sophia eravamo diventate amiche per la pelle. «I miei genitori e tutti i miei amici mi chiamano Zippa», ci aveva detto, e a partire da quel giorno non ci eravamo più separate: avevamo trascorso insieme tutti gli anni dell’infanzia a Shedlitz, e poi eravamo andate allo stesso liceo. Io e Zippa ci eravamo anche iscritte alla stessa facoltà presso l’Università di Varsavia, anche se, all’improvviso, lei era stata costretta a ritirarsi. Ma era stata la guerra, a un certo punto, a separarci; Zippa era rimasta da una parte del filo spinato, e io dall’altra.

    Io e mamma saltammo giù dal letto e ci precipitammo alla porta sul retro. Sulla soglia c’era Zippa, e aveva in braccio una neonata addormentata avvolta in una coperta logora. Qualche mese prima avevo saputo che aveva dato alla luce una bambina e che l’aveva chiamata Rachel, ma non l’avevo mai vista. Siccome il ghetto era in quarantena da più di un anno, Zippa non aveva più potuto uscire, né noi entrare. Nonostante il caldo implacabile di quella sera, la mia amica tremava in tutto il corpo. «Entra», le dissi, scrutando la strada prima di chiuderle la porta alle spalle.

    «Mia cara, cara Zippa, ti ho aspettata giorno e notte, sapevo che saresti venuta», le disse mia madre e abbracciò lei e la bambina che dormiva profondamente.

    Non ci doveva spiegare niente: sapevamo perché era venuta. Da giorni correvano voci terribili su ciò che stava accadendo nel ghetto. Mamma ne era rimasta sconvolta, quasi non riusciva a crederci. «Non capisco come sia possibile che permettano cose del genere», mi aveva detto un paio di giorni prima dell’arrivo di Zippa. L’eco degli spari e delle grida provenienti dal ghetto arrivava fin nel nostro quartiere; il fracasso dei soldati che correvano qua e là e l’incessante traffico di veicoli motorizzati risuonavano giorno e notte nelle vie cittadine.

    «Non siamo noi a permetterle. Cosa mai potremmo fare?», le avevo chiesto, senza aspettarmi nessuna risposta.

    «Siamo una nazione debole», aveva mormorato fra sé e sé. «Lasciamo sempre che siano altri a governare la nostra esistenza. Non prendiamo mai in mano il nostro destino».

    In quei giorni però mia madre non se la prendeva solo con la nazione polacca. Pur essendo una cattolica devota, si chiedeva a voce alta perché mai il buon Dio lasciasse accadere quelle cose terribili. Il suo modo di far fronte agli eventi era pregare giorno e notte. Io, invece, ero talmente confusa e angosciata da non riuscire quasi a vivere la mia vita quotidiana. Le urla strazianti che per due giorni interi si erano levate dal ghetto ebraico mi riecheggiavano in testa anche quando in realtà non c’erano più. Non avevamo notizie affidabili su ciò che stava accadendo e non c’era modo di scoprirlo. Ma circolavano delle voci. Un’atmosfera di paura e di terrore permeava tutta la città.

    Passammo in cucina, l’unico spazio della casa dove osassimo accendere una piccola lampada a cherosene. Quella volta mamma mi fece cenno di lasciarla spenta. Dalla finestra entrava un vago chiarore lunare. Il combustibile scarseggiava, quindi di solito non accendevamo la luce, e d’inverno non scaldavamo il resto delle stanze. Passavamo quasi tutte le ore del giorno nella piccola cucina. Zippa indossava un vestitino lacero, che ci permetteva di vedere quanto fosse dimagrita. Si lasciò cadere stancamente su una delle pesanti sedie che mio padre aveva costruito tanti anni prima con del legno di ciliegio. Aveva fatto con le sue mani anche il tavolo di quercia. Negli ultimi tempi avevamo sentito più che mai la sua mancanza – papà era morto di malattia prima dell’inizio della guerra. E da quando mio fratello era andato al villaggio, io e mamma ci occupavamo solo di procurarci il cibo e le altre cose di cui avevamo bisogno, facendo la fila per ore e ore. E il fatto che nella famiglia fossimo rimaste solo noi donne accresceva nel nostro animo un senso di insicurezza già forte e opprimente.

    Zippa cullava tra le braccia la sua bambina, e per un istante sembrò lontana e quasi distaccata da ciò che stava succedendo. Non ci raccontò niente del posto da cui veniva: non era necessario. I suoi grandi occhi scuri dicevano più di ciò che avrebbero potuto dire le sue labbra. Mamma le tolse gentilmente la piccola Rachel dalle braccia, che continuò a dormire tranquilla nonostante la tempesta che infuriava attorno a lei. Zippa la seguì con lo sguardo. Sembrava non potesse staccare gli occhi dalla bimba addormentata. Le diedi un bicchiere d’acqua, e lei lo bevve in grossi, avidi sorsi. Gliene diedi un altro e mi sedetti accanto a lei. Mi prese la mano e restammo così, in silenzio. Le accarezzai i capelli, un tempo morbidi come lino e ora ruvidi e aggrovigliati. Spariti anche gli eleganti vestiti del passato. Avrei voluto chiederle dei suoi genitori, di Jacob, ma sentivo che non avrei potuto sopportare la risposta.

    «Adesso devo andare», disse poi, e si alzò. Sapeva di non potersi fermare a lungo.

    «Resta qui, dormi almeno un po’», le suggerì mia madre. «Domattina penseremo a cosa fare».

    «Domani cercheremo Zosha, lei saprà cosa fare», dissi io con voce rotta. Speravo davvero che Sophia potesse trovare una soluzione. Non riuscivo ad accettare l’idea che Zippa dovesse tornare nel ghetto, perché in tal caso sapevo che non avremmo più potuto fare niente per lei.

    Zippa non ebbe la forza di opporsi. Quando mia madre prese la bambina per metterla a letto, Zippa la seguì con gli occhi finché non sparì in camera. Io l’accompagnai in soffitta, dove le stesi un lenzuolo pulito su un materasso. Si lasciò cadere pesantemente su quel giaciglio, e nonostante fosse tutta sudata le misi addosso una coperta leggera.

    La mattina dopo, molto presto, arrivò Sophia. Non so come avesse fatto a scoprire che Zippa era venuta da noi nel cuore della notte, ma sembrava assolutamente naturale che la nostra Zosha si materializzasse nel momento esatto in cui avevamo bisogno di lei. Zippa stava ancora dormendo. Da quando erano arrivate, Rachel non aveva emesso nemmeno un vagito. Evidentemente entrambe avevano bisogno soprattutto di una buona notte di sonno.

    «Zippa e Rachel sono arrivate stanotte», le sussurrai, nel timore che le mie parole potessero essere colte da orecchie ostili. E le mostrai Rachel – mamma era seduta accanto a lei, e la carezzava delicatamente.

    «Troverò un posto per nasconderle», disse subito Sophia, pratica ed efficiente come sempre; e io seppi che come al solito potevamo contare su di lei.

    «Bene», le dissi. «Ma Rachel resta qui».

    Andai di là e mi stesi accanto alla bambina. «Rochele», le sussurrai. «Che ne sarà di noi?». La piccola respirava pesantemente nel sonno. Le accarezzai i capelli scuri e cercai di non ascoltare: Sophia, in cucina, stava raccontando a mia madre ciò che sapeva degli avvenimenti del ghetto. Io non la sentivo, ma di tanto in tanto frammenti di frasi e di parole arrivavano fino a me, e mi sembravano incomprensibili. Mi sentivo oppressa da un terrore sconfinato. Se ne fossi stata capace avrei cantato a Rachel una ninnananna perché le cose che sentivo non potessero raggiungerla, ma avevo la gola serrata in una morsa.

    Rachel si svegliò attorno a mezzogiorno e cominciò subito a strillare dalla fame. Mamma le diede un po’ di latte e le preparò una pappa di farina d’avena. Rachel la divorò tra le lacrime, ma non appena ebbe la pancia piena si calmò e smise di piangere. Per quasi tutto il tempo restò in una sorta di dormiveglia, muovendosi con lentezza e in modo goffo. Ma quando fu completamente sveglia mi afferrò la mano e l’accompagnai a fare i suoi primissimi passi sul pavimento della cucina. Datemi da mangiare, supplicavano i suoi occhioni. Le diedi un altro po’ di pappa d’avena e una patata schiacciata, e si riaddormentò mentre beveva il latte tiepido che le avevo preparato. Poi salii in soffitta per portare la cena a Zippa. Era rimasta a letto tutto il giorno. Mi chiese di portarle Rachel.

    Le lasciai sole, e quando tornai le trovai addormentate sul materasso, abbracciate.

    Sophia tornò solo verso sera, dopo essersi aggirata a lungo per le vie del quartiere alla ricerca di vestitini e di qualche provvista per Rachel. Con grandissimo impegno era riuscita a trovare un nascondiglio per Zippa.

    Ed eccoci tutte e tre sedute in soffitta. Io e Sophia non sapevamo come consolare Zippa e rallegrarla un po’. Poi Zosha disse: «Non preoccuparti, sarà in buone mani», Zippa scoppiò a piangere amaramente, e subito mi ritrovai in lacrime anch’io. Aspettammo il calar delle tenebre, poi preparai un fagotto con qualche vestito e qualcosa da mangiare per Zippa.

    Verso la mezzanotte Sophia disse: «È ora di andare». La notte era scura e tetra nonostante la luna fosse quasi piena. I lampioni erano spenti, nessuna luce trapelava dalle finestre delle case, e nelle vie deserte non si sentiva alcun rumore. Solo una vaga eco di spari dal ghetto. Sophia non ci disse dove sarebbe andata, e io non glielo chiesi.

    Restammo in cucina, troppo angosciate per parlare. Mamma teneva in braccio Rachel, che si era addormentata. Zippa non aveva nemmeno cercato di abbracciarla o di darle un ultimo bacio, ben sapendo che se l’avesse fatto non avrebbe più avuto la forza di affidarla a noi perché la salvassimo. Ma i suoi occhi avevano accarezzato a lungo la piccola che dormiva pacificamente tra le braccia di mia madre. Poi quegli occhi si erano riempiti di lacrime e si era voltata, incamminandosi con decisione verso la porta.

    Seguii le due migliori amiche della mia infanzia fino alla porta sul retro. Prima di uscire, Zippa tirò fuori dalla tasca del vestito una busta e me la diede. «È per tua madre», mi disse in un sussurro. E seguì con lo sguardo i miei movimenti mentre mi infilavo la busta nella tasca della vestaglia. Ci abbracciammo in fretta e lei sparì nella notte buia così come era arrivata. Un’ombra silenziosa e nulla più.

    Sapevo che probabilmente non l’avrei rivista.

    Capitolo 1

    Zippa

    Sono nata a Shedlitz nel 1915, durante la Grande Guerra. A quell’epoca la Polonia non era uno Stato indipendente, ma era stata violata e smembrata dai suoi vicini più forti. Quando avevo tre anni la guerra – della quale ricordo pochissimo, soprattutto il frastuono proveniente dalla strada – era finita, e la Polonia era diventata indipendente per la prima volta nella storia.

    Della mia infanzia ricordo Shedlitz come una cittadina pacifica, ma vivace e piena di colore. Quando camminavo per le strade, di solito in compagnia di mia madre, con la mia mano nella sua mano calda, lei mi indicava le bottegucce dicendo: «Vedi, quell’uomo ripara le scarpe, quell’altro cuce i vestiti, e questo è il panettiere che compra la farina da tuo padre». Adoravo passare davanti a tutti quegli artigiani, affacciarmi nei loro negozietti cercando di indovinare cosa stessero facendo. Ricordo in particolare la volta che restammo a lungo ferme davanti alla porta a vetri di una bottega particolarmente minuscola: osservavo un uomo chino su un corto tavolo di legno, senza riuscire a indovinare quale fosse il suo lavoro. L’uomo restò seduto al suo posto per un tempo lunghissimo, e per un istante sembrò assolutamente immobile. «Quell’uomo è uno scriba», mi spiegò mia madre. «E cosa scrive?», le chiesi nella mia innocenza. «Scrive un rotolo della Torah», rispose lei.

    Quasi sempre la nostra passeggiata finiva nella rivendita di farina di mio padre, in via Piekna, una delle principali strade commerciali di Shedlitz. Mio padre, Aaron Jablon, possedeva un ingrosso di farina e granaglie, e gli piaceva ricordare a me e a mio fratello maggiore Shimon che la nostra famiglia era nel commercio delle granaglie fin dalla notte dei tempi. Nelle precedenti generazioni, i venditori della nostra famiglia avevano viaggiato in lungo e in largo per procurarsi le merci e poi rivenderle. Mio nonno, Chaim Shlomo Jablon, era stato il primo ad aprire un negozio in città, attività con cui ha poi mantenuto l’intero grande clan degli Jablon. Come i suoi cinque fratelli e la sua unica sorella, anche mio padre ha lavorato fin dalla più tenera età nella bottega di mio nonno. Poi, quando Chaim è morto, a quasi ottant’anni, subito dopo la fine della Grande Guerra, il più giovane e più aggressivo dei suoi figli, Yechiel, ha preso in mano le redini del negozio cercando di liquidare gli altri perché lasciassero l’attività. Due dei fratelli e la sorella si sono presi la loro parte e sono andati a cercare fortuna in America; un altro si è trasferito a Varsavia, dove ha aperto una sua rivendita di farina; Israel, il maggiore di quelli rimasti in Polonia, ha aperto un negozio di attrezzature da campeggio a Shedlitz; Menachem, il mediano, è morto giovane, ragion per cui Yechiel, su richiesta di tutti gli altri fratelli, ha accettato di prendere nella ditta un suo figlio invalido. Mio padre, che ha trascorso tutta la vita tra sacchi di farina e di segale, non ha mai preso in seria considerazione l’idea di lasciare Shedlitz e quei sacchi. Uomo pacifico, che ha sempre evitato a ogni costo ogni genere di litigio, non vedeva ragione di mettersi contro suo fratello Yechiel; così ha usato i soldi della sua parte per aprire un negozio più piccolo a una certa distanza da quello di famiglia. Grazie ai buoni rapporti che aveva con i clienti, molti di loro, sia ebrei che polacchi, hanno continuato a servirsi da lui.

    Adoravo andare al negozio con la mamma, riempirmi le narici della dolce e delicata fragranza della farina fresca che si sentiva fin sulla strada. Il pavimento era sempre cosparso di un miscuglio di segale, sesamo, semi di papavero, chicchi di grano non ancora macinati e altre granaglie, che col tempo avrei imparato a riconoscere. A mio padre piaceva moltissimo spiegarmi in che modo cresceva ogni cereale, e cosa si poteva fare con ciascuno. Alla fine della nostra visita mi dava sempre un sacchettino di carta marrone in cui potevo mettere i semini che raccoglievo dal pavimento. Tornando verso casa, li spargevo nella grande piazza, Stary Rynek, e guardavo i nugoli di piccioni grigi che arrivavano in pochi secondi da ogni direzione per becchettare vigorosamente i chicchi caduti nelle fessure tra le pietre del lastrico.

    Come molte altre donne ebree di classe media, mia madre Josepha era casalinga. Di tanto in tanto accettava qualche lavoro di cucito o di rammendo, ma soprattutto per avere qualcosa da fare e non perché ci fosse bisogno di lei per mantenere la famiglia. Mio padre si rifiutava categoricamente di lasciarla lavorare. La trattava come una regina, e mia madre scherzava dicendo che sicuramente lo faceva perché aveva paura di suo padre.

    Avraham Rinezky, il padre di mamma, era un famoso rilegatore di libri. Diversamente dal resto della famiglia Jablon, che si era allontanata dalla religione e aveva addirittura idee socialiste, nonno Avraham era un devoto ebreo osservante. Con sua grande delusione, lui e sua moglie Rachel avevano generato solo femmine, e considerava l’accurata selezione dei loro pretendenti alla stregua di un compito sacro. Effettivamente le prime due figlie erano state maritate a due ragazzi delle più note e devote famiglie ebree della città. Leah, la maggiore, che aveva sposato Akiva Zuker, e Chaya, che aveva sposato Joel Ringlebaum, vivevano a poca distanza dalla casa dei genitori ed erano attaccatissime l’una all’altra. La maggior parte dei loro vicini erano ebrei ultra ortodossi, e ogni volta che andavo da loro con mia madre, lei ne ricavava più dispiaceri che motivi di contentezza. Avvicinandoci al loro quartiere, mi stringeva forte la mano e allungava il passo, ansiosa di liberarsi di quella gravosa incombenza. «Alcuni giorni non so proprio cosa dirgli», mi raccontò una volta mentre tornavamo a casa. «E comunque, non appena cominciamo a parlare compare un nuovo marmocchio che vuole per sé tutta la loro attenzione».

    Mia madre, l’ultima delle figlie di Avraham e Rachel Rinezky, non aveva accettato un matrimonio combinato. Per un anno intero, fino ai vent’anni, non aveva rivolto la parola a suo padre che voleva darla in moglie a un ultra ortodosso, figlio del sacrestano della sinagoga dei macellai. Poi, quando anche sua madre, Rachel, si era schierata dalla sua parte, suo padre aveva capito di aver perso la guerra e le aveva permesso di sposare il suo innamorato, Aaron Jablon, fratello della sua migliore amica. Una volta, in un raro momento di sincerità, mamma mi raccontò di essere innamorata di lui fin da quando aveva dieci anni, e di aver saputo fin dal suo sedicesimo compleanno che sarebbe stato suo marito. Mio padre, Aaron, non rispondeva certo ai canoni religiosi del futuro suocero, ma veniva da una rispettabile famiglia di commercianti nota in tutta Shedlitz; e fu proprio questo, alla fine, a convincere nonno Avraham a dare la sua approvazione alle nozze.

    Aaron Jablon, però, dovette prendere un impegno solenne con Avraham Rinezky: fintanto che lui fosse stato in grado di lavorare, la figlia minore dei Rinezky non avrebbe mancato di nulla. E così era stato. Anche se non eravamo tra i più ricchi in città, non ci mancava nulla, e nessuno ha mai sentito mia madre lamentarsi della nostra situazione economica, nemmeno nei momenti più difficili. Otteneva sempre qualunque cosa chiedesse, che fosse una pezza di tessuto per farsi un vestito o del pesce per il gefilte-fish, e di tanto in tanto riceveva anche qualcosa che non si era sognata di chiedere, come il lungo cappotto di lana con il collo di visone che mio padre le comprò a Varsavia per il loro decimo anniversario.

    Anche noi, come molti altri ebrei della città, abitavamo in una stradina silenziosa, uno di quei vicoletti che circondano il centro diramandosi in ogni direzione. Se paragonati agli ampi, splendidi viali e ai magnifici edifici pubblici del centro, i modesti quartieri residenziali degli ebrei di Shedlitz sembravano sciatti e trasandati. Lì, tutta una serie di artigiani lavorava nelle botteghe al piano terra: sarti, calzolai, falegnami e fabbri popolavano le bottegucce anguste e soffocanti. Le case erano fatte di legno, le strade erano strette e trascurate, senza ciliegi o ippocastani ad adornarne i marciapiedi e con il puzzo delle fogne che assaliva spesso i passanti. C’erano poi anche piccoli edifici di culto, come la sinagoga dei sarti e quella dei macellai. La sinagoga maggiore, giustamente, sorgeva in centro.

    Noi abitavamo sopra la bottega del barbiere Goldschmidt. A volte, prima di salire le scale che portavano al nostro appartamento, mi fermavo un istante da lui, che smetteva di fare qualunque cosa stesse facendo e mi diceva di chiudere gli occhi. Apriva un cassettino segreto dietro la cassa, in un angolo del negozio, e ne tirava fuori un leccalecca al caramello su un bastoncino di legno. I dolcetti del signor Goldschmidt sapevano di Paesi lontani.

    Forse perché non era riuscita a concepire per la terza volta, a un certo punto mia madre era diventata un po’ troppo preoccupata e ansiosa. Fu lei a insistere per iscrivermi a una scuola statale polacca, nonostante la retta elevata, e non a quella ebraica. Sapeva che nessun college polacco mi avrebbe accettata se avessi studiato in una scuola ebraica. E comunque voleva che assorbissi un po’ di cultura polacca – quella della nazione da cui lei e mio padre speravano di essere accettati un giorno.

    Fino ai sei anni ho creduto che a Shedlitz vivessero solo ebrei. Dalle visite che facevamo alle zie e ai nonni avevo imparato a distinguere fra ebrei religiosi e secolari, mentre i clienti polacchi che frequentavano il negozio di mio padre avevano un aspetto, e parlavano in un modo, che mi faceva pensare che venissero da un’altra città. Scoprii che a Shedlitz c’erano anche residenti polacchi solo quando cominciai a frequentare la scuola elementare. Guardavo stupefatta il numero di bambine bionde e con gli occhi azzurri che giocavano nel grande cortile, e ne cercavo con gli occhi qualcuna che venisse dal mio quartiere; avrei salutato con gioia una qualunque bambina ebrea. Dopo il primo giorno di scuola supplicai la mamma di trasferirmi in un’altra scuola: ma la mia angoscia si trasformò presto in gioia quando, durante la ricreazione del secondo o terzo giorno di scuola, io e l’unica altra bambina ebrea che conoscessi, Chaya Luterman, fummo avvicinate da due polacche che ci chiesero se volevamo giocare con loro. Chiamarono anche altre due amiche, e da quel momento in poi, ad ogni ricreazione, il nostro gruppetto giocò a nascondino. Delle cinque bambine che formavano la nostra piccola banda – un gruppetto molto legato, che riempì i miei giorni di scuola e le molte ore dopo la fine delle lezioni – Sophia e Irena erano quelle con cui mi trovavo meglio. E a partire da quel giorno le nostre strade non si sono mai più divise.

    Fin da piccola, Sophia ha dimostrato fino a che punto il suo nome, che in greco significa «saggezza», le si addicesse. Era una ragazzina straordinariamente intelligente e matura, e anche se era lei a inventare la maggior parte delle nostre birichinate, stava sempre attenta a non fare niente di proibito o di veramente pericoloso. Quando non era impegnata a concepire uno scherzo o a inventare un nuovo gioco, di solito la trovavamo immersa in un libro. «Zosha da grande farà la maestra», mi disse Jadja una volta che durante la ricreazione Sophia preferì restare in classe a leggere invece di uscire in cortile con noi. Lei alzò gli occhi azzurri, che fin da piccola aveva nascosto dietro un paio di occhiali dalla montatura squadrata, che sottolineavano ancora di più la sua indole matura e responsabile, e disse in tono di scusa: «Mi dispiace, non posso assolutamente smettere di leggere questo libro: è di Jules Verne, ed è appena stato tradotto in polacco». All’epoca portava ancora i biondi capelli legati in due lunghe trecce. Fu solo quando arrivammo al liceo che cambiò pettinatura: «Le trecce sono da bambina piccola», disse un giorno a me e a Irena, mentre la madre di Irena le insegnava a raccogliere i capelli dietro la nuca in una crocchia. «E io voglio che i grandi mi prendano sul serio». Non si rendeva conto che, anche se si fosse vestita da clown, i grandi l’avrebbero comunque presa sul serio. Tutti gli insegnanti della scuola elementare, e più tardi anche del liceo, si rivolgevano a lei quando bisognava far arrivare un messaggio al resto della classe. Nessuno l’aveva mai reso ufficiale, ma Sophia – a cominciare dalla prima elementare – era sempre stata una leader. A noi stava bene, perché se mai avessimo dovuto eleggere un capo per la nostra piccola banda, probabilmente Zosha sarebbe stata votata all’unanimità.

    Sophia faceva sempre in modo che fosse la sua mente razionale a guidare le sue azioni, e anche se allora non ne sapevo abbastanza per giudicare, capivo che era una bambina indipendente con delle idee tutte sue. Diversamente dalla maggior parte di noi, non si lasciava mai convincere a seguire le opinioni di qualcun altro o ad agire contro la legge. Durante una vacanza, avrò avuto otto o nove anni, eravamo andate a fare una passeggiata e a un certo punto, perse nelle nostre chiacchiere, ci eravamo spinte oltre i confini della città. Passando accanto a un piccolo campo di ciliegi carichi di frutti maturi, io e Irena avevamo proposto di arrampicarci su un albero per cogliere alcune di quelle luccicanti ciliegie scure. Jadzia, Hanka e Chaya ne stavano discutendo ad alta voce, ma Sophia si era opposta con decisione: «Se doveste cadere dall’albero, non ci sarebbe nessuno a soccorrervi», aveva detto. «L’ospedale è lontano, e poi probabilmente questi alberi appartengono a qualcuno». Le sue argomentazioni logiche ci avevano convinte, e avevamo deciso di resistere alla tentazione e di tornarcene a casa. Penso che sia stato

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