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Operazione Ogro: Come e perché abbiamo ucciso Carrero Blanco
Operazione Ogro: Come e perché abbiamo ucciso Carrero Blanco
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E-book259 pagine3 ore

Operazione Ogro: Come e perché abbiamo ucciso Carrero Blanco

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Info su questo ebook

Il 20 dicembre del 1973, a Madrid, una detonazione di eccezionale potenza scagliava nel cielo l'auto sulla quale viaggiava l'ammiraglio Luis Carrero Blanco detto "l'Orco", presidente del Governo fascista spagnolo e delfino del dittatore Francisco Franco. L'attentato, rivendicato da ETA, segna un passaggio fondamentale nella storia della principale organizzazione militare della sinistra indipendentista basca e, in Spagna, contribuì a disarticolare il destino della dittatura franchista, facilitando il faticoso percorso di transizione verso l'agognata democrazia. Testo a lungo oggetto di censura e persecuzione, "Operazione Ogro" racconta la complessa organizzazione dell'attentato dal punto di vista dei suoi protagonisti: militanti di ETA, vale a dire semplici esponenti della classe operaia basca decisi a dimostrare come neppure il più potente degli uomini possa dirsi invulnerabile. Un'opera Gillo Pontecorvo trasse da questo libro il soggetto del suo ultimo film: "Ogro", con Gian Maria Volonté, uscito nelle sale italiane nel 1979.
LinguaItaliano
Data di uscita14 apr 2014
ISBN9788867180462
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    Anteprima del libro

    Operazione Ogro - Eva Forest

    Blanco

    Una piccola notizia arriva all’organizzazione

    Come è nata l’idea dell’esecuzione di Carrero Blanco?

    TXABI: È molto semplice. All’Organizzazione arrivò la notizia che Carrero andava a messa tutti i giorni alle nove in una chiesa dei gesuiti in calle Serrano. All’inizio è un’informazione come tante, e non desta particolari speranze, ma si decide comunque di inviare alcuni militanti a verificare i dati. Questi si recarono sul posto e videro che l’informazione era esatta e che inoltre non c’era un particolare servizio di vigilanza, tant’è che apparve subito possibile un sequestro. A quel punto sorge l’idea. Apparentemente le cose dovrebbero andare esattamente al contrario: c’è una necessità, si opera un’analisi e successivamente si ricercano informazioni. In questo caso però le cose andarono così. Con queste informazioni in mano e con la possibilità di azione che prevede il commando si comincia ad analizzare la questione. Si nota come Carrero sia l’uomo chiave del regime, l’uomo che è stato preparato meticolosamente per anni al fine di continuare il franchismo, colui che in questo momento garantisce la continuità e, pertanto, è la persona ideale per essere sequestrata. È fra i pochi, se non probabilmente l’unico, attraverso il quale è possibile conseguire la liberazione dei prigionieri.

    All’inizio avete pensato a un sequestro?

    JON: È stata la prima idea dell’Organizzazione. Sai che a partire dal processo di Burgos1 l’Organizzazione si era posta il compito di liberare i prigionieri che si trovavano in carcere. Sulle fughe non si poteva fare troppo affidamento perché, aldilà del fatto che i militanti sono dispersi in vari penitenziari, non abbiamo infrastrutture all’interno del resto dello Stato spagnolo e dunque, su questo versante, non vedevamo possibilità. Bisognava pensare al sequestro di una persona importante, che però non poteva essere né un ambasciatore né un console, per dire, perché in questo caso l’azione non avrebbe avuto il giusto risalto. Serviva qualcuno con molto peso all’interno del Governo, per questo quando arrivò la conferma delle informazioni su Carrero Blanco si pensò che lui fosse il personaggio ideale.

    Questa preoccupazione riguardo la liberazione dei prigionieri è una costante dell’Organizzazione che occorre segnalare.

    TXABI: È vero, in passato ci sono arrivate informazioni che però non si sono mai concretizzate, fatta eccezione per Basauri2. Parecchi tentativi non sono andati in porto, Iker può parlarne.

    IKER: Sono arrivate molte informazioni e molti progetti, ma non credo se ne debba parlare adesso...

    Insistevo su questo punto perché la preoccupazione per i militanti in carcere è una caratteristica precipua di ETA che non si ritrova nelle altre organizzazioni dello Stato spagnolo, che ripongono ogni speranza nell’Amnistia.

    IKER: Questa preoccupazione c’è sempre stata, prendi il caso dei preti di Zamora3 per esempio. Là c’è stato un tentativo di fuga organizzato all’interno e appoggiato dall’esterno. E anche qualche militante isolato è riuscito a fuggire.

    TXABI: Sono arrivate tante informazioni, però il nostro problema è sempre stato quello delle infrastrutture, della mancanza di tempo per sviluppare tutto ciò di cui c’era bisogno in ciascuna azione, basi, relazioni... Immagina una fuga da Caceres4. Anzitutto devi arrivare almeno fino a Madrid, servono come minimo due o tre ore, non c’è tempo a sufficienza. Inoltre se non conosci bene i luoghi è tutto molto difficile, anche perché qualsiasi militante basco all’interno dello Stato spagnolo non appena si relaziona con qualcuno viene riconosciuto dall’accento. I problemi da risolvere, quindi, sono tanti e di difficile soluzione.

    Avete mai pensato di organizzare un’infrastruttura e una relazione con persone fuori dal Paese Basco?

    JON: In generale, le persone fuori dal Paese Basco non comprendono la questione basca. Ogni volta che si è stabilito un contatto con gente di Madrid o Barcellona non ci sono stati progressi, quando si parlava non ci si riusciva a intendere. La questione della lotta armata, per esempio, non ce l’hanno per niente chiara. E quando si arriva alla questione nazionale, la vedono in maniera completamente diversa da noi, la vedono dal punto di vista della borghesia spagnola, non capiscono che il popolo basco subisce un’oppressione particolare: sicuramente sarà un risultato della propaganda franchista, è un argomento che non vogliono nemmeno ascoltare, purtroppo è così.

    MIKEL: Non si vuole riconoscere che Euskal Herria è un popolo e come tale ha diritto alla libertà e alla sovranità nazionale.

    TXABI: In generale, l’oppressione delle minoranze non viene compresa da chi non la soffre, è una realtà con cui purtroppo bisogna fare i conti.

    Ritorniamo dove eravamo partiti. L’informazione come vi arrivò, attraverso un militante o grazie a qualche simpatizzante?

    TXABI: A questa domanda potrebbe rispondere la direzione, noi ci limitammo a verificare quello che ci era stato richiesto, però non conosciamo la fonte. Certamente adesso a Madrid, come in altre città spagnole, ci sono informatori, c’è un servizio di informazione, e così come avvenne per Carrero Blanco può arrivare qualsiasi informazione di carattere politico.

    Si dice che fra baschi, di solito, ci diamo una mano…

    TXABI: Relativamente. Ci sono baschi rivoluzionari che ci aiutano e altri che non lo fanno, ci sono spagnoli che ci aiutano e altri che non lo fanno... In ogni modo, dopo aver ricevuto l’informazione, vengono inviate due persone, ma di questo può parlarti Jon, perché lui è stato uno dei membri del primo commando.

    JON: A Madrid andammo in due, io e Mikel. Nel resto dello Stato spagnolo l’Organizzazione non è presente, non ci sono membri di organizzazioni spagnole disposti ad aiutarci nella costruzione di azioni armate – o perlomeno, se ci sono non li conosciamo – e l’esperienza che abbiamo è che quando qualche organizzazione cerca un contatto con noi lo fa solo per firmare congiuntamente un documento a causa dell’appoggio e del lustro politico che oggi dà il firmare qualcosa con ETA: questa cosa interessa assai di più che un’azione congiunta volta a distruggere lo Stato spagnolo. Allora, dal momento che lì non avevamo possibilità di supporto – si dice che ci siano molti simpatizzanti ma noi non li conosciamo – abbiamo affittato in completa autonomia una stanza in una pensione. Possedevamo una documentazione falsa, carte d’identità e tutto il resto. Dal momento che saremmo rimasti pochi giorni non abbiamo dovuto dare nessuna spiegazione.

    Quando accadde tutto questo?

    JON: Saranno stati i primi giorni di dicembre. L’uno o il due, perché ricordo che alla fine venimmo qui per trascorrere il natale con la famiglia e prima occorreva passare le informazioni. L’uno o il due dicembre del 1972, non più tardi.

    Conoscevate Madrid?

    JON: C’ero già stato, ma una volta sola e tanto tempo prima. Per Mikel invece era la prima volta. Ricordo che arrivammo di sera, fra le sei e le sette, era già notte e mi sconvolse il rumore, il traffico, le luci, il caos per le strade. Nel corso di questa tappa, che fu breve, mi sentivo come nauseato, le distanze mi sembravano enormi, l’aria era irrespirabile, polvere da tutte le parti, sporcizia…

    MIKEL: Anche a me la città fece una brutta impressione, tutto era molto diverso da qui. Le persone andavano in giro in ordine, con un modo di vestire molto differente dal nostro, con la giacca, la cravatta, e poi quei baffi… Mi sembravano tutti poliziotti o informatori…

    JON: Anche a me facevano impressione i baffi, tagliati alla fascista, come diciamo noi. Questa fu la prima impressione, perché poi tutto cominciò ad apparirci normale, però questa sensazione di arrivare in una città nuova dove tutto ti dà alla testa… Ad ogni modo, raggiungemmo la pensione e il giorno dopo ci svegliammo presto e andammo in un bar, dove cercammo una guida telefonica con cui trovammo l’indirizzo di Carrero. Viveva in calle Hermanos Bécquer, al numero 6 mi pare. Cazzo, sembrava impossibile che fosse così facile, una persona così importante… Allora, sulla base di questa informazione, controllammo l’ubicazione della strada e vedemmo che si trovava a un passo dalla chiesa: questo confermava, o meglio, poteva confermare l’esattezza dell’informazione. Passeggiammo fino a là, separandoci con l’accordo che ci saremmo riuniti più tardi. La chiesa era molto grande, davvero una chiesa di gesuiti. Ricordo che entrai e mi misi nella parte centrale, verso destra; il mio compagno sarebbe venuto e si sarebbe messo dietro. Avevamo paura che il posto fosse molto vigilato, che non ci rendessimo conto che controllassero la gente che entrava, che la registrassero, che richiedessero documenti. Arrivarono le nove e Carrero non appariva. Quando terminò la messa la gente iniziò ad uscire, fu allora che lo vidi. Era con un signore di una settantina d’anni, piuttosto decrepito, piccolo, con i capelli tutti bianchi. Mi veniva incontro, io ero rivolto all’altare e lui usciva dall’altro lato.

    Conoscevate Carrero?

    JON: L’avevo visto solo nei cinegiornali o sulle riviste.

    MIKEL: Per me è lo stesso. Anche la direzione, quando ci incaricò, ci diede una sua foto, un primo piano, insieme alla notizia che andava da solo e che non c’erano misure di sicurezza, almeno quelle visibili a una prima osservazione.

    JON: Ad ogni modo eravamo molto cauti poiché era possibile che il nostro informatore non si fosse reso conto di essere vigilato da agenti in borghese e dunque prendemmo le nostre precauzioni. Quel giorno non lo vedemmo entrare. Avendolo solo osservato in fotografia non lo riconoscemmo, però all’uscita già mi resi conto che era lui. Come ti ho detto, chiacchierava con questo signore anziano e allora iniziai a seguirlo, a discreta distanza ma senza perderlo di vista. Arrivati alle scale si separarono, montò in macchina con un altro signore che portava una valigetta e scesero per la calle Serrano. Eravamo entusiasti del fatto che l’informazione si fosse rivelata esatta.

    MIKEL: Il giorno seguente tornammo e lo vedemmo arrivare su una Dodge nera…

    Come andò?

    MIKEL: Uno rimase fuori a vedere, mentre io aspettavo dentro la chiesa.

    Era facile l’osservazione da fuori?

    JON: Sì, ci sono varie fermate di autobus da quelle parti. Una si trova proprio di fronte, sul marciapiede dell’ambasciata americana, un’altra in calle Hermanos Bécquer, quasi all’angolo con calle Serrano, e credo ce ne sia una sulla stessa calle Serrano, poco più in là.

    MIKEL: Quel giorno però non ne sapevamo molto, non conoscevamo la zona. Vidi delle persone di fronte alla fermata e mi unii a loro. C’erano alcune guardie che chiacchieravano senza interessarsi a niente, piuttosto disattente, passavano parecchie automobili e poche persone. Qualche minuto dopo le nove vidi la Dodge nera arrivare e fermarsi in doppia fila: lui scese insieme a un uomo, lo stesso che lo accompagnava il giorno prima, un tizio moro, con occhiali, di statura media e corporatura robusta, che portava una valigetta in mano. Salirono le scale ed entrarono. L’autista rimase in macchina, poco dopo fu raggiunto da una guardia municipale che stava all’angolo e incominciarono a chiacchierare, sembrava si conoscessero, certamente si incontravano tutti i giorni. A quel punto arrivò un autobus, continuavo a ragionare sulla presenza di osservatori e dal momento che stavo lì già da cinque minuti saltai sopra per scendere alla fermata successiva. Tornai indietro, entrai nella chiesa e rimasi dietro, vicino l’acquasantiera. Era già passata mezza messa.

    JON: Nel frattempo io lo avevo già visto arrivare, lento, tranquillo, con la faccia da aristocratico. Dietro c’era il signore con la valigetta il quale, arrivato alla mia altezza, però dall’altro lato, quello sinistro, si collocò sul banco all’estremità, quasi sul corridoio centrale. Carrero proseguì per il corridoio laterale, avanzò in direzione dei primi banchi e si sedette sul secondo o sul terzo. Lui seguiva la messa in piedi, molto rigido, mentre io seguivo tutto quello che faceva. Arrivato il momento della comunione si diresse all’inginocchiatoio di fronte all’altare, io gli stavo dietro. Ricordo di essermi messo alla sua destra, totalmente concentrato, tanto che quando mi inginocchiai, senza rendermene conto, apparì un tizio dietro, praticamente incollato a me. Rimasi molto impressionato perché stavo guardando Carrero, lo avevo riconosciuto, e mi trovavo accanto a lui pensando a quanto sarebbe stato facile fargli qualcosa, sparargli. Io portavo la pistola alla cinta, successivamente non la portai più perché ritenemmo che fosse un’imprudenza girare armati, poteva succedere qualsiasi cosa, un controllo, una rissa, così decidemmo di recarci alla chiesa disarmati, ma quei primi due giorni portavamo la pistola, e sembrava tutto facile… Mi ricordavo di quello che la gente dice di queste persone, che sono immortali, che non si possono avvicinare, io stesso avevo sempre pensato che un uomo così fosse difficilissimo da colpire, del resto avevo sempre sentito dire che colpire Franco o gente di questa levatura fosse impossibile… Ero in questo stato emotivo quando, alzando gli occhi, mi rendo conto che c’è un uomo dietro, vicino a me sulla sinistra, sembra quasi che voglia separarmi da lui. Doveva avere circa trent’anni o forse meno, molto alto, biondo mi pare, e mi osservava in maniera impertinente, cazzo. Mi fece una grande impressione, ritornai a posto e non lo vidi più. Quando la messa terminò Carrero si riunì al signore anziano del giorno prima e uscì insieme a lui. Il tizio della valigetta seguiva a distanza di sicurezza. Poi si ripeté il copione già visto: sulla scale il vecchio si congedava da Carrero e raggiungeva la sua automobile, mi pare fosse una Morris rossa, dove lo aspettava un ragazzo robusto, di circa vent’anni, con la faccia da guardia del corpo. Lo rividi varie volte però non so chi sia l’anziano né che funzione avesse il giovane. Intanto Ogro, seguito dal signore della valigetta, montava sulla Dodge.

    Lo chiamavate così?

    JON: Sì, lo chiamavamo così a causa della sua faccia da orco, ciglia folte, molto villoso, faceva davvero impressione.

    MIKEL: Lo abbiamo cominciato a chiamare così dall’inizio, così è diventato parola d’ordine fra noi per denominare l’operazione: «Operazione Ogro».

    JON: Quello stesso giorno, mentre Ogro parlava con il vecchio sulle scale prima di andarsene, più tardi ci saremmo resi conto che era una scena usuale, mi accorsi che l’uomo della valigetta stava tutto il tempo con la giacca abbottonata e la mano appoggiata proprio sopra i bottoni, quindi era probabile che portasse armi e che fungesse anche da guardia del corpo, oltre che da segretario.

    MIKEL: Scoprimmo il percorso quello stesso giorno. Scese per la calle Serrano e girò a sinistra verso calle Juan Bravo, come ci eravamo accorti aveva fatto il giorno prima. Per caso all’uscita prendemmo per calle Serrano verso su, in direzione contraria alla sua, verso calle Diego de León. Jon mi prende il braccio, si arresta e comincia a osservare l’automobile di Ogro che in quel momento stava passando proprio di fronte a noi, superava calle Serrano per parcheggiare in calle Hermanos Bécquer. Ritornava di nuovo a casa, faceva un giro obbligato a causa dei sensi unici e rientrava nella sua abitazione.

    JON: Immaginammo quale fosse il percorso e lo ripetemmo per conoscere le vie: Serrano, Juan Bravo, Claudio Coello, Diego de León, Hermanos Bécquer. Poi ci recammo in una libreria per comprare una mappa di Madrid e controllammo la zona sulla cartina.

    MIKEL: Tutto ciò facilitò molto il lavoro di osservazione e fu molto importante quando, successivamente, cambiammo i termini dell’azione. All’inizio eravamo andati solo a osservare il percorso da casa sua alla chiesa e l’uscita, non ci era capitato di seguirlo per vedere dove andasse perché pensavamo si recasse al lavoro, molto lontano. Questa notizia ci diede molte più possibilità di azione.

    JON: Il giorno seguente controllammo e in effetti il percorso era lo stesso. Quello stesso giorno ce ne andammo, contenti perché avevamo verificato che l’informazione ricevuta dall’Organizzazione era esatta e poteva dare luogo a sviluppi positivi.

    Quanto tempo avete trascorso?

    MIKEL: Non molto, come detto, per le feste stavamo qui, il 20 dicembre ero già a Pamplona5. Durante questo periodo andammo alla messa delle nove tutte le mattine. Facevamo i turni, un giorno lui rimaneva fuori a osservare l’arrivo, i movimenti dell’autista, le persone che sarebbero potute entrare dietro Ogro, io stavo dentro, dietro il tizio con la valigetta, che poi cominciammo a chiamare la guardia del corpo. Il giorno dopo era il contrario.

    JON: In questo modo ci siamo potuti accorgere di vari dati utili a darci un’idea della situazione. Quando lui entrava, ad eccezione della guardia del corpo, non c’era nessuno che lo seguisse. Non lo seguiva sempre la guardia del corpo con la valigetta, a volte lo sostituiva un signore biondo con un cappotto blu, piuttosto elegante. Dunque Ogro aveva almeno due guardie del corpo ed era possibile che ci fosse qualcun altro dentro, che poteva benissimo vestire in borghese ed essere entrato prima, ho visto parecchie volte diversi giovani. Ogni volta che andava a prendere la comunione, ed è stato quasi sempre così, c’era sempre un ragazzo fra i venticinque e i trent’anni, non so se fosse sempre lo stesso, che si piazzava vicino a me separandomi da Ogro. Non so se sia stato un caso, è pur vero che in una situazione come questa tutti ti sembrano poliziotti, ma questa fu la mia impressione. Magari è stata solo una casualità, in effetti non vidi nessuno uscire con lui, neanche in seguito; è anche possibile che quando mi avvicinavo, essendo l’inginocchiatoio pieno di gente, mi mettevo logicamente in piedi e di dietro, cosa che faceva pure quello dietro di me, però io ero tesissimo. Avere una persona incollata alle mie spalle, in quella situazione, mi inquietava.

    MIKEL: Quando sono entrato io questi giovani non li ho mai visti. Ragazzi ce n’erano ma erano normali, andavano a prendere la comunione, in quell’orario entravano parecchi giovani e non tutti per sentire la messa. Certamente eravamo pieni di timore e osservavamo tutto e tutti. Mi misi varie volte proprio dietro la guardia del corpo, che era solito restare in piedi con lo sguardo rivolto a Carrero, a volte con le braccia incrociate davanti, altre volte dietro con una mano nell’altra. Pensai tante volte che era possibile aggredirlo e immobilizzarlo. Immagina che ero talmente vicino che, se mi fossi inginocchiato, con il naso avrei toccato le sue dita.

    JON: Accertammo anche che arrivava tutti i giorni alla stessa ora, le nove e un minuto, e due minuti, puntualissimo, e che poi compiva sempre lo stesso percorso, eccetto il sabato e la domenica, in questi giorni non ci fu mai.

    TXABI: Non veniva, noi fummo presenti varie volte, anche nel corso della seconda tappa, ma non lo vedemmo mai.

    JON: Un’altra cosa che annotammo fu il numero di targa, una Dodge nera targata PMM 17.416, pensammo che fosse un’auto corazzata. MIKEL: Poi, quando venne la primavera e il mese di maggio, la situazione cambiò, non c’era molta gente. Un giorno contai trenta persone, un altro quaranta e qualcosa, non arrivavano mai a cinquanta, in un luogo davvero enorme, con navate ampie e una cupola altissima. Tutto rimbombava, le porte, i tacchi delle donne, quando ci si inginocchiava nei confessionali era tutto un cigolio. Tutte queste persone si collocavano nella parte davanti, più qualcuno sparso nel resto dei banchi. In gran parte erano anziani, qualche prete, vecchietti, qualcuno di sicuro doveva essere un militare perché

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