Alla scoperta dei segreti perduti di Milano
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Info su questo ebook
Passeggiare sopra una galleria di ferro e vetro; fare un bagno in una piscina degli anni Trenta in attesa di assistere a uno spettacolo teatrale; rifugiarsi all'orto botanico tra piante secolari e spezie esotiche; entrare nella Casa della Memoria e sentirsi parte della Storia; salire su un palco con una vista mozzafiato tra Castello Sforzesco e Arco della Pace; ascoltare un concerto di campane rigorosamente ambrosiano; perdersi tra falegnami e costumisti nei laboratori della Scala; veder crescere lo “Storto” di Zaha Hadid, piano dopo piano, alla velocità della luce. Tutto questo è possibile a Milano, una città storicamente abituata al cambiamento e che oggi continua a rivestire un ruolo da protagonista. Un viaggio nella storia e nell'arte, tra tradizioni, capolavori e curiosità, per raccontare luoghi, personaggi e storie meno note ai più, ma preziose per svelare il volto di Milano.
Un viaggio nella storia e nell’arte, tra tradizioni, capolavori e curiosità, per raccontare il volto di Milano
Alcuni dei luoghi e dei misteri da scoprire:
• a piedi nudi nel parco: il teatro continuo di Alberto Burri
• nuove prospettive: in piazza Gae Aulenti come a New York
• l’ombelico della città: la cripta della chiesa di San Sepolcro
• il sottomarino Toti: viaggio negli abissi della storia
• Lucio Fontana al cimitero monumentale
• Dario Fo alla Palazzina Liberty
• Zaha Hadid a Citylife
• l’esercito di legno delle marionette Carlo Colla e figli
• una piazza, il gamba di legno, una farmacia e un principe innamorato
• il conte di Carmagnola, la dama con l’ermellino e il Piccolo Teatro
Giacinta Cavagna di Gualdana
È storica dell'arte e collabora con l'Università degli Studi di Milano. Nel 2010 ha curato la prima monografia su Giovanni Gariboldi, allievo di Gio Ponti. Affascinata dalla storia di Milano, cura visite guidate, sia per adulti che ragazzi, alla scoperta della città e dei suoi capolavori, attraverso itinerari inconsueti.
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Anteprima del libro
Alla scoperta dei segreti perduti di Milano - Giacinta Cavagna di Gualdana
Indice
Cover
Collana
Colophon
Frontespizio
Introduzione
Luoghi
I. Il visitatore compulsivo
II. Il visitatore riflessivo
Personaggi
Storie
I. Per una giornata di pioggia
II. Per una giornata di sole
Bibliografia
em381
Prima edizione ebook: ottobre 2017
© 2017 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
by arrangement with Walkabout Literary Agency
ISBN 978-88-541-9946-0
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Corpotre, Roma
Giacinta Cavagna di Gualdana
Alla scoperta dei segreti perduti di Milano
Itinerari per scoprire nuovi scorci, tra leggende, aneddoti e tradizioni
ominoNewton Compton editori
Alle mie A, maiuscole e minuscole
Introduzione
Passeggiare sopra una galleria di ferro e vetro; fare un bagno in una piscina degli anni Trenta in attesa di assistere a uno spettacolo teatrale; rifugiarsi all’Orto botanico tra piante secolari ed esotiche spezie; entrare nella Casa della Memoria e sentirsi parte della Storia; salire su un palco con una vista mozzafiato tra il Castello Sforzesco e l’Arco della Pace; perdersi negli abissi del mare con le storie del sottomarino Toti; ascoltare un concerto di campane e scoprire che oltre al rito anche il suono può essere ambrosiano; perdersi tra falegnami e costumisti nei laboratori del Teatro alla Scala; veder crescere lo Storto
di Zaha Hadid, piano dopo piano, alla velocità della luce; tornare bambini ed emozionarsi davanti alle marionette Colla, di nuovo in scena al Teatro Gerolamo; rivivere le atmosfere di una cittadella del Quattrocento o di un grande albergo che non c’è più; entrare in chiesa in primavera e stupirsi davanti a un presepe allestito; fare una caccia al tesoro sulle terrazze del Duomo, nei corridoi del Tribunale o tra le tombe del cimitero.
Tutto questo è possibile a Milano, una città storicamente abituata al cambiamento e che oggi, due anni dopo expo, continua a essere protagonista. Luoghi, personaggi e storie: così racconto la mia città.
E il racconto svela tradizioni, capolavori e curiosità.
I Luoghi sono i protagonisti della prima parte: alcuni adatti al visitatore compulsivo, veloce ma non distratto, abituato alla frenesia milanese ma attento: monumenti ed edifici si mostrano per quello che sono e invitano a entrare, almeno alla prossima occasione; altri invece sono scelti per il visitatore riflessivo, vocato allo studio, che non resiste alla tentazione di approfondire, chiedere e curiosare.
La seconda parte, invece, è un viaggio nella macchina del tempo che ci porta a incontrare i Personaggi che, secolo dopo secolo, hanno lasciato e continuano a lasciare un segno indelebile nella città.
Infine, la terza e ultima parte è dedicata alle Storie: pretesto, in una giornata di sole, per passeggiare per la città; occasione, in una giornata di pioggia, per entrare in una casa, in un museo, in un negozio o in una pasticceria.
Questo libro non vuole essere una guida esaustiva di Milano, guide che storici dell’arte molto più preparati di me hanno redatto e pubblicato; non ha la pretesa di sostituire l’intramontabile guida rossa del Touring che chi fa il mio mestiere tiene sempre in borsetta, ma vuole incuriosire e divertire, almeno una decima parte di quanto io mi sono divertita a studiare, cercare, approfondire e scrivere. È stata per me la scusa per tornare a zonzo per la mia città e l’occasione per disturbare artisti, commercianti, architetti e quanti avevano ai miei occhi una bella storia da raccontare. A questo proposito ringrazio tutti quelli che si sono lasciati disturbare e hanno condiviso con me tempo, sapere, ricordi ed entusiasmo: sono stati incontri preziosi.
La vita è fatta di incontri, il più delle volte inaspettati. Milano, lo so, me ne regalerà altri: e chissà che i prossimi non torneranno a essere impressi, oltre che nei miei inseparabili taccuini, anche sulla carta stampata?
E allora a tutti voi, buona lettura.
Milano, 15 febbraio 2017
g. c. g.
Luoghi
0_Pagina_011_Immagine_00010_Pagina_012_Immagine_0001La cupola con la guglia della Madonnina, in un’incisione tratta da La Patria di
Gustavo Strafforello.
i. il visitatore compulsivo
Sotto lo sguardo della Madonnina: il Duomo, un direttore d’orchestra, un pugile e un piccione
auf, Ad Usum Fabricae: con questa sigla, incisa sulle fiancate, le piatte, dirette al cantiere del Duomo, entrano in città scivolando sui navigli senza dover pagare alcuna tassa e pedaggio. Trasportano blocchi di marmo di Candoglia, destinato esclusivamente alla Veneranda Fabbrica del Duomo per volere di Gian Galeazzo Visconti. A lui, infatti, si deve la posa della prima pietra, nel 1386, e la dedicazione a Maria Nascente. I lavori saranno lunghi, tanto da diventare proverbiali: ed è così che la costruzione della cattedrale milanese, non ancora terminata, è già un cantiere di restauro. Il marmo è ovunque: dai pilastri alle guglie, dai capitelli ai contrafforti. Una dettagliata antologia della storia dell’arte scultorea e dell’architettura: dal gotico al Rinascimento, dalla Controriforma allo Storicismo, fino agli interventi più recenti. Una cattedrale davvero viva e in continuo divenire, che imprime nelle sue oltre 3400 statue usi, tradizioni e vicende della sua città, fino ai nostri giorni. Nel 2006 viene collocata su un capitello dei piloni principali, all’interno della cattedrale, la statua di padre Luigi Monti, religioso laico fondatore della Congregazione dell’Immacolata Concezione beatificato da papa Giovanni Paolo ii, rappresentato con un fanciullo tra le braccia e mano nella mano con un adolescente; nel 2013 su una mensola esterna del lato est, tra via Cardinal Martini e piazza del Duomo, viene posta la statua di don Carlo Gnocchi rappresentato mentre abbraccia un bambino mutilato. Passeggiare sulle terrazze del Duomo è un’occasione per avventurarsi tra doccioni e pinnacoli e per ripercorrere le diverse fasi della storia della cattedrale. Il tetto è formato da un sistema di terrazze digradanti: da qui si ammira il tiburio – costruito nel 1500 su progetto degli architetti Gian Giacomo Dolcebuono e Giovanni Antonio Amadeo, dopo che anche Leonardo da Vinci e Donato Bramante erano stati interpellati e avevano schizzato le loro proposte – e i quattro gugliotti che lo sovrastano con le statue dei quattro evangelisti; lo sguardo si perde tra le 135 guglie, una diversa dall’altra, e il fitto sistema di falconatura, tipico dell’architettura gotica, che attraverso piccole piramidi, fiocchi, fiori e foglie, dà la sensazione di un elegante tessuto a merletti: dalla guglia Carelli, la prima a essere eretta, nel 1404, dedicata a un mercante veneziano e generoso mecenate, Marco Carelli, sovrastata dalla statua di san Giorgio con le sembianze di Gian Galeazzo Visconti, alla Madonnina dorata, simbolo della città, che osserva il fermento della piazza, stretta tra la Galleria Vittorio Emanuele, l’Arengario e Palazzo Reale. Tra santi, fiori e foglie sono nascosti molti personaggi. Come in una vera caccia al tesoro tra gli elementi decorativi ci si può imbattere in Dante Alighieri con corona d’alloro o trovare anche la testa di Mussolini con barba e turbante. A conferma del fatto che la Veneranda Fabbrica del Duomo è cantiere vivo e a contatto con il presente, trovano spazio, tra le fonti d’ispirazione, all’inizio del Novecento anche un direttore d’orchestra protagonista nella storia del Teatro alla Scala al quale si deve l’ordine e la disciplina delle serate scaligere, Arturo Toscanini, e, negli anni Trenta, due campioni di pugilato dalla fama internazionale: Primo Carnera, campione di pesi massimi tra il 1933 e il 1934, e Erminio Spalla, campione europeo negli anni Venti.
Guardando bene, si trovano anche una racchetta da tennis e un piccione, omaggio ai numerosi frequentatori della piazza. Dove? Non si può dire, altrimenti che caccia al tesoro sarebbe? Per fortuna ci sono i guardiani, preziosi custodi del patrimonio meneghino e delle sue storie.
0_Pagina_015_Immagine_0001La piazza del Duomo in una litografia tratta da un disegno di S. Prout, Londra 1839.
La Galleria Vittorio Emanuele: prospettive inaspettate
Un quadro di Domenico Induno esposto nelle sale del museo di Palazzo Morando/Costume Moda Immagine, racconta la cerimonia della posa della prima pietra della Galleria Vittorio Emanuele: è il 7 marzo 1865, sotto una nevicata straordinaria, alla presenza del re e dell’autore del maestoso progetto, l’architetto emiliano Giuseppe Mengoni (Fontana Elice 1823-Milano 1877), iniziano i lavori per la costruzione del primo edificio in ferro e vetro in Italia, seguendo l’esempio di Francia e Inghilterra.
Dopo centocinquant’anni, in occasione di expo, viene inaugurata la passerella sopra i tetti della galleria, la Highline Galleria, un inusuale percorso panoramico, lungo 250 metri, che corre lungo la struttura e che collega, rigorosamente dall’alto, la piazza del Duomo a piazza della Scala. Lo sguardo si perde nello skyline milanese, guardando la città che sale, di futurista memoria, tra nuovissimi grattacieli – dal Bosco Verticale dello studio Boeri alla Torre Unicredit di César Pelli, dalla Torre Diamante di Kohn Pedersen Fox al Dritto di Arata Isozaki – e grandi classici – dalle guglie del Duomo, qui a una distanza ravvicinata, alla Torre del Filarete del Castello Sforzesco. Osservando, poi, gli originali camminamenti di manutenzione, sopra i quali sono state costruite le passerelle e il geometrico telaio di metallo, il viaggio nella storia continua, in un avvincente dialogo tra presente e passato: dalle lunghe fasi di lavorazione, tra calamità naturali – una grandinata nel giugno 1874 distrugge come una mitraglia tutta la tettoia – critiche e problemi di budget, allo smantellamento degli ultimi ponteggi, fatali per Mengoni che muore cadendo da un’impalcatura durante un ultimo controllo, proprio il giorno prima della cerimonia, fissata il 31 dicembre 1877. Il salotto di Milano è però ormai compiuto: capolavoro di arte, tecnica e mondanità. Sotto un tetto trasparente, tra stucchi, mosaici e decorazioni eleganti, la galleria ha preso vita con i suoi bar, ristoranti e negozi: la storica caffetteria Biffi, la sede dell’editore Ricordi, il caffè Gnocchi, la Fiaschetteria Toscana, la birreria Stocker, che poi diventa alla fine del secolo il ristorante Savini, quartier generale dell’avanguardia futurista, guidata da Filippo Tommaso Marinetti. Il liquorista Gaspare Campari trasferisce in galleria la bottega che aveva sotto il Coperto del Figini, smantellato durante i lavori: qui offre ai suoi ospiti uno speciale aperitivo, il Bitter, da lui stesso miscelato, alla maniera dell’Olanda. La famiglia Campari vive proprio sopra il caffè e qui nasce Davide Campari, il papà di tutti gli aperitivi, serviti al bancone liberty del Camparino, affacciato sulla cattedrale. Musicisti, cantanti, impresari, viaggiatori, artisti, gentiluomini e gentildonne animavano la Galleria sia di giorno che di sera. Dal 1867, infatti, la Galleria era illuminata con lampade a gas: un ingegnoso marchingegno inventato da un operaio delle officine del gas, Battista Morandi, insieme al direttore tecnico del cantiere, Giuseppe Chizzolini, aveva risolto il problema dell’accensione dei lampioni: el Rattin
, un topolino intriso di liquido infiammabile, correva lungo delle rotaie e accendeva seicento luci, a 30 metri di altezza, sotto gli occhi incantati di molte persone che si godevano la magia dello spettacolo. Nel 1881, in occasione dell’Esposizione Nazionale, le lampade a gas vengono sostituite da lampade elettriche. Oggi come ieri, la galleria è un salotto, caro ai milanesi, che numerosi, nascosti tra i turisti, passando vicino al mosaico del toro sotto la cupola, non resistono alla tentazione e volteggiano scaramanticamente sugli attributi dell’animale, riprendendo una tradizione centenaria: sotto alla cupola della galleria gli impresari usavano incontrare musicisti e cantanti in cerca di lavoro, e questi nella speranza di ottenere qualche parte, calpestavano le palle
del povero toro.
L’interno della Galleria Vittorio Emanuele II, in un’incisione dell’Ottocento.
Le scuderie dell’arcivescovo
Tra l’uscita della sede del Comune e quella delle sale espositive di Palazzo Reale, anche l’occhio più distratto – che sia perso tra documenti e scadenze o che sia ancora rapito dai capolavori visti a una mostra – rimane colpito dalla vista di un edificio poligonale incastonato tra via delle Ore e il Palazzo Arcivescovile: è la Rotonda del Pellegrini, costruita nel Cinquecento come stalla per muli e cavalli, annessa alla sede arcivescovile. Il palazzo, di origini medievali e sede della curia dai tempi antichi viene sottoposto a una radicale trasformazione architettonica per volere di Carlo Borromeo (Arona 1538-Milano 1584): nel 1566, fresco di nomina ad arcivescovo della diocesi milanese e attento esecutore dei dettami stabiliti dal Concilio di Trento da poco concluso, vuole riadattare il palazzo per adeguarlo alle nuove esigenze, in modo da ospitare i diversi uffici richiesti dalla Riforma della Chiesa, gli appartamenti privati dell’arcivescovo e dei canonici e una piccola cappella. Dopo una prima fase di pulizia e smantellamento dei locali, molti ancora occupati dal Palazzo di Giustizia con i suoi ufficiali e soldati, viene chiamato Pellegrino Pellegrini de Tibaldi (Puria 1527-Milano 1596). È il 1573. L’architetto di fiducia del Borromeo, al quale sono commissionati importanti progetti della Milano della Controriforma – dalla chiesa di San Fedele al Tempio civico di San Sebastiano, dalla chiesa di San Carlo al Lazzaretto al pavimento per la Veneranda Fabbrica del Duomo – si conferma perfetto interprete dello spirito del committente. Un portale maestoso sormontato dallo stemma dei Borromeo introduce, dall’attuale piazza Fontana, al cortile dei canonici con doppio loggiato, uno degli esempi più riusciti di architettura manierista, e agli appartamenti caratterizzati da locali semplici, disadorni e privi di decorazioni pittoriche. L’arcivescovo è certamente uomo attivo ed energico, instancabile nelle visite pastorali attraverso la grande diocesi. Muli e cavalli sono compagni inseparabili. Le scuderie sono quindi parte integrante del progetto di rinnovamento. Le stalle devono essere vicine e direttamente collegate con il palazzo; gli animali da ricoverare sono tanti, lo spazio limitato. L’architetto risolve la questione con grande astuzia e intelligenza e progetta una pianta centrale poligonale che si sviluppa verticalmente, su tre livelli. La scuderia è costituita da uno spazio decagonale, coperto da una volta, e da un ambulacro che gli corre intorno, scandito da colonne, di ordine diverso a seconda dei piani: dal tuscanico al dorico fino allo ionico. Al centro è il disimpegno dove confluiscono gli scarichi, tutto intorno vengono ricoverati i cavalli, in totale diciotto. La parte più alta è destinata a fienile. Possiamo immaginare l’arcivescovo che sul suo cavallo sale i gradini realizzati pensando al passo dell’animale e raggiunge l’ingresso della scuderia superiore: qui un elegante pronao tetrastilo che riprende gli elementi architettonici e decorativi dei templi classici ci fa dimenticare per un attimo di essere davanti a una stalla. Dalla fine del secolo (i lavori sono certamente conclusi nel 1595, quando vengono dettagliatamente descritti in occasione di una visita pastorale di Federico Borromeo) fino alla fine dell’Ottocento, finché circolano le carrozze, la scuderia viene usata quotidianamente ed è interessata solo da lavori di ordinaria manutenzione. Quando i motori e le macchine prendono il sopravvento, la rotonda inizia a essere usata sempre meno, fino al totale abbandono. Sarà l’architetto milanese Luigi Caccia Dominioni (Milano 1913-2016), nel dopoguerra, a ristrutturare questi spazi, nel rispetto della tradizione e della storia. I locali, eleganti e raffinati nella semplicità, tornano a vivere e diventano una sede culturale. Dal dicembre 1950, infatti, sono affidati alla Fondazione culturale Ambrosianeum, una realtà nata formalmente nel gennaio 1948, da un’idea dell’arcivescovo Schuster, come spazio di cultura cristiana e strumento di dialogo e confronto: da più di settant’anni – con tavole rotonde, letture, conferenze, dibattiti su temi di attualità religiosa, politica, economica e sociale – è una presenza viva nel panorama culturale della città, tanto da meritarsi nel 2015 l’Ambrogino d’Oro.
0_Pagina_021_Immagine_0001Il cardinale Federico Borromeo in un’incisione del Seicento, in cui si descrivono le chiese e i monasteri che fondò.
La lunga vita di palazzo Isimbardi
Le origini di palazzo Isimbardi risalgono alla seconda metà del xv secolo, quando questa zona di Milano, tra corso Monforte, corso Indipendenza e corso Venezia, era un’oasi di verde, e ospitava ricoveri, cascine e conventi. Nel testamento del 1497 il marchese Gerolamo Pallavicino cita la sua umile dimora, una cascina immersa nell’autentica campagna, a pochi passi dalla prestigiosa chiesa di Santa Maria della Passione. Il contesto inizia a modificarsi quando, durante la dominazione spagnola, il governatore Ferrante Gonzaga impone ai milanesi la costruzione di una lunga cinta di mura: è così che nell’area tra il naviglio e la cerchia spagnola
le famiglie nobili milanesi iniziano a costruire, secondo la moda del tempo, case di delizie, ville fuori dal caotico centro della città che permettevano svaghi, intrattenimenti, feste durante la bella stagione (esattamente come succede ora, ma con altre distanze). La famiglia Taverna nel 1552 acquista l’edificio e lo trasforma in un palazzo elegante e raffinato caratterizzato da loggiati, portici, scuderie e, sul retro, uno splendido giardino all’italiana. Alla porta del palazzo bussa, nel 1609 circa, Gian Paolo Osio, il famoso e crudelissimo amante della monaca di Monza di manzoniana memoria: sperava di trovare un rifugio dall’amico Ludovico e invece si ritrova ucciso a tradimento nelle cantine e, dicono, murato in una nicchia. Nel 1731 il palazzo viene acquistato dai conti Lambertenghi, che, come spesso succede, decidono di sottoporre l’edificio a un generale restyling, in linea con il gusto imperante, il barocchetto lombardo. Passano pochi decenni e in occasione di un altro cambio di proprietà – nel 1775, arriva la famiglia Isimbardi di origine pavese, in cerca di un pied-à-terre
in città – ci sono altri restauri, ampliamenti e ammodernamenti. Le sale si arricchiscono di stucchi, luminosi lampadari veneziani e porte laccate. Anche il giardino si trasforma e, ancora una volta seguendo la moda del momento, acquista fattezze romantiche con grotte, collinette artificiali, pini dell’Himalaya, ginkgo biloba e ippocastani. La facciata verso il giardino viene rifatta nel 1826 in stile neoclassico dall’architetto Giacomo Tazzini. Dal 1918 la proprietà passa alla famiglia Tosi, industriali, e infine, nel 1935 diventa la sede della Provincia di Milano. Gli spazi presto si dimostrano insufficienti e inadeguati: viene incaricato Ferdinando Reggiori di ridare al palazzo le caratteristiche originarie recuperando gli antichi elementi e Giovanni Muzio di costruire un nuovo palazzo affacciato su via Vivaio da destinarsi a uffici, archivio, economato. Il nuovo edificio, in stile razionalista, viene inaugurato il 24 ottobre 1942. Dopo poche ore tutti i vetri crollano, sotto i primi bombardamenti che colpiscono la nostra città. In effetti negli anni della seconda guerra mondiale la zona è calda
da un punto di visto politico: la sede della Prefettura in palazzo Diotti ospita Mussolini, e poco più in là, Villa Necchi Campiglio, confiscata in quei tempi, è quartier generale del gruppo fascista. Il giardino di palazzo Isimbardi si trasforma in un affollato e nascosto crocevia. Immaginiamo Mussolini che, al riparo da sguardi indiscreti, si sposta da un edificio all’altro a studiare una situazione sempre più critica o, spesso, in fuga tra le braccia dell’amante Claretta Petacci o di corsa verso la Torre delle Sirene, il rifugio antiaereo posto tra i palazzi Isimbardi e Diotti, ancora visibile dal giardino del palazzo. In cemento armato, ha la forma di una grossa matita: la punta serviva a deviare le bombe e il suono delle sirene avvisava la popolazione delle imminenti incursioni aeree.
Palazzo Isimbardi nel Settecento in un’incisione di Marc’Antonio Dal Re.
milanese. scrisse, amò, visse. Stendhal ospite a palazzo Bovara
Una mattina del 1800, all’alba, un giovane tenentino diciassettenne
dell’esercito napoleonico attraversa un elegante portale di un palazzo affacciato sul corso della Riconoscenza – l’attuale corso Venezia – ed entra nei saloni dell’ambasciata francese. Da pochi decenni, grazie all’intervento e alla volontà di Maria Teresa d’Austria, quella che era una strada sterrata poco frequentata si sta trasformando in un’elegante e aristocratica passeggiata, al pari di corsia del Giardino o di corso di porta Romana, grazie a un serrato programma di rinnovamento estetico: l’Acqualunga, una vera e propria fognatura a cielo aperto, viene interrata; l’architetto Giuseppe Piermarini disegna i giardini pubblici, i primi a livello europeo a essere pensati appositamente per lo svago e il divertimento dei cittadini; alcune famiglie nobiliari milanesi abbandonano le loro più centrali residenze per nuovi e più moderni palazzi, affidando i lavori ad architetti affermati e di successo (Leopold Pollack realizza Villa Belgiojoso, mentre la famiglia Serbelloni affida a Simone Cantoni il progetto del palazzo, all’angolo con il naviglio di via Senato). Il giovane tenentino altri non è che Marie-Henri Beyle, conosciuto come Stendhal (Grenoble 1783-Parigi 1842), lo scrittore francese autore de Il rosso e il nero e La certosa di Parma che qui verrà ospitato durante il suo primo soggiorno nella capitale della Repubblica cisalpina. La città meneghina con i suoi cortili, i suoi chiostri, le sue chiese e i suoi eleganti palazzi, ammalia e affascina lo scrittore francese a tal punto che una breve visita si trasforma in lunghi e ripetuti soggiorni. Le giornate scorrono veloci e appassionate: di giorno a curiosare in angoli nascosti e luoghi preziosi, di sera tra i salotti mondani e i palchi scaligeri, dove incontra e frequenta letterati, artisti, intellettuali e, perché no, giovani e belle donne. L’amore per la nostra città sarà così forte che vorrà inciso come epitaffio sulla sua tomba a Parigi: Milanese Scrisse Amò Visse
e così vorrà essere ricordato ai posteri. L’ambasciata francese in quel periodo è ospitata nell’elegante palazzo Bovara, un edificio neoclassico che ben si inserisce nel contesto della strada. Progettato dall’architetto Felice Soave nella seconda metà del Settecento si presenta con una sobria facciata a tre piani, su cui spicca il portale, unico elemento decorativo, con colonne doriche scanalate che sorreggono un delicato balcone in pietra. I lavori vengono commissionati dal conte Giovanni Bovara, professore all’Università di Pavia ed eletto da Napoleone ministro dei culti del Regno italico. Il palazzo guardava il convento dei Cappuccini, che sorgeva dove, pochi anni dopo la fine dei lavori, viene costruito palazzo Rocca Saporiti, un altro esempio dell’architettura neoclassica milanese. Oggi il palazzo, sottoposto dall’architetto Piero Portaluppi a un accurato restauro per lenire le ferite delle bombe incendiarie della guerra, è proprietà del Circolo del commercio e nelle eleganti sale, riportate al loro antico splendore con stucchi dorati e decorazioni originali, vengono organizzati ricevimenti e feste.
Marie-Henri Beyle, detto Stendhal (1783-1842) nel ritratto di O.J. Södermark conservato a Versailles.
Nuova vita a San Carlo al Lazzaretto
Alla fine del Quattrocento, gli Sforza, già impegnati nella costruzione dell’Ospedale Maggiore, afflitti dalle gravi pestilenze che periodicamente colpiscono il ducato, promuovono la costruzione di un luogo dedicato alla cura e all’isolamento degli appestati. Lontano dalla città e circondato da un canale d’acqua corrente, nasce, oltre porta Orientale, il Lazzaretto, la cui storia, per ironia della sorte, è legata a due Lazzari: Lazzaro Cairati, notaio dell’Ospedale Maggiore e impresario edile, ne promuove l’iniziativa e il progetto; Lazzaro Palazzi, invece, è, secondo la tradizione, l’autore del progetto: seguace del Filarete e del Bramante, l’architetto riprende la struttura razionale della Ca’ Granda: un vasto recinto quadrato con un edificio porticato su cui si aprono le duecentottantotto camere destinate ai malati. In linea con la sua destinazione ospedaliera e nel rispetto delle regole sanitarie, la forma quadrata facilita la suddivisione degli spazi necessaria nei casi di peste: sospetto, malattia, convalescenza e servizi. Al centro un altare panottico è visibile da tutte le stanze. I lavori iniziano nel 1488 e terminano nel 1509: il Lazzaretto presto è già in frenetica attività: nel 1524 la peste detta di Carlo v
dilaga in città (si contano cinquantamila morti, quasi la metà degli abitanti di Milano) e le decine di camere non sono sufficienti ad accogliere i sempre più numerosi malati; pochi decenni dopo, nel 1576, una nuova epidemia si diffonde: è la peste detta di san Carlo
, in ricordo del ruolo da