Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

The darkness of mind
The darkness of mind
The darkness of mind
E-book363 pagine4 ore

The darkness of mind

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Nella clinica psichiatrica Green Pine, la dottoressa Claire Brahan svolge un lavoro impeccabile. I pazienti la adorano, i membri dello staff la ammirano. La sua vita ha finalmente preso la giusta piega e tutto va per il meglio, finché tra i pazienti non arriva Johnny, il suo ex fidanzato, scomparso nel nulla cinque anni prima. L'uomo è in stato catatonico e il suo corpo è segnato da terribili cicatrici. Nonostante le difficoltà, Claire cercherà di scoprire cosa è accaduto, precipitando in una realtà fatta di omicidi, tradimenti e capacità paranormali.
LinguaItaliano
Data di uscita12 ott 2013
ISBN9788868556464
The darkness of mind

Correlato a The darkness of mind

Ebook correlati

Fenomeni occulti e soprannaturali per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su The darkness of mind

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    The darkness of mind - Andrea Cucinotta

    Scrivere è un'occupazione solitaria.

    Avere qualcuno che crede in te fa una grande differenza.

    S. King

    La verità profonda, per fare qualunque cosa, per scrivere, per dipingere, sta nella semplicità. La vita è profonda nella sua semplicità.

    C. Bukowski

    Prefazione

    Questo libro lo devo solo ad una persona, senza la quale non avrebbe mai visto la luce. Le parole di Stephen King, che ho voluto citare all’inizio, sono più che vere. Io, per fortuna, ho avuto chi ha creduto in me, aiutandomi e sostenendomi in ogni momento.

    Quindi questo libro è per la mia Chiara. Senza di lei, non sarei nulla.

    Ritorno

    I

     Quando la vibrazione del cellulare sul comodino riuscì infine a penetrare nel sonno della dottoressa Claire Barhan, la sveglia digitale segnava le 3.32.

    Allungò il braccio senza aprire gli occhi, afferrò il telefono e lo portò all’orecchio.

    «Barhan» farfugliò.

    Silenzio. Ormai la chiamata era persa. Lottando contro il sonno che voleva riportarla nel suo mondo, Claire premette il tasto di sblocco del cellulare. La luce del display le ferì gli occhi socchiusi e subito voltò lo sguardo di lato, dando il tempo agli occhi di abituarsi.

    Questa volta me lo mangio. Pensò mentre tornava a guardare lo schermo del telefono. Chiunque sia, me lo...

    Il pensiero si bloccò quando mise a fuoco la scritta sul display. Sette chiamate perse, tutte provenienti dallo stesso numero, il suo ufficio.

    Il torpore abbandonò del tutto la sua mente mentre premeva il tasto di richiamata. L’unica volta in cui era stata chiamata con tanta insistenza dall’ufficio, era stato poco più di un anno prima, un’emergenza delle peggiori, finita nel modo peggiore.

    Ascoltando ora il suono della chiamata, pregò che non si trattasse di una cosa simile.

    «Claire, sei tu?» La voce era quella di Stefanie, capo infermiera e sua migliore amica.

    «Cos’è successo?» chiese.

    Il silenzio dall’altro capo del telefono la irritò. Non voleva essere brusca con Stefanie, le voleva un gran bene, ma la stanchezza prese il sopravvento.

    «Maledizione Stef, vuoi dirmi cosa diavolo è successo?» disse alzando la voce.

    «Scusa Claire» cominciò l’amica. Subito una punta di senso di colpa si fece sentire in Claire. «E’ solo che…» Un’altra esitazione, che le fece temere il peggio.

    «Coraggio gioia, dimmi» disse addolcendo la voce.

    «Beh, si tratta di un nuovo inserimento. Hanno portato un nuovo ospite e penso sia meglio che tu venga qui».

    Claire rimase in silenzio. Non riuscì subito ad afferrare il senso delle parole della sua amica.

    Inserimento? Un nuovo inserimento?

    Più quelle parole giravano nella sua mente e più sentiva la rabbia crescere, fino a traboccare.

    «Stai scherzando vero?» chiese tornando in un attimo al tono brusco di prima. «Sono le tre e mezza, ho staccato da neanche tre ore e tu mi chiami per un inserimento?»

    Il silenzio della capo infermiera alimentò lo sconcerto e l’ira di Claire.

    «Da quando in qua mi chiami per un nuovo inserimento? Che razza di scherzo è questo?» Ormai era un fiume in piena. Una parte della sua mente sapeva che l’amica sarebbe stata male per quella ramanzina, ma era una cosa tanto assurda essere chiamata in piena notte per un nuovo arrivo, che non riusciva a fermarsi.

    «Ho sempre visitato i nuovi al mattino, e non ho certo intenzione di fare un’eccezione adesso. Dio mio Steff, ma cosa…»

    «E’ John» sentì dire da Stefanie, e quel nome, oltre a farle perdere un battito del cuore, spense all’istante il suo furore.

    «Come hai detto?» Chiese con un filo di voce. Oltre al sonno e alla rabbia, anche la saliva aveva abbandonato il suo corpo.

    «E’ Johnny, Claire.» ripetè l’amica. «Il tuo Johnny».

    A bordo della sua utilitaria, Claire continuava a sentire nella mente le parole dell’amica.

    Il tuo Johnny.

    Non poteva essere vero, sicuramente c’era un errore. Da cinque anni, ormai, Johnny era scomparso. Era assurdo pensare che fosse riapparso così, all’improvviso. Come ospite per giunta.

    Si costrinse a rallentare e portare la lancetta del tachimetro sotto i settanta.

    Percorrendo i dieci chilometri che da casa la portavano alla clinica psichiatrica, Claire fu assalita da un deja-vu fortissimo.

    Erano passati tredici mesi dalll’ultima volta in cui percorse quella strada di notte. Quella volta a chiamarla fu Richard, il suo fidanzato, nonché operatore notturno della struttura. Uno degli ospiti era riuscito ad entrare nell’infermeria e minacciava di iniettarsi nella giugulare un mix di farmaci e detersivi. Arrivò alla clinica e parlò per quasi un’ora con il paziente, il signor Claude Bristol, schizofrenico-paranoide. Era quasi riuscita a fargli posare la siringa, quando un ritorno di fiamma di un’auto che passava vicino alla clinica, lo spaventò. In un attimo l’ago era scomparso nel collo del signor Bristol e, con esso, il liquido contenuto nella siringa. Seguirono i minuti peggiori della vita di Claire. Prima le grida, poi le convulsioni, infine la morte. Non più di due minuti, ma a lei parve un tempo infinitamente più lungo. Non dimenticò mai la sofferenza e il dolore sul viso del suo paziente. Non dimenticò mai come Richard, che cercava di tenere il corpo dello sventurato il più fermo possibile, fu sollevato da un’ultima tremenda convulsione. Non dimenticò mai la sensazione di sconfitta e fallimento che provò in quell’occasione.

    Svoltando nel viale che portava all’ingresso della clinica, ripenso a ciò che aveva provato quando aveva visto le chiamate di Stefanie. Aveva sperato con tutto il cuore che non fosse un’emergenza come quella di Bristol, e la sua speranza era stata esaudita. Non era un’emergenza, ma sarebbe potuto essere anche più devastante di ciò che accadde quella sera di tredici mesi prima.

    Si fermò davanti all’imponente cancello in ferro battuto. Abbassò il finestrino, lasciando che la fresca brezza primaverile accarezzasse il suo viso. Inserì il badge nel lettore e subito udì il clangore del cancello che si apriva.

    Dal cancello partiva un vialetto di ghiaia che portava al piccolo parcheggio della clinica.

    Green Pine era una delle migliori cliniche psichiatriche del paese. Era un edificio piccolo, sviluppato tutto in un unico piano e interamente circondato da un prato ben curato. In passato, qualche buon tampone fan di Stephen King, ribattezzò la clinica Miglio Verde, come uno dei romanzi dello scrittore americano. Il perimetro del terreno della clinica, misurava infatti un miglio quasi esatto e il prato, costellato da numerosi alberi e da un bellissimo giardino con diverse specie di fiori, faceva sì che il verde fosse il colore preminente.

    La dottoressa Barhan, dopo un anno di tirocinio, era subito stata assunta nella struttura. La sua preparazione, la sua dedizione al lavoro e il rapporto ottimo che riusciva ad instaurare con quasi tutti i pazienti, la fecero ben presto notare dal direttore della clinica che prima le offrì il posto di responsabile, poi, sei mesi prima, quello di vice coordinatrice. Nonostante la velocità della sua carriera, nessuno ebbe di che lamentarsi. Tutti riconoscevano il merito e l’impegno di Claire. Oltre questo, la ragazza aveva una capacità innata di essere ben voluta da tutti, dipendenti ed ospiti. Non faceva nulla per piacere agli altri, anzi, non le interessava neanche granchè piacere, ma quello era il risultato che otteneva sempre.

    Quando Claire scese dalla macchina, vide Stefanie venirle incontro.

    «Claire mi dispiace di averti svegliata, so quanto sei stanca ma non sapevo…»

    «Va tutto bene» la interruppe, prendendole la mano. «Hai fatto bene a chiamarmi e sono io che devo chiederti scusa per come ti ho trattata».

    Si guardarono per un istante e contemporaneamente si sorrisero.

    Stefanie Holden arrivò alla clinica un anno prima di Claire. Avendo la stessa età, 24 anni allora, 30 ora, strinsero subito un’amicizia che, con il tempo, si rivelò essere solida come una roccia.

    Claire strinse un po’ più forte la mano dell’amica, smettendo di sorridere.

    «Sei sicura di quello che mi hai detto?» le chiese con voce tremante.

    «Non al cento per cento» rispose «Ma la somiglianza con le foto che mi hai fatto vedere è impressionante».

    Claire cercò di raccogliere tutto il coraggio che possedeva e si mise in marcia verso l’entrata. Così entrarono nella clinica, mano nella mano.

    «Dov’è?» chiese mentre tirava fuori il mazzo di chiavi. La prima regola che le insegnarono durante il tirocinio era quella di chiudere sempre a chiave una porta prima di aprirne un’altra. Quella sera, nonostante avesse usato quelle chiavi migliaia di volte, non riuscì ad aprire la prima. Le mani le tremavano troppo.

    Stefanie, le prese le chiavi dalle mani e aprì la porta che dava l’accesso al corridoio nord.

    «E’nella sei» disse poi richiudendo la porta alle loro spalle.

    Nel corridoio nord c’erano sei stanze, tre per lato. Le  prime due sulla destra erano occupate rispettivamente da Ben Terringer, un 30enne affetto da un disturbo borderline della personalità; l’altra occupata da Ted Brenton, un uomo imponente di 40 anni, alto più di due metri e con un fisico che farebbe invidia ad un culturista, affetto da schizofrenia. Le altre 4 stanze erano vuote, o almeno lo erano state fino ad ora. La stanza numero sei era in fondo a sinistra, l’unica con ancora la luce accesa al suo interno.

    Stefanie si fermò davanti alla porta, ma anziché aprirla, si volse verso l’amica.

    «Claire, ascoltami» iniziò con il tono di voce più tranquillizzante di cui era capace. «Forse in questa stanza c’è lui, forse sono solo una stupida che si è fatta ingannare». Claire la ascoltava tentando di capire dove volesse andare a parare, ma il suo sguardo era sempre più attratto dalla feritoia della porta. «Quello che sto cercando di dirti è che non è messo bene, chiunque sia, quindi voglio che tu sia pronta».

    Claire non potè fare a meno di sorridere. Stefanie aveva sempre cercato di proteggerla da tutto. Ricordava ancora il primo giro di visita che fecero insieme. Prima di aprire ogni porta, Stefanie le descriveva non solo patologia di cui era affetto il paziente, ma cercava anche di prepararla ad ogni possibile scenario che avrebbero potuto trovarsi davanti. Ed ora, nonostante Cleire fosse a tutti gli effetti il suo capo, ancora cercava di proteggerla.

    Il sorriso di Claire diede all’amica conforto e coraggio.

    «L’hanno portato dal Mercy Hospital, è in stato catatonico, non risponde agli stimoli» fece una pausa, guardando intensamente negli occhi Claire. «A nessuno stimolo».

    Claire capiva alla perfezione cosa le stava dicendo. In quella stanza poteva esserci la persona con cui aveva passato sei anni della sua vita, l’uomo che aveva amato come non era più riuscita a fare con nessun altro, l’uomo con cui, per tante volte, nel buio della camera da letto, aveva fantasticato su figli e famiglia. E se era lui, non l’avrebbe neanche riconosciuta.

    Sempre premurosa Stefanie. Le accarezzò il viso delicatamente, annuendo.

    «Ho capito» le disse. «Ora aprimi».

    Stefanie la guardò ancora per qualche istante, quindi si girò e aprì la porta.

    «Io rimarrò qui» le disse facendosi da parte.

    Claire inspirò a lungo ed entrò nella stanza. I suoi occhi si posarono subito sulla figura seduta sul letto. Le dava le spalle, come se fosse intento ad osservare il mondo fuori dalla finestra. Si sentiva le gambe pesanti e dovette fermarsi ad un metro dal letto.

    Sentiva il cuore martellarle nel petto. I capelli di quell’uomo, lunghi fin sotto le spalle, li avrebbe riconosciuti ovunque.

    Si fece coraggio e si portò davanti a quell’uomo. Quando vide il suo viso trattenne il fiato, il cuore ormai le faceva pulsare le tempie in modo quasi doloso.

    Era lui.

    «John» lo chiamò con un filo di voce. «Johnny».

    L’uomo non diede segno di averla sentita. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé.

    Claire si accovacciò. I loro occhi erano ora allo stesso livello.

    «Johnny, mi senti?»

    Nessuna reazione. I suoi occhi non la guardavano, nonostante gli fosse proprio di fronte. Guardavano oltre lei, o forse dentro di sé. Innumerevoli volte aveva visto quello stesso sguardo, uno sguardo perso in un vuoto inimmaginabile.

    Claire alzò un braccio che sentiva pesare almeno un quintale. Sfiorò il viso dell’uomo, quel viso che tante volte aveva accarezzato. La piccola cicatrice sopra l’occhio destro, segno di un incidente d’infanzia. Quante volte le sue labbra si erano posate su quella virgola irregolare.

    Era lui, tornato dopo cinque anni. Tornato esattamente come era scomparso, all’improvviso e senza alcuna spiegazione.

    Era lui, ma allo stesso tempo non lo era. Quello che aveva davanti era solo un contenitore, un contenitore vuoto. Poteva solo sperare che il tempo e le terapie potessero far tornare il vero Johnny.

    Si alzò e fece per andarsene, ma si fermò subito. Gli accarezzò i capelli e si chinò a parlargli direttamente in un orecchio.

    «Ti aiuterò» sussurrò. «Farò tutto quello che posso per aiutarti, mi hai sentito?».

    Non ottenne alcuna risposta, né se l’era aspettata.

    Si avviò quindi verso l’uscita.

    Stefanie la guardò in silenzio mentre chiudeva la porta.

    I loro sguardi si incontrarono e, come succede sempre nelle amicizie vere, Stefanie capì subito cosa stava accadendo e prese l’amica dolcemente tra le braccia. Claire non oppose resistenza, si abbandonò nell’abbraccio di Stefanie nascondendo il viso sul suo petto.

    Pianse. Pianse in silenzio, scossa da un singhiozzo di tanto in tanto. Pianse fino a bagnare la camicetta sotto il camice da infermiera di Stefanie. Pianse fino a finire le lacrime, e anche una volta finite, continuò a piangere ancora.

    II

    «Parla».

    «Signore, non li abbiamo ancora trovati».

    «Non possono essere spariti nel nulla. Ampliate il raggio di ricerca. Trovateli».

    Nel buio dell’ufficio, l’agente Rose chiuse la comunicazione. Riempì il bicchiere di Jack Daniels quasi fino all’orlo e lo bevve i tre rapide sorsate. Con gola e stomaco in fiamme, tornò a leggere le schede degli uomini che erano fuggiti.

    Dobbiamo trovarli.

    Fece per prendere di nuovo la bottiglia, ma ci ripensò. Per quella sera aveva già bevuto troppo e l’alcol, da quella maledetta sera della fuga, non faceva che aumentare i pensieri e le preoccupazioni.

    Devo trovarli.

    Chiuse la bottiglia nell’ultimo cassetto della scrivania, insieme ai fascicoli che ormai conosceva a memoria. Prese le chiavi della macchina e uscì dall’ufficio.

    Devo ucciderli.

    III

    Con una tazza di caffè bollente, Claire sedeva nella saletta infermieri. Era riuscita a ritrovare un minimo di calma e di contegno, ma la sua mente era un subbuglio di pensieri.

    Stefanie non si era separata da lei per un attimo, continuando a guardarla e farle ogni tanto una carezza su un braccio o su una gamba.

    Mai Claire aveva anche solo sperato di poter trovare un’amica come Stefanie. La loro era una di quelle rare amicizie vere, limpide, sincere. Non avevano alcun problema a confidarsi l’un l’altra qualunque cosa. Ora era felice che ci fosse stata Stefanie all’arrivo di Johnny ed era felice che fosse rimasta con lei.

    Di notte la clinica era quasi sempre tranquilla e gli operatori di turno non avevano alcun problema a svolgere le loro mansioni e ritagliarsi un po’ di tempo per riposare. Quella sera, oltre Stefanie, erano di turno altri due operatori, Jack Billings, un ragazzo giovane e volenteroso entrato nella struttura da poco più di due mesi, e Harold Brewer, un veterano del mestiere. Entrambi si erano mostrati più che disponibili a spartirsi il lavoro di Stefanie.

    «Domani…o meglio, oggi è il tuo giorno libero, vero?» chiese Stefanie.

    Claire annuì, finendo il caffè.

    «Ottimo» continuò prendendo la tazza vuota dalle mani dell’amica. Si infilò una mano in tasca, tirando fuori un blister di pillole pieno per metà. «Ecco allora cosa facciamo. Ora torni a casa, prendi un paio di queste e ti fai una dormita. Verso le undici vengo da te, ci mangiamo un boccone e tiri fuori tutti quei pensieri che ti stanno facendo andare in pappa il cervello. Ok?».

    Claire osservò l’amica per qualche istante. Conosceva bene sia il tono, sia l’espressione che vedeva sul suo volto e sapeva che non avrebbe potuto dire nulla per farla desistere.

    Si sforzò di sorridere e prese il blister.

    «Brava ragazza. Fila ora e lascia perdere tutti i pensieri. Ci sarà tempo domani».

    Le diede un bacio sulla fronte, un gesto tanto intimo e dolce che Claire sentì nuovamente le lacrime bruciare in fondo agli occhi.

    «Grazie». Non aggiunse altro, non voleva piangere ancora e sapeva che anche solo una parola in più avrebbe dato il via ad un nuovo attacco.

    Uscirono insieme dalla saletta e Stefanie la accompagnò all’ingresso. Solo un cenno del capo in segno di saluto e Claire si diresse verso la macchina.

    Quando alle undici in punto suonò il campanello del suo appartamento, Claire si era svegliata da neanche dieci minuti. Le pillole che le aveva dato Stefanie avevano fatto il loro dovere, facendola piombare in un sonno profondo privo di sogni.

    «Ancora in pigiama la nostra pigrona» scherzò Stefanie entrando.

    Mentre Claire si faceva la doccia, Stefanie si mise in cucina a preparare un pranzo frugale. Un piatto di pasta e un po’ di insalata.

    Consumarono il pranzo nella piccola cucina, senza parlare molto. Una volta finito, si armarono con una tazza di caffè a testa e andarono a sedersi sul divano nel salotto.

    Passarono qualche istante in assoluto silenzio, osservando il fumo levarsi lieve dalle tazze. Poi Stefanie decise che era arrivato il momento di rompere quel silenzio.

    «Allora tesoro, sei tu l’esperta, sei tu la psichiatra, quindi non devo perdere tempo nel spiegarti che è meglio tirare fuori quello che hai in testa, giusto?».

    Claire sorrise. Sempre schietta e diretta la sua amica.

    «Non saprei neanche da dove iniziare».

    «Noi ci diciamo sempre tutto» disse Stefanie sorseggiando il caffè. «Da quando ci conosciamo ci siamo praticamente messe a nudo a vicenda. C’è sempre stato solo un argomento di cui non mi hai mai parlato volentieri: Johnny».

    Udendo quel nome, Claire sentì un brivido lungo la schiena.

    Quando Claire entrò nella struttura per il suo tirocinio formativo, lei e Johnny stavano ancora insieme. Stefanie l’aveva incontrato un paio di volte, senza mai scambiare molte parole. Qualche mese dopo l’inizio del tirocinio, mentre la loro amicizia si andava formando, lui sparì nel nulla. Da allora, Claire non parlò quasi mai di Johnny o della loro relazione. Stefanie sapeva solo che l’amica ne era innamorata come raramente ci si innamora e che i mesi successivi alla loro rottura furono molto duri per lei. Per rispetto, e perché ancora non erano tanto legate come ora, Stefanie non aveva mai fatto domande in proposito, temendo di essere indiscreta o di ferire l’amica. Ora però era arrivato il momento di fare tutte quelle domande che non le aveva fatto prima. Un po’ per curiosità, un po’ perché pensava che Claire ne avesse bisogno.

    Prima di conoscere lei, Claire le aveva sempre detto di non avere mai avuto una vera amica, una persona con cui confidarsi. Questo voleva dire, in sostanza, che non aveva mai avuto modo di affrontare quell’episodio della sua vita, episodio che l’aveva segnata e che ancora oggi la influenzava.

    Circa tre o quattro mesi dopo Claire iniziò a frequentare uno degli operatori della struttura, Richard Dowson. Era più grande di lei di 5 anni, ma la loro frequentazione si fece sempre più importante. Ora stavano insieme da poco più di 4 anni, e Stefanie sapeva che già da tempo Bill faceva pressioni per andare a vivere insieme, per costruire qualcosa di più solido. Pressioni che, però, non portavano mai a nulla. Stefanie era convinta che questa ritrosia fosse causata proprio dall’abbandono subito da parte di Johnny, ma non l’avrebbe mai detto apertamente all’amica. Se così era, ci sarebbe dovuta arrivare lei.

    «Perché non cominci dall’inizio?» propose Claire. «Chi è Johnny, che persona era? Come vi siete conosciuti?».

    Claire rimase in silenzio per qualche minuto. Aveva passato più di cinque anni cercando il modo di cancellare dalla sua mente e dalla sua vita Jhonny. Ora, invece, era più presente che mai. Pensare alle risposte da dare all’amica le faceva male, ma sapeva che non poteva tirarsi indietro.

    «Lui era perfetto» disse infine. Gli occhi di Claire erano rivolti alla finestra, ma in quel momento non vedevano l’azzurro del cielo. In quel momento i suoi occhi erano tornati indietro nel tempo. Un sorriso colmo di tristezza si dipinse sul suo viso. «Era davvero una persona meravigliosa. Sempre pronto ad aiutare chiunque. Un buono fino in fondo».

    Claire si accese una sigaretta, tirò una boccata ed esalò lentamente il fumo. Raccontò all’amica di come la calma del suo ex fosse riuscita a limare il suo carattere, spesso aggressivo ed impulsivo. Le raccontò di come fosse impossibile litigare con lui, perché lui molto semplicemente non litigava. Non alzava mai la voce e spesso si prendeva colpe che non aveva, per evitare il litigio e tornare poi sull’argomento quando sapeva che la ragazza sarebbe stata più in vena di ascoltare.

    Dopo qualche minuto, tornò il silenzio.

    Stefanie non disse nulla, limitandosi ad osservare il viso di Claire. Ciò che vedeva le era abbastanza chiaro, ma era ancora troppo presto per dire qualsiasi cosa. Avrebbe rispettato i tempi dell’amica.

    D’un tratto Claire sorrise, guardando Stefanie direttamente.

    «Vuoi sapere com’è iniziata la nostra storia?».

    Prima che Stefanie rispondesse, Claire si alzò andando in camera sua. Aprì l’armadio e ne tirò fuori una scatola di scarpe, che portò con sé tornando a sedersi sul divano. Poggiò la scatola sul tavolino, accanto al posacenere e la aprì. Stefanie vide che conteneva un numero notevole di lettere, cartoline, fogli di vario colore.

    Dopo che ebbe rovistato per qualche secondo, tirò fuori un fascicolo.

    «Eccolo» disse porgendo i fogli all’amica.

    Stefanie li prese. Erano non più di una decina di fogli, un po’ slabbrati sui lati, ma nel complesso in ottime condizioni. Sulla prima pagina, a caratteri cubitali, c’era scritto La ragazza della scala. Alzò lo sguardo su Claire, inarcando le sopracciglia.

    «Il giorno del nostro quinto anniversario, Jhonny mi regalò quelle pagine» le disse Claire. «Vista la mia passione per

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1