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La paziente perfetta
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E-book393 pagine5 ore

La paziente perfetta

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Info su questo ebook

È un’estranea, ma ti conosce molto meglio di quanto immagini…

Un grande thriller

Il rapporto tra paziente e psicologa può diventare tossico… persino mortale

Karen, Eleanor e Bea sono amiche sin da quando erano bambine. Tra loro non ci sono segreti, e ciascuna conosce le altre alla perfezione. Adesso che hanno superato i trent’anni, hanno cominciato ad allontanarsi a causa delle difficoltà di tutti i giorni: Eleanor è una moglie e una madre sommersa dalle responsabilità e fatica a stare dietro a tutto; Bea è felicemente single, o almeno questo è ciò che lascia credere agli altri; Karen fa la psichiatra e, nonostante il suo passato oscuro, si considera la roccia del gruppo, l’amica su cui contare. Ma quando una nuova paziente si presenta nel suo studio con disturbi che non le sono ancora del tutto chiari, Karen comincia a temere di aver messo le sue più care amiche in pericolo. Perché la sua paziente sa cose sulle tre donne che nessuno all’infuori del loro ristretto circolo potrebbe (o dovrebbe) conoscere…

Il nuovo sconvolgente thriller dall’autrice del bestseller Era una famiglia tranquilla

È un’estranea, ma ti conosce meglio di quanto tu conosca te stessa

«Un inquietante thriller con un finale stupefacente.»
Sunday Mirror

«Uno straordinario thriller molto originale, con una relazione complessa che ruota intorno a tre donne. La conclusione è esplosiva.»
B.A. Paris, autrice bestseller del New York Times

«Per lettori in cerca di suspense.»
Crime Review

«Un romanzo avvincente sulle profondità e i limiti dell’amicizia, pieno di ingegnosi colpi di scena e astute false piste.»
Publishers Weekly
Jenny Blackhurst
È cresciuta in Inghilterra, nello Shropshire, dove ancora vive con marito e figli. Il suo thriller di esordio, Era una famiglia tranquilla, ha ottenuto in pochissimo tempo il consenso della critica e un grande successo di pubblico. La paziente perfetta è il suo attesissimo secondo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2018
ISBN9788822718792
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    Anteprima del libro

    La paziente perfetta - Jenny Blackhurst

    PARTE PRIMA

    1

    Adesso

    Da dove preferisce cominciare?

    Mmm.

    Qualcosa la fa ridere?

    Dicevo sempre così ai miei pazienti. Gli dava la sensazione che fossero loro ad avere il controllo della seduta. Ma sappiamo entrambi che qui io non ho alcun controllo, non è vero?

    È importante per lei credere di averlo?

    So cosa sta cercando di fare. Vuole farmi sentire a mio agio, così mi confiderò con lei, le confesserò le mie paure più oscure e poi potrà finalmente dire a quei tizi che sono pazza. Mi sento pazza. Può scriverlo.

    Perché non parte dall’inizio, Karen? Da quando ha incontrato per la prima volta Jessica Hamilton.

    Non è quello l’inizio. È quando tutto questo è cominciato, suppongo, ma non è veramente l’inizio. È iniziato tutto molto prima, prima di conoscere Bea, Eleanor e Michael. È iniziato con quello che è successo quando avevo quattro anni.

    Le andrebbe di parlarne? Cosa le è successo a quattro anni?

    No. Non voglio parlarne e a loro non interessa saperlo. Vogliono solo sapere come è morta.

    Continui.

    Lei non può curarmi.

    Come scusi?

    È una delle prime cose che Jessica Hamilton mi ha detto, parole che sento ancora nella mia testa. Ricordo di aver pensato che si sbagliava: io curo le persone tutti i giorni, è il mio mestiere. Quello che non avevo realizzato allora era che lei non voleva affatto essere curata; non era mai stato nelle sue intenzioni. Ancora non lo sapevo, ma quella ragazza era lì per curare me.

    2

    Karen

    25 ottobre

    Una normale seduta al Cecil Baxter Institute durava tremila secondi. Alcuni pazienti stavano in silenzio per tutto il tempo, un fatto che spesso disorientava la maggior parte dei giovani psichiatri: perché spendere 135 euro per poi rimanere cinquanta minuti in silenzio? La dottoressa Karen Browning però no, lei li capiva. Erano come i professionisti che andavano a prostitute: il punto non erano i soldi o il silenzio, il punto era avere il controllo.

    Il leggero rumore dei tacchi sul parquet avvertì Karen che dietro la porta dello studio c’era la sua segretaria, Molly. La nostra segretaria, ricordò a sé stessa. Molly lavorava per tutti e sei gli psichiatri del secondo piano, solo i direttori all’ultimo piano avevano un assistente personale. Si sentì un colpo leggero alla porta. Karen mise un po’ di rossetto sulle labbra, lo ripose nel cassetto in alto e aspettò che Molly entrasse. Tutti gli uffici erano disposti ad anfiteatro e Karen era particolarmente orgogliosa del suo, simbolo di tutto quello che aveva raggiunto.

    E non dicano che l’orgoglio viene prima della caduta.

    Quella mattina, prima di mettersi al lavoro, aveva letto per un’ora gli appunti sul caso di quella seduta, accertandosi di conoscere quanto più possibile Jessica Hamilton prima che entrasse dalla porta. La signora Hamilton era la sua unica paziente nuova quella settimana – tutti gli altri erano casi in corso – e aveva poche informazioni su di lei, cosa che la irritava in modo indescrivibile. Chiunque avesse scritto le prime note sul paziente, non era stato dettagliato quanto lei avrebbe voluto. La firma illeggibile che c’era sui fogli poteva essere di uno qualunque degli assistenti e Karen tenne a mente di farlo presente alla prossima riunione di gruppo, cercando di essere meno critica possibile.

    Età: 23

    Storia clinica: nessuna diagnosi precedente di depressione o disturbo d’ansia generalizzato. Contesto familiare sconosciuto. Al momento non prende alcun farmaco. Senza impegnativa.

    Motivo della visita: mal di testa da tensione e attività cognitiva irrazionale.

    Come era solita fare quando leggeva le prime informazioni sui pazienti, Karen non poté fare a meno di crearsi un’immagine della donna che stava per attraversare la porta del suo studio. Probabilmente era benestante, a giudicare dalla cifra che stava pagando per avere cinquanta minuti del suo tempo. Karen a volte aveva lavorato pro bono, ma Jessica Hamilton era senza impegnativa e senza esenzioni. Immaginò che i suoi amici la chiamassero Jess e che per la famiglia fosse semplicemente Jessica.

    Bussarono una seconda volta, cosa che Molly non faceva mai. Quando sulla porta non c’era il cartello seduta in corso, di solito entrava subito. Karen si alzò, si lisciò la giacca e aprì la porta; dall’altro lato non c’era il volto sorridente della sua assistente, ma una ragazza magra e apparentemente timida, con il viso pallido e le guance rosse come fiori.

    Karen sperò che la sua faccia non avesse fatto trapelare il suo stupore, ma ne era quasi certa. Otto anni di psichiatria le avevano insegnato a tenere dentro tutte le sue reazioni, senza farle mai intuire a chi aveva di fronte. Sarebbe stata un’ottima giocatrice di poker.

    L’immagine di una donna giovane, attraente e ricca che il nome Jessica Hamilton aveva evocato non poteva essere più distante dalla realtà che in quel momento si trovava davanti agli occhi. Karen le porse la mano e prese subito nota delle unghie scheggiate e mangiucchiate di Jessica e della presa debole quanto il sorriso che le rivolse.

    «Jessica?». Lanciò uno sguardo intorno all’area della reception, ma Molly non c’era. «Ti chiedo scusa. La segretaria avrebbe dovuto essere qui a riceverti. Entra pure». Accompagnò la donna dentro lo studio e nella sua mente maledisse Molly e la sua insolita mancanza di professionalità.

    «Prego, siediti».

    Jessica Hamilton non sentì o forse ignorò l’invito di Karen. Si allontanò lentamente dal divano e passeggiò lungo le librerie accostate alla parete in fondo alla stanza. Sembrava affascinata da ogni singolo dettaglio degli scaffali in mogano, e dai libri rilegati in pelle scelti per la loro estetica e non perché stessero bene con il resto dell’arredamento. Per la prima volta in così tanto tempo, Karen si sentì come se il suo spazio venisse scrutato e giudicato inadeguato.

    «Perché non ti siedi così iniziamo?».

    Per un secondo pensò che Jessica l’avrebbe ignorata di nuovo, ma poco dopo prese posto di fronte a lei e rimase in silenzio, aspettando che Karen desse inizio alla seduta.

    Jessica non era brutta; se non avesse avuto il volto rosso per il freddo – o forse per il nervosismo – sarebbe sicuramente stata una bella ragazza. I capelli, ricci naturali, le cadevano sulle spalle ed erano di un biondo così scuro che sembravano completamente privi di colore, una massa grigia rassegnata a stare sulla sua testa senza attirare l’attenzione di nessuno. Sembrava che tutto il suo aspetto fosse fatto per suscitare il minimo interesse possibile.

    «Io sono la dottoressa Karen Browning. Non so se sei stata da altri psichiatri in passato, ma qui vogliamo che i nostri pazienti si sentano a proprio agio. Perciò vorrei che mi chiamassi Karen, ma se non vuoi non importa. Allo stesso modo io vorrei chiamarti Jessica, ma se preferisci, signorina o signora Hamilton per me va bene».

    Le fece un grande sorriso, sperando di metterla a suo agio. Capiva i suoi pazienti; la prima seduta doveva essere un’esperienza spaventosa, dover condividere le loro paure e i loro difetti con qualcuno che non avrebbe nessun motivo di preoccuparsi per loro se non fosse per il fatto che viene pagato. Quella era una delle ragioni per cui Karen cercava di sembrare il più possibile una persona alla mano: non indossava abiti firmati come facevano altri psichiatri, non portava rigorosi chignon in testa e nessun diamante grande quanto la pietra di Blarney; quest’ultimo dettaglio non per sua scelta.

    Jessica annuì come se avesse ascoltato un discorso molto serio, senza però dare indicazioni sul modo in cui voleva essere chiamata.

    «Posso offrirti qualcosa da bere?».

    Scosse la testa in maniera quasi impercettibile. Karen si alzò, si versò un bicchiere d’acqua dal distributore all’angolo e tornò a sedersi sulla sedia di fronte a lei. Era volutamente un paio di centimetri più bassa del divano, per dare ai pazienti quel senso di potere che molti non provavano nel mondo esterno.

    «Okay. Vedo che il motivo per cui sei qui sono dei mal di testa da tensione. Ti va di parlarmene?».

    Gli occhi di Jessica fissarono quelli di Karen, cosa a cui non era abituata, o almeno non alle prime sedute. Non aveva arredato molto lo studio, in modo che le persone non avessero oggetti su cui concentrarsi o che potessero distrarli – il divano, la scrivania e due librerie più piccole, una sola fotografia, nessun oggetto di bigiotteria e un grande dipinto che raffigurava un molo su una rilassante distesa d’acqua turchese – ma molti riuscivano ancora a trovare qualcosa da guardare che non fosse lei.

    Non era il caso di Jessica Hamilton però.

    «Lei non può curarmi».

    Il suo tono di voce era aggressivo e così tanto in contrasto con il suo atteggiamento che colpì Karen molto più delle parole che aveva usato. Si era scandalizzata milioni di volte durante il suo lavoro ed era diventata terribilmente brava a nascondere le sue espressioni; il suo viso rimase una maschera impassibile, senza fare alcun sussulto.

    «Credi che sia questo quello che farò, Jessica? Pensi che proverò a curarti?»

    «Non consiste in questo il suo mestiere, dottoressa Browning? Curare i poveri piccoli malati mentali, rendere la loro vita perfetta come la sua?».

    Non distolse lo sguardo da lei. Aveva gli occhi blu, ma un blu troppo scuro per suscitare paura e c’erano delle macchie marroni che vanificavano ancora di più l’effetto. Erano anonimi, come tutto il resto di ciò che la riguardava.

    «No, Jessica, non facciamo questo. Io sono qui solo per ascoltare quello che hai da dire e cercare di aiutarti a fare i conti con quello che ti sta succedendo».

    «Ascoltare e aiutare, non mi sembra una cosa molto dinamica. Perché la gente la paga così tanto solo perché lei faccia finta di essere un muro? Cos’ha di così speciale?».

    Non era insolito che i pazienti fossero arrabbiati o aggressivi, si disse Karen cercando di evitare che la rabbia di quella ragazza facesse innervosire anche lei. A volte le persone quando iniziavano la seduta erano furiose nei confronti della loro stessa vita; altre volte invece, il vetriolo era diretto al loro psichiatra. Jessica Hamilton non era diversa da tutti gli altri. Eppure era proprio così che si sentiva: diversa.

    «Spesso è più facile condividere i propri problemi con chi non ha un investimento personale nella nostra vita; fa sentire le persone meno giudicate e mette a disposizione un posto sicuro per dare aria ai propri pensieri. Non sono qui per giudicarti, Jessica, e neanche per cercare di migliorarti. Non vediamo le persone come esseri sbagliati e il nostro lavoro non è curarli. Se ti va di parlare con me, vorrei provare a capire cosa sta succedendo nella tua vita. C’è un punto da cui preferiresti iniziare?».

    Vide Jessica elaborare le sue parole e le sembrò quasi delusa del fatto che Karen non avesse intenzione di rispondere a quell’attacco. Karen non poté fare a meno di chiedersi che idea si fosse fatta quella ragazza sulla terapia, cosa pensava che fosse in grado di fare e, soprattutto, perché fosse andata lì se aveva quella convinzione.

    «Faccio sesso con un uomo sposato».

    Se le parole di prima volevano sfidarla, queste volevano scioccarla. Karen stava già prendendo appunti nella sua mente. La paziente cerca di scandalizzare per essere giudicata. Forse vuole diminuire i suoi sensi di colpa. Avrebbe dovuto guardare ancora più lontano di quanto aveva fatto fino a quel momento; Karen aveva sentito confessioni peggiori tra quelle mura.

    «Tutto qui? Solo sesso? Altre persone avrebbero usato parole come andare a letto o avere una relazione».

    Il volto di Jessica era immobile, non si leggeva niente. «Non sono innamorata di lui. Non avrebbe senso. Non sono così stupida da pensare che lascerà sua moglie per stare con me».

    La paziente usa negazioni come meccanismo di difesa per non ammettere i suoi sentimenti. Indice di un problema diverso?.

    «Vorresti partire dall’inizio e parlare di come vi siete conosciuti?».

    Era una professione difficile, lo psichiatra, ma Karen non ne aveva mai presa in considerazione una diversa e per tutti gli anni in cui aveva esercitato, non si era mai pentita della sua scelta. Le era venuto naturale trattare il paziente come un uccellino ferito: nessun movimento improvviso, una voce neutra, ascoltare e guidare senza però dare ordini. Con alcune persone bastava una sola parola sbagliata e avrebbero cercato di scappare, ti avrebbero visto come un carceriere piuttosto che come un salvatore. All’inizio puoi essere visto come un nemico, soprattutto se fare la terapia non è stata una loro scelta.

    Jessica ignorò la domanda e poggiando i gomiti sulle ginocchia, si sporse in avanti per accorciare le distanze.

    «Cosa rende una persona buona o cattiva, secondo lei?», chiese. Il suo tono di voce era così basso che Karen dovette farsi un po’ più avanti per sentirla. «I suoi pensieri? O solo quando mette in pratica le cose che pensa? Mancanza di moralità? Empatia?»

    «Ti preoccupano i pensieri che fai?».

    Jessica sorrise leggermente, il suo volto anonimo era diventato brutto con quell’espressione. «Non proprio. Non ha risposto alla mia domanda però».

    «È una questione complessa Jessica, a cui non sono sicura di saper rispondere. Ma se i tuoi pensieri ti preoccupano, direi che il fatto che tu sia qui a chiedere aiuto dimostra che il tuo problema è solo frutto della tua situazione attuale e non di una disfunzione cognitiva congenita».

    «Ma lei parla sempre come un manuale?»

    «Scusa…».

    «E si scusa sempre così spesso?»

    «Io…».

    «Va bene, cosa dice Freud sul ferire per sbaglio le persone?».

    Un filo di tensione sottile si annodò dentro il petto di Karen. Non le capitava spesso di perdere il controllo di una seduta, ma sembrava proprio che quella stesse diventando controproducente. «Hai fatto male a qualcuno per sbaglio?»

    «Chi ha detto che stavo parlando di me stessa?».

    La paura le fece tremare la mano in modo quasi impercettibile e si chiese se Jessica avesse intuito il suo disagio. Karen non poteva sapere che reazione avrebbe avuto a quella domanda, eppure l’ombra di un sorriso che apparve sul volto di Jessica un attimo prima che la sua faccia ritornasse a un atteggiamento passivo, faceva pensare che lei lo sapesse.

    «Un incidente è solo un incidente, Jessica. Spesso è il modo in cui affrontiamo le conseguenze delle nostre azioni a definire il nostro carattere».

    «Mio padre ha sempre avuto un modo strano di vedere gli incidenti. Non quel tipo di incidenti come inciampare, ma le cose proprio brutte che permettiamo che accadano perché perdiamo di vista la situazione. Lui direbbe che in questa vita niente succede per caso, gli incidenti non esistono. Diceva che sono il modo in cui il nostro subconscio ci permette di mettere in atto i nostri veri pensieri sotto la veste di azioni involontarie. Lei pensa che sia vero, dottoressa Browning?».

    La tensione le legava insieme come una corda, quelle domande innocenti erano piene di allusioni. Lei non rispose.

    «Credo che mio padre le piacerebbe».

    I pensieri di Karen si dimenavano cercando di mettere insieme qualche frase coerente. Le parole ambigue che era stata educata a notare – il padre, il subconscio – le fecero automaticamente venire in mente delle domande, eppure doveva sforzarsi per farle uscire dalla bocca. Prima che potesse dire qualcosa, Jessica iniziò a parlare di nuovo.

    «Ci siamo conosciuti a un gala di beneficienza». I suoi occhi fissavano un pezzo di carne scoperto all’angolo dell’unghia, la pelle frastagliata era indice di problemi d’ansia. Aveva le unghie corte e irregolari, morse anziché limate, e senza smalto.

    Karen ci mise un secondo prima di realizzare che Jessica stava rispondendo alla domanda iniziale, la maschera che la paziente aveva all’inizio della seduta era tornata al suo posto. Si concesse un secondo per ristabilire la sua immagine da psichiatra, riacquistò la sua professionalità e continuò la seduta come se gli ultimi minuti non ci fossero mai stati.

    «Fai parte di qualche gruppo di beneficienza?»

    «Non proprio. Un conoscente aveva un biglietto in più e me l’ha dato. Lui era seduto al bar e sembrava annoiato quanto me. Fece una battuta sul pagarmi per restare lì con lui e io risposi che non ero una prostituta. Ne fu sconvolto e iniziò a dire che non intendeva quello; era dispiaciuto per avermi offeso. In quel momento notai quanto fosse bello».

    Alzò lo sguardo dalle mani e sorrise, non quel sorrisetto falso di qualche minuto prima, ma uno vero al ricordo di quella serata. La sua faccia però non si trasformò come quella di alcune persone quando ridono. Ogni cosa non faceva altro che mettere in risalto la sua banalità, neanche un sorriso riuscì a illuminarle il volto. L’aspetto fisico è un fattore rilevante che influenza il modo in cui le persone ti trattano e Karen poté immaginare come quella ragazza si fosse sentita travolta dalle attenzioni di un uomo attraente. «Era carino però, non era presuntuoso e pieno di sé come gli altri ragazzi belli».

    «Hai imparato questo dalle tue esperienze con gli uomini?».

    Jessica continuò a raccontare la sua storia, come se Karen non avesse mai parlato. Descrisse con dovizia di particolari la sera in cui aveva incontrato il suo amante sposato, la battuta che le aveva fatto, il modo in cui la mano di lui si era fermata così vicina al suo ginocchio che ogni volta che lei rideva sfiorava il merletto del vestito. Ma mentre la storia continuava, il suo linguaggio del corpo cambiò nuovamente e lei ritornò a quell’atteggiamento difficile da gestire, aggrappandosi a quella zona della mente che le provocava sentimenti negativi.

    Tipici segni di dissonanza cognitiva.

    «Cosa è successo dopo il gala?».

    Jessica incrociò le braccia. I ricordi mettono a disagio la paziente.

    «Siamo andati nella sua camera d’albergo e abbiamo scopato».

    «E come ti sei sentita?». Karen sapeva che era una domanda terribile e banale. Le veniva quasi da fare una smorfia ogni volta che doveva farla. Con i suoi amici era diventata una battuta ricorrente; per i primi dodici mesi dopo che Karen aveva annunciato di voler fare la psichiatra, la sua migliore amica Bea, ogni volta che parlavano, le chiedeva almeno una volta: E come ti sei sentita?. Ma a volte – ok, molte volte – era esattamente la domanda che bisognava fare. Perché era quello il motivo per cui lei era lì: andare in fondo e capire come si sentivano i suoi pazienti di fronte a ciò che raccontavano. La maggior parte delle volte erano così persi nella loro storia che neanche si accorgevano della banalità della domanda, quasi come se se l’aspettassero.

    Jessica sollevò le sopracciglia, sembrava non riuscire a credere che Karen avesse giocato così presto la carta dei sentimenti.

    «Non sono venuta, se è questo che vuole sapere. È stato piacevole, una prima scopata un po’ veloce e poco romantica, ma è stato bello».

    La paziente usa l’umorismo e parole spinte per deviare le domande sui sentimenti. Karen non sopportava le parolacce; la facevano sentire insicura e a disagio. Supponeva che il motivo risalisse ai tempi della scuola, ricordava di esser stata una brava ragazza che aveva paura di dire le parolacce, mentre i bambini più popolari riempivano i loro discorsi con parole di strada. O forse dipendeva da qualcosa che le era successo prima della scuola. Molto prima.

    «La seconda volta è andata meglio. E poco dopo ci fu una terza e poi una quarta volta. Adesso ci incontriamo sempre durante la settimana. Lui non ha un ufficio, praticamente vive da me».

    «Non hai paura che la moglie vi scopra?».

    Jessica si incupì. «Per un po’ di tempo ho pensato che avrebbe potuto. Mi aspettavo una telefonata o che venisse da me a dirmi Lo so cosa stai facendo. So cos’hai fatto. Ma è così concentrata sui bambini che non si accorgerebbe di quello che sta succedendo neanche se scopassimo in macchina mentre lei è al volante. Non le interessa nemmeno quello che fa suo marito».

    «È questo che ti dice lui?»

    «Non c’è bisogno che lo dica in realtà; si capisce dalle altre cose che racconta. Non ha tempo per lui».

    «E tu sì».

    Jessica le lanciò un’occhiataccia. «Che differenza fa? Non voglio che la lasci o cose del genere. Solo non capisco come possa non accorgersi di cosa stia succedendo a suo marito». I suoi occhi tornarono a fissare le unghie e la voce si abbassò. «Ci penso spesso».

    Eccoci qua. Non c’era voluto tanto quanto Karen si aspettava per arrivare al punto successivo del problema. Quello era il motivo per cui Jessica era lì e se in quel momento avesse insistito troppo, gli ultimi quattordici minuti di lavoro sarebbero stati inutili. Provò a rassicurarsi, era solo una giovane ragazza che si era imbattuta in una situazione che le causava un conflitto interiore. Tutte quelle sfide a partire dall’inizio della seduta, la sensazione che Jessica fosse lì per cambiare lei, erano i suoi complessi che si manifestavano nelle innocenti domande sulla vita che le facevano i pazienti. Ne era quasi certa.

    «E la moglie…», disse mantenendo un tono basso e tranquillo, piegandosi leggermente verso Jessica. Lei rispose facendo un cenno con la testa, guardandosi ancora le mani ma senza essere più arrabbiata.

    «Come può accettare di essere trattata così? Voglio dire, lo sa e non le interessa? O è così stupida da non vedere quello che fa suo marito? Si è comprato un altro telefono, così può contattarmi senza che lei lo sappia. È lei che si occupa della contabilità, ma lui ha un conto personale di cui lei non sa nulla. Che razza di marito sente il dovere di farlo? Questo perché quella stronza di sua moglie lo controlla e quello è l’unico modo che lui ha per usare i propri soldi».

    Da spendere per andare a letto con altre donne.

    «Le ho fatto dei dispetti, ma piccoli. Ho cambiato un paio di cose sul suo calendario, per essere sicura che mancasse ad alcuni dei suoi appuntamenti. Mi ha fatto sentire bene, ero io ad avere il controllo della sua vita».

    «Sei stata a casa di questa donna?»

    «Sì».

    L’ansia che nell’ultima mezz’ora non aveva fatto altro che aumentare, in quel momento minacciava di soffocarla completamente.

    «Jessica, mi dispiace dovertelo chiedere. Fa parte della mia responsabilità come professionista e non farei del tutto il mio lavoro se non te lo chiedessi. Capito?».

    Jessica annuì.

    «Pensi che il tuo comportamento possa degenerare? Che i tuoi pensieri riguardo questa donna possano portarti a compiere azioni al di fuori del tuo controllo?»

    «No». Scosse la testa lentamente. «Niente di tutto questo. Mi disgusta e la odio, ma non sono cattiva».

    3

    Bea

    «Ciao a tutti, sono Eleanor e il mio Fanculo questo venerdì di merda è…». Eleanor fece una pausa per aumentare l’effetto drammatico, cosa che le riusciva bene fin da quando erano piccole. «Ho dovuto cambiare almeno sedici pannolini oggi e sono riuscita anche a farmene cadere uno sul piede. Che venerdì di merda! Nel vero senso della parola».

    Né Bea né Karen riuscirono a frenare il trambusto delle risate che risuonò tra le mura del piccolo bar. Bea vide un paio di persone alzare lo sguardo dai loro giornali e guardarle come se fossero tre rumorose adolescenti in biblioteca. Trattenne la voglia di fargli la linguaccia. Come Karen continuava a ricordare a se stessa, ormai erano diventate adulte, nonostante ogni volta che erano insieme gli ultimi quindici anni della loro vita sembrassero dissolversi e tornavano a quando, sotto il letto a soppalco di Eleanor, si erano scolate una bottiglia di Mad Dog 20/20.

    Eleanor fece una smorfia e bevve un sorso dal suo bicchiere.

    «Certo ridete, bastarde. Non siete mica voi quelle che devono togliere la merda dalle proprie scarpe, quelle nuove con il tacco basso, comode da morire! Vabbè, io nomino Karen».

    Karen prese la sua tazza e la alzò verso il resto del gruppo, Bea però la vide esitare. Fu solo per una frazione di secondo; la maggior parte delle persone non l’avrebbero notato, ma la maggior parte delle persone non conoscevano i loro amici dalla prima elementare. «È un piacere essere qui con tutti voi questo fantastico venerdì pomeriggio. Grazie per avermi nominato, Eleanor. Il mio Fanculo questo venerdì di merda è che sono stata così impegnata con il mio lavoro che la scorsa settimana ho saltato l’appuntamento dal dentista e la conferenza tenuta da un eminente psichiatra che aspettavo da mesi. Clean si è dimenticato di segnarmeli sul calendario».

    Le altre due fecero un gemito melodrammatico ed Eleanor appoggiò la testa sul braccio, sopra il tavolo. «Per l’amor di Dio, Karen Browning, potresti almeno inventarti qualcosa visto che la tua vita sembra maledettamente quella de La casa nella prateria», borbottò da sotto la manica. Poi alzò lo sguardo. «Ultimamente ho perso così tanti appuntamenti con gli operatori sanitari che ormai loro avranno sicuramente il numero dei servizi sociali tra le chiamate rapide. Bea, tocca a te. E spero che quello che stai per raccontare sia peggio della popò sul piede. Non credo di poter sopportare di vincere per la terza settimana consecutiva».

    Bea riempì il bicchiere di succo di frutta dalla caraffa poggiata sulla pacchiana tovaglia rossa e bianca e si preparò.

    «Ciao, sono Bea».

    «Ciao Bea», risposero in coro le altre due. Bea alzò il bicchiere e annuì in direzione di Eleanor che aspettava con entusiasmo il suo racconto.

    «Voglio ringraziare Eleanor per avermi nominata. Il mio Fanculo questo venerdì di merda è che ho dimenticato di…». Si fermò prima di finire la frase, ricordandosi che la cosa che aveva dimenticato di fare non poteva essere menzionata davanti a Karen. Pensando velocemente a cosa dire, si ricordò del suo pomeriggio a lavoro. «Ho dimenticato di assumere uno dei nostri clienti più importanti per lavorare al nostro seminario per i dirigenti e sono stata rimproverata come si deve da quel cretino del mio capo, che mi ha dato dell’incompetente di fronte a tutto l’ufficio».

    «Che coglione», borbottò Eleanor allungando il braccio per darle una pacca sulla spalla, mentre col pollice dell’altra mano scorreva sul cellulare il messaggio che aveva appena ricevuto. «Porca miseria, Noah sta ancora dormendo. Stanotte non dormirà se mia madre gli lascia fare il pisolino per tutto il giorno».

    Bea provò un improvviso senso di noia, ma Eleanor si salvò all’ultimo secondo e buttò il cellulare nella bocca aperta della sua borsa stracolma.

    «Bah, chi se ne importa».

    Eleanor prese la mano di Bea, quella con cui non stava tenendo il succo, e non poté fare a meno di notare dei leggeri scarabocchi sul dorso, i resti di un promemoria o di un numero di telefono che i novanta secondi di doccia non erano riusciti a cancellare. Si sentì di nuovo il cellulare vibrare da sotto al tavolo, ma questa volta lo guardò a malapena.

    «È la stessa cosa che ha detto Fran». Bea fece un sorrisetto. «Ma con un linguaggio un po’ più colorito».

    Karen sollevò le sopracciglia. «Non sei un po’ grande perché tua sorella maggiore corra a difenderti?»

    «Oh Karen, piantala», disse

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