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L'Ombra - The Novel
L'Ombra - The Novel
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E-book734 pagine10 ore

L'Ombra - The Novel

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Info su questo ebook

Il Vaticano ha creato un Team guidato da Monsignor Fürthwanger, il quale assolda sette investigatori privati per indagare sull'intensificazione di sostituzioni di opere d'arte, principalmente dipinti raffiguranti Maria Maddalena. I quadri sostituiti recano un'insolita firma: una croce patente quasi invisibile e perfettamente integrata col dipinto. Il romanzo narra di molti personaggi, alcuni coinvolti e altri no nel filone cui fanno parte le insolite sostituzioni, tra i quali spiccano L’Ombra, un frate misterioso che appare in molti luoghi d’Europa incappucciato in modo da lasciar intravedere solo un paio di “incredibili e magnetici occhi azzurri” e Sergei Podrovich, un astuto, abile e crudele ladro internazionale. Gli investigatori al soldo del Vaticano conosceranno tutti una tragica fine, e ciò spingerà il potente monsignore a chiamare a Roma Isacco Lancetti, che insieme all’Ombra, a Sergei, al Team e al Mossad saranno protagonisti dell’intera vicenda. Ma nulla sarà come appare.
LinguaItaliano
Data di uscita18 lug 2012
ISBN9788867550470
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    Anteprima del libro

    L'Ombra - The Novel - Roberto Morando

    L’Ombra

    The Novel

    Versione e-Book

    © 2008-2012 Roberto Morando

    roberto@nomenomen.net

    Copertina: 3D Computer Art Image realizzata dall’Autore

    Tutti i diritti riservati

    Jacques de Molay

    Anno Domini 1314, l’ultimo Gran Maestro si aggirava come un leone in gabbia negli angusti spazi della sua prigionia, che durava ormai da sette anni. Le accuse e le torture con le quali era stato costretto a rendere falsa testimonianza non ne avevano fiaccato lo spirito indomito, né aveva dimenticato quale fosse la sua missione. Il manoscritto era pronto, sapeva che i suoi giorni erano contati perché in un impeto d’orgoglio aveva ritrattato le sue dichiarazioni condannandosi a morte, e nella sua impazienza gettava nervosamente lo sguardo giù dalla torre dei cani dov’era detenuto, in cerca del segnale.

    Jacques de Molay avrebbe compiuto da lì a poche settimane settantuno anni, gran parte trascorsi per la causa templare alla quale aderì nel 1265, per diventarne Gran Maestro trentatré anni dopo. Visse a Cipro dove lavorò intensamente a una profonda riorganizzazione dell’ordine, conscio che fosse giunto il tempo di ristabilire molte verità che stavano lasciando il posto agli intrighi politici dei papi, forte dell’enorme massa di documenti di cui i Templari erano entrati in possesso nel corso dei secoli, e della sua profonda devozione a Maria. Ma fu attirato in Francia con un inganno, e il tredici ottobre del 1307 arrestato e rinchiuso nel castello di Chinon per ordine di Filippo il Bello con l’avvallo di Papa Clemente V, con la terribile accusa di eresia nei confronti di tutto il Pauperes Commilitones Christi Templique Salomonis, l’Ordine dei Templari che dal dodicesimo secolo fu spesso il braccio armato della Chiesa, e del quale fu destinato a rimanere nella storia come l’ultimo Gran Maestro.

    Negli ultimi quattro anni di prigionia aveva alacremente lavorato alle istruzioni che avrebbe lasciato in eredità, e in modo particolare alla definitiva creazione di una costola d’élite dell’Ordine, deputata a ristabilire la verità quando sarebbe venuto il momento. L’avidità di Filippo IV di Francia, detto il Bello, al quale i Templari avevano rifiutato la sua richiesta d’appartenenza, lo aveva disgustato ancor più che il pretesto addotto da Papa Clemente per catturarlo, cioè di discutere sulla fusione con i cavalieri Ospedalieri. Il re con la benedizione del Papa aveva dato la caccia agli ebrei e sottratto tutti i loro beni, e dopo l’arresto di Molay perseguitato e catturato gran parte dei Cavalieri residenti in Francia.

    Non restava più alcuno spazio per ciò che erano stati i Templari sino a quel momento, e le sue istruzioni dettavano per filo e per segno luoghi e persone dove riorganizzare l’Ordine, ma con il preciso comandamento che da quel momento in poi, il sangreal e le organizzazioni connesse a tutte le dinastie si rifugiassero nella più inaccessibile e occulta segretezza. Una segretezza che avrebbe dovuto perdurare sino ai nostri tempi.

    Ma era quella che lui chiamava la verità, il compito che doveva essere incanalato e raffinato verso il momento opportuno, ciò che più lo angustiò nei lunghi mesi di prigionia. La più importante delle dinastie dell’Ordine lavorava già da tempo sull’ingiustizia della verità negata, ma perlopiù limitandosi a una sorta di azioni di disturbo e dispetto nei confronti del Potere Temporale, anziché riuscire a creare un disegno e un’organizzazione che nel corso dei secoli a venire avrebbe dovuto agire miratamente in attesa del momento. Se nel suo manoscritto Molay era andato giù spedito a vergare istruzioni, mappe e segreti che aveva in testa da sempre, diverso fu focalizzare un’azione esemplarmente punitiva, di grande significato emotivo, ma al contempo tale da poter essere messa in atto, seppur pericolosamente, senza che sangue inutile fosse mai più sparso.

    Occorrevano le persone giuste e i mezzi economici, e se per le prime la decisione non poteva che ricadere su chi l’inganno lo aveva subito, per i denari necessari occorreva che le sue istruzioni fossero seguite alla lettera, nell’inevitabile momento di sbando iniziale che sarebbe seguito dopo la sua morte. Non era di tesori che mancava l’Ordine, ma l’intero cerchio interno dei Templari fu arrestato con lui, e poche figure potevano avere il potere e il seguito necessari a ricostituire le gerarchie che occorrevano e far eseguire gli ordini.

    Jacques de Molay iniziò allora con lo scrivere alcune importanti missive dirette ad altrettanti Cavalieri, per censo e per storia adatti a riprendere in mano le briglie. Lasciò a colui che il costituendo cerchio avrebbe designato come nuovo Gran Maestro tutte le decisioni, benedicendolo sin da ora e vergando il suo assenso. Chiese un unico favore, una sorta di ultimo desiderio per il quale domandò di non derogare ad alcuna sua parola.

    Solo tre persone tra cui egli stesso erano a conoscenza di due località segrete, dove fu diviso in due parti e occultato un ingente tesoro, ed erano stati tutti catturati insieme a lui. Disegnò allora la mappa per il suo ritrovamento su una delle missive, e impartì l’ordine di tenerne metà per ridare forza e dignità all’Ordine, mentre l’altra metà doveva essere consegnata alla decana della dinastia, che da quel momento in poi avrebbe seguito le sue istruzioni rispondendo esclusivamente al Gran Maestro della nuova era. Il denaro sarebbe servito a costruire un rifugio impossibile da trovare, che avrebbe custodito nei secoli a venire gli oggetti delle sue direttive.

    Alla decana della dinastia scrisse più di cinquanta pagine e le domandò tra l’altro di dedicare tutta la vita che gli sarebbe rimasta per mettere in piedi quanto andò descrivendogli. Stilò l’elenco delle uniche persone alle quali avrebbe potuto chiedere aiuto, e argomentò a lungo sul significato delle azioni che avrebbero dovuto compiere. La mano che doveva farlo doveva appartenere alle sole eredi della dinastia, per non cadere nel peccato della falsa testimonianza, le uniche a possedere il diritto divino di compiere tali gesti nei confronti dell’umanità e dei responsabili. Qualora non fossero nate le figure adatte si sarebbe dovuto attendere, ma dal momento in cui ella avrebbe ricevuto la missiva dell’ultimo Gran Maestro, la nuova costola Templare avrebbe dovuto rapidamente prendere forma e iniziare ad agire per assicurare loro la nuova grotta, com’egli esplicitamente la chiamò. L’ultima parte del lungo incartamento descrisse l’abbigliamento da utilizzare, e la necessità di adottare un segnale distintivo rispetto agli altri Templari.

    Sulla torre dei cani era calato il buio, e Molay stava perdendo le speranze di poter affidare il destino di secoli di storia all’avventura di farlo giungere in Terrasanta. Molti mesi prima aveva ricevuto la visita di un padre confessore, com’egli aveva richiesto più volte, e quando costui si recò nella torre la prima volta, con sua grande sorpresa gli vide compiere il gesto che li identificava. Il padre confessore era un Templare, e cercò prima di sparire definitivamente di sollevare la prigionia del suo Maestro, dal quale ricevette l’incarico di non mancare all’ultimo appuntamento.

    Erano però già trascorsi quattro mesi dall’ultima volta che il padre gli aveva fatto visita, sostituito da un altro confessore. Molay aveva chiesto al cappellano templare di tenersi informato, e cercare di capire per quando avrebbero organizzato la sua esecuzione. Il segnale concordato era l’accensione di un lume la cui visione sarebbe stata accessibile al Gran Maestro dalla stretta feritoia della torre. Molay nella notte del suo penultimo giorno avvertiva che il tempo era giunto, e da qualche settimana aveva preso a girare in tondo nella sua cella non appena il sole calava, gettando lunghe occhiate verso il nero orizzonte, sino a quel momento senza esito.

    Sopraggiunto da un improvviso impeto d’ira serrò i pugni maledicendo la sua malasorte, ma proprio quando il possente avambraccio vibrò nell’aria gli sembrò d’intravedere una timida fiammella oltre la grata, che all’istante però scomparve. Trascorsero altri cinque minuti poi nuovamente un timido bagliore cominciò tremolante a farsi forza, e divenne finalmente fuoco. Molay acuì lo sguardo, rilassò le membra e ringraziò Dio, poi corse verso il suo mesto giaciglio per estrarne un sacchetto di stoffa, quindi si precipitò nuovamente verso l’apertura e lo gettò di sotto farfugliando una preghiera.

    Il giorno seguente fu tradotto a Parigi lasciando definitivamente il castello di Chinon, che centoquindici anni dopo avrebbe ospitato l’incontro tra Carlo VII e Giovanna d’Arco destinata anch’essa a fare la stessa fine di Jacques de Molay, non senza divenire poi molto ipocritamente santa e patrona di Francia venerata dalla Chiesa.

    …troppo terribile da pensare o esprimere, crimini detestabili, mali esecrabili, fatti abominevoli, quasi disumani… è di aver causato a Cristo ingiurie più gravi di quelle sofferte sulla croce. Esclamarono le parole dell’imputazione, rivolte all’ultimo Gran Maestro prima che fosse data vita alle fiamme che arsero la fine di un’era e l’inizio di un’altra molto più oscura.

    La denuncia di eresia fu emessa dal capo dell'inquisizione in Francia, Guillaume de Paris su ordine di Clemente V, il papa eletto con il supporto decisivo di Filippo IV detto il Bello. Sull’isola della Senna, presso Notre Dame il fuoco fiammeggiò a lungo, ma non bruciò le pagine che ancora non erano state scritte.

    "Veggio in Alagna intrar lo fiordaliso

    e nel vicario suo Cristo esser catto.

    Veggiolo un'altra volta esser deriso;

    veggio rinnovellar l'aceto e'l fele,

    E tra vivi ladroni esser anciso.

    Veggio il novo Pilato sì crudele,

    Che ciò nol sazia, ma senza decreto,

    Porta nel Tempio le cupìde vele.

    O Segnor mio, quando sarò io lieto

    A veder la vendetta, che, nascosa,

    Fa dolce l'ira tua nel tuo secreto?"

    La Dinastia

    Anno Domini 1314, un’ombra furtiva abbrancò il fagotto e fuggì nella notte. Un drappello di fidati Cavalieri sopravvissuti all’epurazione di Clemente V partì alle prime luci dell’alba verso Cipro e da lì raggiunse in seguito la Terrasanta. Il testamento di Jacques de Molay, suddiviso in due parti com’egli aveva istruito, giunse così a destinazione e fu fatta la sua volontà. Più tardi, nel 1500, l’originale fu ricopiato sotto forma di libro in quindici copie perfettamente identiche, e diventò una sorta di seconda bibbia per i nuovi cavalieri. Il gesto sancì inoltre il definitivo rifiorire dell’Ordine dei Templari, pur se nell’inaccessibile e occulta segretezza, come ordinato.

    Merrem, la decana della dinastia, prese in custodia la parte di testamento destinatole direttamente dalle mani del Gran Maestro della nuova era, insieme ai titoli della proprietà di poco meno di metà dell’ingente tesoro, che fu convertito in denaro e custodito nelle banche che erano riusciti a salvare dalla cupidigia di Filippo IV. La nuova Loggia del Tempio fu fondata col nome di Regina Maris, e il suo Cerchio fu istituito poco dopo, con pari dignità e con rigorosa attenzione alla linea di sangue. La ricerca del sito per la Grotta fu immediatamente avviata dopo che ne furono state tratteggiate le caratteristiche, secondo i compiti che aveva assegnato loro Molay. Ma fu solo verso la fine del millequattrocento che il luogo definitivo fu trovato, grazie alla mediazione di Guy de Blanchefort Gran Maestro dell’Ordine degli Ospitalieri ma templare nella realtà e discendente di Bertrand de Blanchefort, sesto Gran Maestro morto centoquarantacinque anni prima di Jacques de Molay.

    Così, ancora una volta come secoli e secoli prima la dinastia approdò in terra di Francia, intorno al 1512 quando Guy de Blanchefort era all’apice del potere, e furono acquistati i terreni necessari al sud, dove molto più tardi molte storie e altrettanto baccano vi si concentrarono.

    La Regina Maris mantenne intatta per secoli la sua struttura, cercando esclusivamente di occultarsi al mondo via via sempre di più, mandando avanti fidati emissari quando necessitava, per concentrarsi e organizzarsi solo sulle proprie azioni. Il Cerchio era composto da sei persone, tutte in linea di discendenza e, se si preoccupava di mantenere fermamente ogni comandamento dagli albori, per il compimento e la messa in opera delle azioni ammetteva l’utilizzo di qualsiasi strumento moderno fosse nel frattempo venuto a disposizione.

    Il Potere Temporale, come continuavano a chiamarlo, si fregiava di simboli e accumulava patrimoni dotandosi di sempre più potere, connivenze e mezzi, arroccato sull’inganno iniziale, che un giorno, quando avrebbero saputo che il momento era giunto, avrebbero svelato. La Loggia dapprima si limitò a radunare ciò che già era stato sottratto all’insaputa di chi lo sbandierava ipocritamente al mondo, grazie anche all’immenso patrimonio di segrete conoscenze dell’Ordine, del quale avevano fatto parte illustri personaggi che già, per loro personale convinzione, avevano agito nella stessa direzione.

    Terminata che fu quella prima fase iniziarono le azioni, ma per lunghi periodi nel corso del tempo dovettero arrestarle in quanto, se il compito principale del Cerchio era quello di designare la mano che avrebbe compiuto materialmente le azioni nel rispetto del comandamento, essa doveva appartenere rigorosamente alla persona adatta.

    I terreni acquistati dalla Dinastia circondavano il luogo deputato allo scavo della grotta che fu completata in pochi anni profittando della concomitante edificazione di un grosso edificio, il quale fu in seguito abilmente donato dai d’Hautpoul alla diocesi di Carcassonne e divenne luogo consacrato. Poco distante nel 1781 il curato Antoine Bigou ricevette la confessione della marchesa Marie de Nègri d’Ablès d’Hautpoul-Blanchefort in punto di morte, la quale confessò di essere a conoscenza di un terribile segreto che doveva essere tramandato. In realtà la marchesa stava giocando con le carte della Loggia, come tutti i d’Hautpoul-Blanchefort da secoli. I tempi sarebbero cambiati in fretta e occorreva preservare a ogni costo la segretezza del sito, fu così che Marie convinse il suo confessore a nascondere a tempo debito alcuni documenti vicino all’altare, cosa che egli fece dieci anni dopo eseguendo anche le altre istruzioni della nobildonna, in cambio di un generoso lascito.

    Ci vollero altri novantaquattro anni prima che il piano avesse effetto, nonostante le altre azioni che furono messe in atto dal Cerchio, e nonostante Bigou avesse a sua volta confessato ad altri due parroci il cosiddetto segreto della marchesa. Accadde precisamente quando un certo François Bérenger Saunière creò involontariamente le basi per il putiferio che poi si sarebbe scatenato.

    Nascondersi in un luogo che tutti considerano covo d’eccitati esoterici intenti a mettere in dubbio le parole dei Vangeli, fu la più sopraffina delle trame messe in atto dalla Regina Maris.

    La Gioconda. Parte I

    L’architetto si stiracchiò e si allontanò di un paio di passi dal suo tecnigrafo per rimirare le fatiche del suo lavoro. La planimetria di una vasta sala occupava tutto il piano a disposizione, ed era stata completata da numerosi schizzi che indicavano percorsi pedonali nelle varie direzioni, intorno a un’importante teca posta al centro. Sulle pareti erano indicate aree delimitate da numeri, cui facevano capo altrettanti titoli di opere d’arte scritti su di un foglio appeso di lato con una puntina da disegno. Era venuto il grande giorno, il sorriso più famoso del mondo sarebbe finalmente ritornato al suo posto dopo quattro anni di restauro della Salle des États, e la sua temporanea sistemazione nella Salle Rosa. La sua nuova casa sarebbe stata una teca blindata progettata e realizzata in Italia, posta nella sala di ottocentocinquanta metri quadri, dove aveva già fatto bella mostra di sé dal 1950 al 2001.

    Il laboratorio museotecnico di Milano che era stato chiamato per mettere a punto quella sorta di cassaforte trasparente, aveva progettato una struttura capace al tempo stesso di salvaguardare il capolavoro e darne la migliore visibilità possibile. La ditta italiana si era già distinta, tra l’altro, per aver realizzato soluzioni per i gioielli della corona nella Torre di Londra. Una struttura d'acciaio avrebbe dall’indomani protetto il dipinto di Leonardo da Vinci da tre lati, mentre la parte anteriore sarebbe stata racchiusa da una lastra di vetro speciale blindato, alta tre metri e mezzo e larga più di due. Nonostante lo spessore il vetro aveva una trasparenza perfetta, grazie anche ai ricercati trattamenti antiriflesso. Inoltre un sistema innovativo sarebbe stato in grado di mantenere il giusto microclima all'interno della teca. L'atmosfera all’interno della cassaforte trasparente era, infatti, una questione di importanza cruciale per la conservazione del capolavoro di Leonardo poiché deve tenere sotto controllo l’umidità, le polveri e gli inquinanti che potrebbero deteriorare la preziosissima tavola, che tende ormai a incurvarsi e ad alterare i delicati colori dopo cinquecento anni.

    L’architetto era giustamente orgoglioso del suo lavoro, era riuscito a progettare una grande parete da porre al centro della sala, sulla quale la Gioconda avrebbe spiccato da sola, circondata dagli altri capolavori posti invece sulle pareti. Si era dimostratosi attento sia all'aspetto prettamente stilistico sia a quello funzionale, perché gli oltre sei milioni di visitatori che ogni anno fanno visita alla Monna Lisa, meritavano uno spazio più ampio e godibile. Egli immaginava, infatti, che non aveva senso per il novanta per cento delle persone che entravano al Louvre solo per lei di sentirsi rispondere dagli inservienti: Cammini per di qua, giri a destra, giri a sinistra, eccetera.

    Nella nuova sala si sarebbe camminato diritto verso di lei, la si sarebbe notata immediatamente e si sarebbe ottenuta anche una maggiore fluidità del flusso dei visitatori, cosa che non guastava affatto. E poi sarebbe stata in buona compagnia, pensò esaminando la lista, altri cinquanta capolavori italiani del sedicesimo secolo, tra i quali le nozze di Cana del Veronese avrebbero vegliato il suo magico sorriso, come lui amava pensare.

    Ciò che l’architetto non immaginava affatto però, era ciò che realmente avrebbe riposto in quella costosissima teca.

    L’Uomo misterioso. Parte I

    Una figura di medio alta statura si staccò dal muro dove si era soffermata a scrutare la via che doveva percorrere, come per accertarsi che nessuno la potesse avvistare. Era un uomo coperto da un pesante mantello scuro di foggia religiosa, il capo era coperto da un cappuccio che lasciava intravedere ben poco del volto, ma lasciava scorgere un lembo di stoffa più chiara che affiorava da sotto. Ai piedi portava un paio di stivali di pelle scamosciata scura, dai tacchi squadrati. L’uomo si guardò furtivamente intorno, poi parve scorgere il momento adatto e con uno scatto si avviò a passo lesto lungo una stretta via che conduceva in Rue Voltaire, dove si ergeva una sontuosa cattedrale, raggiunta la quale, risalì svelto una scalinata e sparì in una porticina laterale, posta oltre un cancello.

    Sergei osservò la scena nascosto in un oscuro androne di un palazzo di fronte, sbirciando dalla fessura del portone che aveva opportunamente lasciato discosto. Quando l’uomo si avviò lungo la via attese una manciata di secondi, il tempo di verificare che un secondo uomo si avviasse goffamente a pedinarlo, quindi stando bene attento a non fare il minimo rumore si appiattì lungo i muri e si sporse dall’angolo per scoprire dove andassero. Sergei Podrovich era un uomo alto, di età superiore ai cinquant’anni che portava magnificamente nonostante le rocambolesche avventure in giro per il mondo a rubare opere d’arte. Ne mostrava sì e no quaranta e vestiva comunemente in modo pratico, perché la sua vita avventurosa lo aveva già costretto molte volte a rapide fughe e a improvvisi combattimenti corpo a corpo con qualche malcapitato, quando non direttamente con uno o più agenti di polizia. Per quel pedinamento vestiva un paio di blue-jeans e una polo nera, e si difendeva dal freddo pungente di febbraio con un colbacco pesante e un giaccone di renna imbottito. Ai piedi portava un paio di scarpe da ginnastica di foggia moderna, progettate per essere utilizzate specificamente nel jogging.

    A vederlo Sergei incuteva timore, la sua statura insieme alla sua massiccia ma agile corporatura, senza un filo di grasso, lo indicava al primo sguardo come essere un uomo temibile e pericoloso, dal quale stare alla larga. La sensazione di avere di fronte una persona spietata era rafforzata dallo sguardo fisso col quale due magnifici ma durissimi occhi cerulei, squadravano l’interlocutore. Pochi riuscivano a sostenerlo, molte donne invece amavano perdervisi strette tra le braccia dell’abile ma crudele amante russo, che aveva alle spalle una lunga carriera di furti e omicidi, solo una parte dei quali imputati ufficialmente a lui. Era, infatti, abilissimo nel far ricadere la colpa sugli altri.

    Nato a San Pietroburgo nel 1954, aveva iniziato a venticinque anni la carriera di ladro su commissione, facendosi ben presto conoscere dai suoi potenziali clienti e dalle polizie di mezzo mondo. Dato per disperso nel 1984 a Parigi, dove un anno prima era stato coinvolto in una gigantesca rissa scoppiata in un ristorante lungo la Senna, si era dovuto ricostruire una nuova identità, ma ben presto era riuscito a informare chi di dovere e chi gli interessava che lui era sempre in attività. In quel momento si trovava nuovamente in Francia su incarico di un ricchissimo esponente della mafia del suo paese, che si era messo in testa di appendere la Gioconda nella sua stanza da letto, come Napoleone Bonaparte. L’esperto ladro sapeva benissimo che l’impresa era praticamente impossibile, ma il suo committente pagava fior di soldi in valuta pregiata, e si era lasciato convincere a compiere uno studio di fattibilità sulla cosa, dietro un compenso di centomila dollari e il rimborso totale delle spese, metà dei quali erano già sui suoi conti sparsi tra le Cayman e il Principato del Liechtenstein.

    Una settimana prima Sergei era arrivato a Parigi via Lussemburgo, dove aveva sostato un paio di giorni prima di iniziare a seguire quell’uomo, e dove aveva sede la sua Libre Union de la Vérité, sua nel senso che aveva in concreto costretto alcune benestanti signore di mezza età a crearla per lui e per i suoi scopi. L’idea gli era venuta nel 1975 ed era geniale. Siccome aveva capito da tempo che era nel campo delle opere religiose o dei capolavori raffiguranti quel tema che si facevano i migliori affari, si attivò per creare un’associazione di persone ricche e sfaccendate al di sopra di ogni sospetto, che si occupassero di creare un immenso database di dipinti suddivisi per singolari categorie, con l’intento di offrire un nuovo punto di vista sulle raffigurazioni, e magari svelare nuove e nascoste verità sulla storia del Sacro filtrandola attraverso le opere degli artisti nei secoli.

    Di Arte e Religione erano piene le librerie di tutto il mondo, ma nessuno aveva mai pensato di raggruppare le opere in quel modo. Dalla catalogazione di tutti i nudi femminili con capelli rossi, a quella ove compariva come soggetto una croce, passando attraverso le opere che ritraevano solo il volto di Cristo o quelle contenenti le varie raffigurazioni del Graal.

    Utilizzando le sue collaudate ed efficaci tecniche di seduzione, in pochi mesi fece fondare a una sua ricca e annoiata amante la Libre Union de la Vérité a Luxembourg. Ben presto l’entusiasta signora coinvolse molte sue amiche e conoscenti nel progetto, e grazie alle influenti conoscenze del marito ottenne mezzi e permessi per esaminare le opere di tutto il mondo, riuscendo persino a coinvolgere alcuni istituti d’arte che fecero compiere ai loro studenti le necessarie ricerche informatiche. Ma a Sergei interessava ben poco di offrire un utile progetto all’umanità, e usava l’ormai notevole database per offrire preziose e singolari idee ai collezionisti suoi clienti, che avrebbero pagato qualsiasi cifra per entrare in possesso di un trittico di Maddalene con i capelli rossi.

    L’unica cosa della sua carriera che gli era andata storta era accaduta a Vienna nel 1980, dove era stato pizzicato da un funzionario del KGB mentre esaminava con attenzione un dipinto a Hofburg, la residenza invernale dell’imperatore Francesco Giuseppe, e fu ricondotto in patria a espiare nel carcere di Beloe Ozero l’ergastolo cui era stato condannato. Carcere dal quale riuscì a fuggire grazie alla presidentessa della Libre Union de la Vérité che riuscì a fargli ottenere un colloquio privato con lei in una saletta del carcere, dopo aver corrotto le guardie necessarie alla sua fuga che avvenne esattamente nove mesi dopo la sua cattura. La signora ebbe qualche guaio con la giustizia, e anche l’attività dell’associazione fu passata al setaccio, ma le infallibili conoscenze delle attempate signore riuscirono a mettere a tacere la cosa, poiché Sergei tra l’altro non compariva in alcun modo tra le carte e le attività della Libre Union.

    Il russo aveva però dovuto abbandonare temporaneamente il suo lavoro al Louvre, dove si recava quasi tutti i giorni in veste di storico grazie a un lasciapassare speciale ottenuto dall’associazione, per studiare la situazione Monna Lisa e accontentare così il suo ricco cliente. Si era accorto, infatti, di essere seguito. In un primo momento pensò al Mossad, al quale era abituato, ma l’uomo che lo seguiva non si comportava come loro, né dimostrava di essere molto abile nei pedinamenti. La cosa non gli piaceva, così il giorno successivo Sergei iniziò un giro vizioso per la città, che ripeté nei giorni appresso, comportandosi come un qualsiasi studioso che avesse terminato il suo lavoro al Louvre e volesse visitare un po’ la città prima di ripartire.

    Il tipo lo seguiva come un’ombra, e quando Sergei si divertiva a giocare un po’ con lui, svoltando improvvisamente in una via laterale, oppure dirigendosi di scatto verso costui, il pedinatore mostrava una discreta goffaggine nel fingersi interessato ad altro. Il russo in realtà lo considerava un idiota, ma finché si fosse divertito sarebbe andato avanti ancora un po’. Fu sul Pont Neuf che decise di far perdere definitivamente le sue tracce, ma non prima di aver scoperto chi fosse costui e dove alloggiasse. Raggiunto l’altro capo della Senna svoltò a destra in Quai Voltaire e si diresse a passo svelto verso il Musée D'Orsay. Acquistò il biglietto e cominciò a girare per le sale come un turista qualsiasi, sino a quando non gli si presentò l’occasione giusta. Quando intravide un capannello di turisti giapponesi assiepati di fronte a una tela di Van Gogh fece scattare la sua trappola. Adocchiò il pedinatore per localizzarlo, poi approfittando di un gruppo che sopraggiunse a celarlo momentaneamente dalla sua vista, si confuse tra i giapponesi e pestando qualche piede attraversò il gruppo per sbucare dalla parte opposta, da dove con un ampio giro fece poi in modo di portarsi alle spalle dell’uomo che lo seguiva.

    Costui allungava il collo al di sopra della folla per cercarlo, e non si avvide che Sergei si era nuovamente intrufolato tra numerose persone che stavano sfilando alle sue spalle. Quando gli fu accanto Sergei fece finta di inciampare e gli mollò una gomitata tale da fargli arrestare il fiato, poi borbottò un sorry a mezza voce e usci rapidamente dall’edificio. L’incauto pedinatore se ne stette un buon quarto d’ora piegato in due, cercando di riprendere fiato e mandando al diavolo un curioso orientale che voleva scattargli una foto.

    Sergei, una volta fuori, si mimetizzò usando tutta la sua abilità e attese che l’uomo uscisse per accingersi lui stesso, a sua volta, a seguirlo. Dopo un po’ lo vide varcare la soglia con una mano che si teneva il fianco, lo lasciò sopravanzare di una ventina di metri quindi si avviò. Quando stavano per raggiungere nuovamente il Pont Neuf, Sergei vide che svoltava a destra in Rue Génégaud, affrettò il passo e fece in tempo a vederlo entrare in un hotel posto quasi al centro della via. Calcolò il tempo necessario a una persona per riprendersi la chiave della camera, scambiare qualche battuta col portiere, quindi estrasse la sua macchina fotografica dalla borsa, ne asportò la scheda di memoria e si mise a correre verso l’ingresso dell’albergo. Sopravanzò l’uscio di qualche metro gettando un’occhiata dentro per sincerarsi che l’uomo si fosse già diretto ai piani superiori, poi tornò indietro ed entrò simulando un respiro affannoso che non aveva. Si rivolse al portiere in perfetto francese e gli spiegò che l’uomo che era appena entrato era un suo amico che aveva dimenticato la macchina fotografica, che lui gliela voleva restituire ma che non lo voleva disturbare perché soffriva di ernia ed era corso in albergo per un improvviso attacco.

    La può lasciare qui signore se vuole, spiegò il portiere abboccando l’amo.

    Ah grazie, grazie davvero, gliel’avrei restituita domani al Louvre dove siamo d’accordo d’incontrarci ma sa, ha scattato molte foto oggi e magari avrà piacere di rivederle. Grazie lei è molto gentile. E mi faccia una cortesia ancora la prego, gli lasci anche un messaggio che ci vediamo alle dieci anziché alle nove com’eravamo intesi. Mi chiamo François. Sa questa sera ho un incontro galante e potrei fare tardi. Concluse Sergei strizzandogli l’occhio.

    Andò come lui sperava, il Receptionist prese un bigliettino e scrisse: Inv. Vaillard – appuntamento con François spostato alle dieci. Prima di riporlo insieme con la macchina digitale nella sua casella.

    Sergei aveva ottenuto più del risultato sperato, non gli era sfuggito, infatti, il titolo scritto dal portiere prima del nome. Ora sapeva che a seguirlo era un investigatore che di cognome faceva Vaillard. Ma la curiosità di conoscerne anche il nome non gli fece attendere di ritornare in albergo per connettersi alla Rete. Conosceva un Internet Point nei pressi, ci si recò e quando interrogò il motore di ricerca già nella prima pagina comparve:

    Dominique Vaillard Investigation

    Cabinet d'enquêtes et d'investigations privées, spécialiste en disparitions d'œuvres d'art.

    Dominique Vaillard, rue Marie Madeleine Fourcade 25. 69007 LYON.

    www.vaillardinvestigation.fr - info@vaillardinvestigation.fr./22k

    Il povero Vaillard si alzò con fatica dal letto intorno alle otto, aveva passato una nottataccia a causa del forte dolore. Era convinto di avere una costola rotta, è imprecò un paio di volte contro il turista e contro l’uomo che stava pedinando il giorno prima, senza sapere che erano la stessa persona. Dopo la doccia, che fu testimone di un altro elenco di parolacce a ogni tentativo di insaponarsi la schiena, l’investigatore ripose come poteva le sue cose nella valigia da viaggio, poi aprì il notebook per inserirvi il CD-ROM che conteneva il catalogo delle opere del Louvre. Attese l’inizializzazione del sistema operativo, quindi si mise a sfogliare l’immenso catalogo sino a trovare l’immagine della Gioconda.

    Era passata circa una settimana da quando Vaillard aveva incontrato per la prima volta Sergei, senza sapere chi egli fosse. Aveva notato che lo incrociava sempre nei pressi della sala dove è esposto il famoso quadro di Leonardo da Vinci, e aveva notato che costui, secondo lui per lo meno, aveva un modo di fare molto particolare. Mostrava un’attenzione per i particolari assolutamente non tipica del turista. Osservava tutti i quadri con molta attenzione, specie a com’erano appesi, sbirciando tra la cornice e il muro, e soffermandosi spesso a scrutare più la nuova teca blindata della grande sala degli Stati, che il quadro dell’Italiano in sé. Vaillard sapeva che le telecamere di sicurezza del Louvre sono in realtà finte, e che il sistema di sicurezza si limita a chiudere tutte le porte del museo se un quadro viene staccato dal muro. Ed era convinto che lo sapesse anche quel gigante biondo dagli occhi crudeli, perché lo aveva notato un paio di volte sollevare con sicurezza lo sguardo verso l’alto, con un sorriso che gli increspava le labbra.

    L’investigatore francese aveva deciso d’impulso di iniziare le sue indagini proprio da una visita a Monna Lisa, un po’ perché era curioso di vedere la sua nuova sistemazione dopo lo spostamento dalla sala Rosa, un po’ perché il monsignore che lo aveva assoldato per una complessa indagine riguardante la sparizione di opere d’arte a sfondo religioso, in un moto di rabbia aveva detto: …e ci mancherebbe anche che scoprissimo che la Gioconda è un falso adesso…, o qualcosa del genere. Così decise di prendere due piccioni con una fava, tanto da qualche parte doveva cominciare. Ricordava poi che durante un recente incontro col monsignore avevano parlato di una pista russa, ma che costui lo aveva obbligato a lasciar perdere perché il sospettato era dato ufficialmente per disperso. In realtà lo scaltro prelato voleva affidare a un altro la pista russa, ma lui non lo sapeva. Fu ricordando questo particolare che notò che i tratti somatici dell’individuo potevano benissimo essere quelli di uno dell’est, e così dopo averlo incontrato per l’ennesima volta ad aggirarsi per le sale, decise di seguirlo. Cosa che fece senza costrutto sino alla gomitata del pomeriggio precedente.

    Sarà stato di sicuro un giapponese… pensò massaggiandosi le costole doloranti, mentre copiava l’immagine della Monna Lisa nell’area di lavoro del minimale programma grafico in dotazione al sistema operativo. Terminata l’operazione salvò anche la pagina che la conteneva, estrasse il CD dal driver, e collegò la sua fotocamera digitale alla porta USB, quindi scaricò sul PC le immagini in memoria. Servendosi di un apparecchio fotografico estremamente compatto, e molto di moda tra gli investigatori francesi, era riuscito a scattare qualche foto di nascosto alla Gioconda, pur se con addosso il terrore di essere scoperto da uno degli inservienti del famoso museo.

    Analizzò attentamente il JPEG della donna, ingrandendo al massimo possibile l’immagine, poi scrollò in su e in giù, a destra e a sinistra come per cercarvi un qualcosa di nascosto, quindi estrasse dalla borsa imbottita una piccola stampante portatile Ink Jet in bianco e nero e la collegò, mandando poi in stampa i quattro angoli fortemente ingranditi del quadro. Quindi aprì in successione le immagini scaricate dalla fotocamera, ma i vetri della teca coi quali era protetto il dipinto avevano contribuito a fargli ottenere dei pessimi risultati. Le foto erano inutilizzabile per il suo scopo. Stampò la pagina del catalogo e aprì il WordPad per annotare qualche appunto, quindi spense il tutto e appiccicò un post-it su una delle stampe, dove scrisse: PAS DES CROIX Prima di lasciare definitivamente la stanza d’albergo.

    Mentre aspettava il taxi pensava a quel povero scemo che aveva scambiato persona, e gli aveva inaspettatamente regalato una nuovissima fotocamera reflex digitale da 10,2 megapixel.

    Aschaffenburg. Parte I

    Aschaffenburg, Germania del sud, definita da Ludovico I la sua Nizza bavarese per il clima temperato, era più bella che mai nonostante fosse novembre, le famose rose fossero di là da fiorire, e l’abbondante vegetazione mediterranea non certo nel pieno del suo splendore. I preparativi per il concerto serale di musica sacra organizzato dal Comune in occasione dell’anniversario della morte di Georg Ridinger fervevano. Il maestro Ridinger agli inizi del XVII secolo costruì il famoso castello Johannesburg su incarico del Principe Johann Schweichard von Kronberg, la magnifica costruzione tardo rinascimentale con i quattro possenti torrioni che faceva la guardia all’edificio più vecchio della città, la millenaria collegiata dei Santi Pietro e Alessandro, teatro di frequenti concerti di musica sacra ed esibizioni del locale coro di voci bianche, che quella sera avrebbe ospitato l’esposizione di pittura e un quartetto con pianoforte ad allietare la serata finale.

    L’antica abbazia non era nota soltanto per gli eventi che si organizzavano, ma custodiva molte miniature e pezzi rari dell’arte orafa. Ma il pezzo più pregiato era sicuramente il Lamento funebre per Cristo, un famoso dipinto di Matthias Grünewald che era gelosamente custodito, tranne che per quell’unica occasione, adeguatamente sotto chiave nella cripta della chiesa. Il prezioso dipinto sarebbe stato esposto in buona compagnia, nonostante il recalcitrante Abate non ne volesse inizialmente sapere, insieme con altre famose opere a sfondo religioso provenienti un po’ da tutto il mondo, e dove spiccavano per la loro bellezza quattro opere raffiguranti Maria Maddalena. L’anziano Abate, infatti, aveva sempre rifiutato di tirar fuori l’olio su legno di Grünewald ma si era dovuto piegare alle pressanti richieste che gli provenivano un po’ da tutte le parti, e bofonchiò il suo sì poco convinto allorché il Sindaco lo minacciò di chiudergli i rubinetti degli emolumenti che il Comune generosamente gli elargiva per i lavori di restauro di cui aveva continuamente bisogno la vecchia Chiesa.

    L’organizzazione della manifestazione aveva fatto un ottimo lavoro, e su pressioni dell’abate aveva assoldato ben cinque guardie giurate che avrebbero vegliato sui capolavori giorno e notte, durante tutti i quattro giorni nei quali sarebbero stati esposti. Le opere erano state sapientemente disposte ai due lati della navata principale, oltre il colonnato nell’ampio corridoio, e ognuna di esse era stata collegata in modo praticamente invisibile a un sistema di allarme fatto venire apposta da Monaco di Baviera, che avrebbe scatenato un inferno se anche solo una delle tele fosse stata spostata di un millimetro dai cavalletti. Luci soffuse spandevano i loro raggi in modo sapiente per conferire un’uniformità di chiarore sui soggetti, che spiccavano mistici nella penombra del luogo sacro.

    L’orologio del torrione est del castello risuonò per la seconda volta nella giornata il suo carillon composto da quarantotto campane di bronzo, mentre due egiziani e un siriano confrontavano ansiosi per l’ennesima volta l’orologio della torre con il loro.

    Yousef Abu Taha, Magdi Afify e Muhammad Ahmad Imam al-Kurdi erano stati incaricati da un uomo d’affari del Brunei che si diceva essere molto vicino alla famiglia del Sultano, di rubare a qualsiasi costo il Cristo di Grünewald. L’uomo senza scrupoli in realtà non aveva nulla a che fare con il Sultano del Brunei, né con nessuno della famiglia reale, talmente ricchi da potersi permettere di comprare direttamente un museo, senza per forza sporcarsi con trafficanti internazionali di opere d’arte. Il committente dei tre uomini altro non era invece che il rampollo di un’antica famiglia tedesca, il quale sfruttava le conoscenze del padre industriale per trafficare in opere rubate, perlopiù per conto di banchieri svizzeri senza scrupoli e nobili annoiati vogliosi di accrescere il proprio prestigio, regalando alla propria collezione privata un pezzo d’autore. Lo trovava molto più divertente e meno faticoso che occuparsi delle fabbriche di famiglia, e si era fatto nominare dal padre Responsabile delle relazioni esterne di un ufficio di relazioni per il Medio Oriente inventato appositamente per lui.

    Muhammad, Yousef e Magdi erano stati dotati di altrettanti passaporti svizzeri falsi, avevano presenziato a tutte le manifestazioni organizzate ad Aschaffenburg, e ora stavano limando la loro strategia d’azione che si sarebbe compiuta nella notte.

    Sono stufo di lavorare per il Kafir. Sbottò Muhammad, che era il capo dei tre, mentre beveva l’ultimo sorso di Tè nero.

    Stai calmo Muhammad, non è il momento di mandare all’aria un piano. Abbiamo ancora bisogno di denaro per la nostra causa, lo sai.

    Dio è grande, e noi non abbiamo nulla da regalare a quell’europeo che fa affari nel mondo musulmano.

    Che vorresti fare? Rubare il quadro e venderlo per conto tuo? Domandò seccato Yousef.

    Il quadro dell’uomo in croce lo consegneremo al Kafir, all’infedele, ma ruberemo anche qualche altra cosa e la venderemo per conto nostro. Il piano che abbiamo studiato è sprecato per un quadro solo, e se funziona per uno funziona per sei.

    Ricordati che dobbiamo farli uscire dall’Europa, e senza farci prendere Muhammad.

    Il quadro più difficile da portare fuori e l’uomo in croce Yousef, ce ne sono altri che si possono tranquillamente tagliare dalla cornice e arrotolare come una pagina del Corano. Disse seccamente Muhammad alzandosi di scatto e facendo segno agli altri di seguirli.

    Adesso andiamo a riposare qualche ora fratelli, sarà una notte lunga.

    Il quartetto si sistemò di fronte all’altare e iniziò ad accordare gli strumenti con l’aiuto del pianoforte, mentre la folla cominciava a occupare i posti nei settori numerati, e chi non era in possesso del biglietto per il concerto veniva invitato a uscire dopo aver ammirato i capolavori d’arte religiosa, mentre gli elementi del coro di voci bianche chiacchieravano tra loro un po’ più appartati, in attesa di esibirsi. Per l’occasione erano stato anche invitato il Docente di Storia della musica all'Università di Roma «La Sapienza» e del Pontificio Istituto di Musica Sacra, che avrebbe fatto le funzioni di presentatore oratore, nell’ambito di una programmazione che partiva da Bach, passando attraverso rivisitazioni di Vivaldi e Mendelssohn, e si sarebbe concluso con musica d’organo e canti gregoriani, voci e Strumento per eccellenza della musica sacra.

    Qualche decina di minuti prima dell’inizio del concerto i tre mediorientali fecero il loro ingresso nell’abbazia, e dopo aver mostrato il biglietto all’inserviente si avviarono verso i banchi alla ricerca dei loro posti. Un uomo coperto da un mantello nero e con un cappuccio calato sul volto si mosse dall’altare di fronte al quale s’era inginocchiato a pregare, in una delle cappelle ricavate sul muro perimetrale dell’edificio. Varcò l’arco a sesto acuto e lanciò un’occhiata a Muhammad e ai suoi colleghi che prendevano posto, quindi si sistemò sotto a un grande crocefisso di legno a circa metà navata dal lato opposto a costoro, e si inginocchiò nuovamente in atteggiamento d’assorta meditazione.

    Il canto di lode, che risuona eternamente nelle sedi celesti, e che Gesù Cristo sommo sacerdote introdusse, la Chiesa lo ha conservato con costanza e fedeltà nel corso di tanti secoli e lo ha arricchito di una mirabile varietà di forme. La Costituzione Apostolica Laudis canticum, con la quale Papa Paolo VI ha promulgato nel 1970 l'Ufficio divino, nella dinamica del rinnovamento liturgico inaugurato dal Concilio Vaticano II, esprime subito la vocazione profonda della Chiesa, chiamata a vivere il servizio quotidiano dell'azione di rendimento di grazie in una continua lode trinitaria. La Chiesa dispiega il suo canto perpetuo nella polifonia delle molteplici forme d'arte. La sua tradizione musicale costituisce un patrimonio di valore inestimabile, poiché la musica sacra è chiamata a tradurre la verità del mistero che si celebra nella liturgia. Benvenuti e grazie di avermi invitato! Fu l’incipit del retorico Docente, che diede inizio al concerto.

    Le ultime note di Mendelssohn aleggiavano ancora nell’abbazia, potenti quanto la struggente polifonia del canto gregoriano che aveva ammutolito gli spettatori tanto quanto era riuscito a fare il magistrale coro di voci bianche di Aschaffenburg, a metà serata. La gente non voleva saperne di avviarsi verso l’uscita e, in piedi, acclamava gli artisti che si erano succeduti in un interminabile abbraccio. Muhammad, Yousef e Magdi approfittarono dell’euforia generale per sfilarsi dai banchi e portarsi nei corridoi laterali. Il loro piano prevedeva di nascondersi nei confessionali della chiesa e attendere la notte per agire, ma le guardie dislocate nei punti strategici dell’edificio parevano avere mille occhi, e fermarono gentilmente un’anziana signora che aveva avuto la bella idea di confessarsi a quell’ora, allontanandola e spiegandole che sino all’indomani non sarebbe stato possibile. I tre assistettero alla scena, e cominciarono a temere che molto probabilmente le guardie sarebbero rimaste all’interno a vegliare sulle opere. Il loro piano doveva essere modificato, così si avviarono anch’essi verso l’uscita seguiti con lo sguardo dall’uomo col mantello nero che non li aveva persi di vista per l’intera serata.

    Fu intorno alle tre di notte che agirono, ora in cui la capacità di veglia dell’essere umano si riduce alla soglia minima di attenzione. L’occorrente lo avevano già con loro, e si erano rifugiati in un locale notturno che stava aperto sino a tardi, per attendere l’orario favorevole. Col favore delle tenebre e del rigido clima autunnale si disposero nei punti strategici della deserta Stiftsplatz, per capire la disposizione delle guardie, in caso si fossero divise in due gruppi. Dopo circa mezz’ora Yousef fece un cenno agli altri due, alzando tre dita della mano sinistra e indicando un punto sul lato destro della chiesa. Come un sol uomo Muhammad e Magdi estrassero le cerbottane dall’interno dei pastrani in cui erano avvolti, le caricarono con un dardo a forma di siringa contenente un potente narcotico di uso veterinario, e si mossero nella direzione di Yousef che aveva nel frattempo caricato la sua. Le tre silenziose armi, progettate per sparare narcotici anche da grande distanza alle belve feroci, sputarono i loro proiettili all’unisono verso le ignare e infreddolite guardie che caddero in pochi secondi.

    Dopo aver trascinato i corpi in un punto completamente oscuro della piazza, Magdi estrasse con cautela una grossa siringa dalla tasca interna del cappotto, ne rimosse il tappo di sicurezza e iniettò il liquido nella serratura che iniziò immediatamente a fumare e sfrigolare. Dopo un paio di minuti d’attesa inserì un grosso cacciavite e la fece scattare, infilandosi in silenzio all’interno insieme ai suoi compari. Le due guardie rimaste all’interno si erano divise tra i due corridoi laterali, dove le opere erano esposte e dove tra poche ore sarebbero state rimosse e imballate per tornare alle loro destinazioni. Ma l’ora era tarda, e pur se erano dei professionisti, alla loro quarta notte la stanchezza cominciava a farsi sentire. Uno di loro fece un cenno inequivocabile al collega, portandosi la mano aperta sul volto e piegando la testa. Quindi si accucciò meglio su di un banco per schiacciare un pisolino.

    La prima guardia cadde senza emettere nessun suono, soltanto che a differenza dei suoi colleghi all’esterno non si sarebbe mai più risvegliata. Il piano dei tre ladri prevedeva di sopprimere tutte le guardie, ma avevano fatto male i conti, in quanto avevano previsto due guardie in totale, e non cinque come si erano trovati di fronte. Le dosi del potente veleno africano che si erano procurati era sufficiente solo per due persone, così avevano deciso di usare il narcotico, portato per ogni evenienza, per le altre tre. Il tonfo del corpo sul pavimento fece risvegliare immediatamente la seconda guardia dal suo sonno leggero, che si diresse immediatamente verso il collega. Quando fu nei pressi Yousef gli sparò un secondo dardo dall’interno del confessionale, e anche il secondo uomo cadde privo di vita in una smorfia di dolore.

    Ci volle loro un’ora buona per venire a capo del sistema d’allarme, ma quando compresero che tutto era affidato a un sensore ottico posto dietro a ogni quadro, che ne rivelava la presenza sul cavalletto oscurando una fotocellula, si risolsero a lasciar perdere di disattivarlo. Strapparono le pagine dei Vangeli dal grosso libro posto sul leggio di lato all’altare, quindi infilarono cinque spessi fogli tra dipinto e cavalletto di altrettante opere, fissandoli sul bordo superiore del legno in modo che non potessero scivolare. Rimossero i quadri dal sostegno e con una taglierina asportarono la tela a tre di essi, quindi riposero la refurtiva in una grossa sacca imbottita e si avviarono da dove erano venuti.

    La mattina successiva Frau Hildegard Lottich, arrivata come ogni giorno alle sette e trenta in punto per le consuete pulizie, quando scorse i due cadaveri squarciò il silenzio della chiesa lanciando un potentissimo urlo. Le tre guardie all’esterno si risvegliarono all’ospedale intorno alle dieci del mattino, con la mente completamente obnubilata. Non ricordavano assolutamente nulla.

    Il rapporto della Polizia segnalò che erano state trafugate, nell’ordine:

    Mary Magdalene in the Desert, di Honoré Daumier, di proprietà del National Museum of Western Art. Tokyo. Olio su tela.

    Mary Magdalene, di Anthony Frederick Augustus Sandys, di proprietà di un collezionista privato. Olio su tela.

    Maddalena leggente, di Cristofano Allori, di proprietà della Galleria estense. Olio su rame.

    Maria Maddalena penitente, di Tiziano Vecellio, di proprietà dell’Hermitage Museum di St. Petersburg. Olio su tela.

    Lamentation of Christ, di Matthias Grünewald, di proprietà del Vaticano, conservato nell’Abbey Church di Aschaffenburg. Olio su legno.

    1.

    Isaac lanciò a terra con un gesto di stizza l’ultimo foglio del dossier e si sporse dalla vecchia e consunta poltrona di cuoio per afferrare il bicchiere di whisky, ma con una smorfia si rese conto che era di nuovo vuoto. Fece per alzarsi ma una fitta lancinante lo fece risedere con uno sbuffo e una bestemmia sussurrata a mezza voce. Respirò profondamente, ritentò serrando le mandibole e aiutandosi con le mani, finché riuscì a sollevare il suo corpo dolente dalla vecchia poltrona e si diresse al tavolo dove teneva le provviste del prezioso liquore. Isaac Lancetti era un uomo di quarantanove anni, capelli brizzolati pettinati all’indietro e occhi grigio-azzurri e, se non fosse stato per l’uso un po’ smodato di alcol, si sarebbe potuto dire che era in buona forma, alto e muscoloso, solo un po’ appesantito, più dalla vita che dai manicaretti che gli preparava nonna Gina, così la chiamava, anziana titolare d’origini italiane come lui di una mesta locanda del suo quartiere, dove mancava ogni forma di lusso ma a un buon prezzo, non il buon vino e le specialità italiane che lui preferiva.

    Ma non mi poteva capitare un lavoretto normale, un marito cornuto che vuole pedinare la moglie invece di un intrigo del genere…, pensò mentre si versava un paio di dita abbondanti di Jack Daniels nell’ultimo bicchiere rimasto di quello che era il servizio da whisky, che lui e quel cadavere rinsecchito della moglie avevano ricevuto venticinque anni prima come regalo di nozze. Isaac era decisamente di cattivo umore, sarebbe stato un uomo mite e facile da rendere felice, se non fosse che la sua totale incapacità di commettere atti che non fossero più che trasparenti non lo aveva affatto aiutato nel lavoro. E come spesso accade in simili frangenti, il destino ci aveva messo del suo, e forse lui stesso non aveva fatto molto per richiamare l’attenzione su di sé, regalandogli un presente di crescenti problemi economici.

    Dulcis in fundo Rachel, sua moglie, che era già brutta quando lui l’aveva sposata, era diventata qualcosa di indescrivibile nel corso degli anni, per giunta anche cattiva e irascibile. I suoi pochi amici di Boston al tempo non si capacitarono di come lui, al quale andava bene sempre tutto delle donne purché fossero buone, e avessero qualche curva qua e là, si fosse fatto abbindolare dalle chiacchiere di lei e dalla sua dote in denaro, che lei al tempo gli offrì per impiantare la sua attività salvo rinfacciarglielo quasi subito, e in quattro e quattr’otto se la fosse sposata. I primissimi mesi di matrimonio furono passabili, se non fosse stato che al ritmo di uno ogni quindici giorni perse presto i suoi amici a causa di lei, che non faceva altro che stufarli nei modi più disparati e subdoli, quando il giovedì sera venivano a trovare Isaac per farsi un bicchierino e discutere insieme di come aver ragione di qualche trota, passione che avevano in comune. Isaac però non ci badava, all’inizio pensava che tutto si sarebbe aggiustato con la pazienza e con il tempo, e nei primi sei mesi di matrimonio, paziente, si dedicò oltre che alla pesca in solitaria a consumare la dote di lei, accuratamente messale da parte dal padre Bob. Un oscuro archivista che aveva visto poche volte la luce in vita sua e non era mai entrato in un locale pubblico, dote che si estinse per mettere appunto in piedi la sua attività che ancora oggi portava avanti con fatica. L’investigatore privato.

    Che grana, se non fosse stato per quel maledetto direttore di banca gliel’avrei sbattuto in faccia il suo incarico importante a quel tipo isterico, peggio di quella maledizione rinsecchita e frigida di mia m… Bofonchiò mentre si accingeva a vuotare d’un fiato il bicchiere, se non fosse che proprio in quel momento Rachel entrò furibonda nell’ufficio facendogli andare per traverso il liquore. Ti rendi conto di che ore sono? Eh? Ti rendi conto? Ti sei dimenticato di avere una moglie? Eh? E smettila di bere, smettila di guardarmi in quel modo e smetti di fare quei versi come se ti stessi strozzando, stai vomitando quella robaccia sul tappeto di mia madre. Eh? Vieni a dormire! E così concludendo ciabattò nuovamente fuori senza dargli alcuna possibilità di replicare.

    Isaac fece qualche passo avanti sputando l’ultimo goccio che gli era andato di traverso. Avrebbe voluto vomitargli addosso tutta la pazienza trangugiata in quei miseri anni di convivenza, avrebbe voluto dargli finalmente della strega, uscire e respirare una boccata d’aria fresca, ma non fece nulla, come sempre. Lei si era già rinchiusa in camera infagottata in quel dannato pigiamone rosso coperto di margherite, di due taglie più grosso, ma cosiii caaaldooo, come diceva quando lui cercava di farle indossare qualcosa di meno desolante. Si riaccasciò sulla poltrona impotente, mentre l’immagine di lei che viveva come un topo insieme a suo padre in uno stramaledetto buco puzzolente di muffa lo sbeffeggiò, calpestandogli i pensieri ancora una volta. Gli ci volle un po’ prima di riuscire a scacciare quel volto testimone dei suoi fallimenti, e ripulire la mente, ma almeno quella notte decise che no, quella notte proprio non l’avrebbe passata in stanza da letto, così raccolse i fogli del dossier dal pavimento e sì sistemò sul divano per cercare di fare il punto della situazione.

    Isaac aveva disdetto da tempo il contratto di affitto dell’ufficio in Margaret Street, non ce la faceva a pagare la pigione, e così era stato costretto a sistemarsi in casa, in quella che avrebbe dovuto essere la stanza dei figli che non erano mai venuti. Ma si rivelò ben presto una scelta infelice pur se obbligata, Rachel, infatti, quando tornava dal lavoro non faceva che tormentarlo impedendogli di concentrarsi, quando lui non era fuori per le sue indagini e doveva studiare un caso a tavolino. Proprio come cercava di fare in quel momento. Gli capitava spesso di rimettersi al lavoro dopo cena, se così si fosse potuta chiamare quell’accozzaglia di intrugli senza senso che Rachel gli presentava in piatti di carta colorati di rosso e dal bordo dorato. Perché lui carburava meglio dal tardo pomeriggio in poi, e la notte la preferiva ancor di più, perché dopo che la moglie aveva fatto la sua sceneggiata serale e si era finalmente addormentata, nella casa regnava il silenzio e la pace, anche se poi, mesto s’infilava comunque a tarda ora in stanza da letto. Anche il telefono non avrebbe potuto squillare a quelle ore, e nemmeno il postino sarebbe venuto a portare le bollette e i solleciti di pagamento quotidiani.

    Isaac però era a corto di incarichi, l’ultimo caso a cui aveva lavorato era un’indagine fatta per conto di un bottegaio che sospettava che i suoi dipendenti gli rubassero l’incasso. Aveva risolto brillantemente il caso, i soldi sparivano sì, ma era la moglie di lui che glieli sottraeva di nascosto, non i dipendenti, ma nonostante il successo dovette faticare non poco per incassare il compenso, e dovette pure digerire uno sconto perché il bottegaio piangeva miseria a causa dei soldi sperperati dalla consorte. L’incasso gli era bastato appena a coprire le spese e a comprare sei bottiglie di Whisky, una stecca di sigarette e una cassa di birra doppio malto. Rachel non gli lasciava un centesimo. Hai già dilapidato la mia dote per fare il cretino, diceva, in ogni caso il suo salario andava quasi tutto per l’affitto di casa, le spese dell’auto e le donazioni che Rachel faceva a oscure associazioni umanitarie, nonché al parroco di quartiere che sosteneva a distanza i bambini poveri del Ruanda. Così Isaac, periodicamente, doveva turarsi il naso e le orecchie e far visita a Mellow.

    Era accaduto anche quindici giorni prima, infatti, e fu proprio mentre cercava di convincere mister Mellow – il direttore della banca – che avrebbe presto posto rimedio allo scoperto che aveva ormai raggiunto i diecimila dollari, che ricevette una telefonata internazionale.

    Hello? Parlo con mister Isaac Lancetti?

    Sì sono io, chi è all’apparecchio?

    Il mio nome al momento non è importante mister Lancetti, lei è l’investigatore titolare della Lancetti Watching non è vero?

    Se mi chiamo Lancetti sarò io il titolare non crede mister Anonimo?

    Sarebbe disposto ad accollarsi un caso molto importante mister Lancetti?, rispose per contro l’interlocutore senza perdere tempo in convenevoli, mentre Isaac lanciava un’occhiata al direttore che tamburellava nervosamente le dita sulla sua preziosa scrivania di mogano.

    Beh, dipende dal caso, sono un po’ occupato negli ultimi mesi, ma se ne può parlare…, ribatté Isaac mentendo spudoratamente.

    "Non posso dirle nulla telefonicamente Lancetti, si tratta di una cosa molto

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