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Anna Karenina (Nuova edizione annotata)
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Anna Karenina (Nuova edizione annotata)

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Anna Karenina (in russo: Aнна Каренина) è un romanzo di Lev Tolstoj che fu pubblicato per la prima volta nel 1877.
Considerato un capolavoro del realismo, l'autore trasse ispirazione da "I racconti di Belkin" dello scrittore e poeta russo Aleksandr Sergeevič Puškin.
Sebbene la maggior parte della critica russa stroncasse il romanzo fin dalla prima pubblicazione, definendolo «un romanzo frivolo dell'alta società», secondo lo scrittore russo Fëdor Michajlovič Dostoevskij «Anna Karenina in quanto opera d'arte è la perfezione... e niente della letteratura europea della nostra epoca può esserle paragonato». La sua opinione fu condivisa da Vladimir Vladimirovič Nabokov, che lo definì «il capolavoro assoluto della letteratura del XIX secolo».

LinguaItaliano
EditoreKentauron
Data di uscita30 dic 2014
ISBN9781987892611
Anna Karenina (Nuova edizione annotata)
Autore

Leo Tolstoy

Leo Tolstoy (1828-1910) was a Russian author of novels, short stories, novellas, plays, and philosophical essays. He was born into an aristocratic family and served as an officer in the Russian military during the Crimean War before embarking on a career as a writer and activist. Tolstoy’s experience in war, combined with his interpretation of the teachings of Jesus, led him to devote his life and work to the cause of pacifism. In addition to such fictional works as War and Peace (1869), Anna Karenina (1877), and The Death of Ivan Ilyich (1886), Tolstoy wrote The Kingdom of God is Within You (1893), a philosophical treatise on nonviolent resistance which had a profound impact on Mahatma Gandhi and Martin Luther King Jr. He is regarded today not only as one of the greatest writers of all time, but as a gifted and passionate political figure and public intellectual whose work transcends Russian history and literature alike.

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    Anteprima del libro

    Anna Karenina (Nuova edizione annotata) - Leo Tolstoy

    ragione

    Parte I

    Capitolo I


    Le famiglie felici si somigliano sempre l’una con l’altra: ogni famiglia infelice lo è in un modo particolare.

    Tutto era sottopra in casa Oblonskij. La moglie aveva saputo che il marito era in intime relazioni con una governante francese che era stata da loro e gli aveva dichiarato che non poteva più vivere nella stessa casa con lui. Questa situazione si protraeva già da tre giorni e ne risentivano il malessere marito, moglie, l’intera famiglia e perfino i domestici. Tutti si accorgevano che quel loro vivere uniti non aveva più senso e che fra persone incontratesi per caso in un albergo c’era più coesione che fra i membri della famiglia Oblonskij. La moglie non usciva dalle sue camere; il marito da tre giorni non stava in casa; i ragazzi correvano per tutte le stanze come anime sperse; la governante inglese aveva litigato con la guardarobiera e aveva scritto a un’amica perché le cercasse un altro posto; il cuoco se n’era andato il giorno innanzi al momento del desinare; la donna di faccende e il cocchiere s’erano licenziati.

    Il terzo giorno dopo la scena avuta con la moglie, il principe Stepan Arkad’evič Oblonskij – Stiva, come lo chiamavano in società – all’ora solita, cioè alle otto della mattina, s’era svegliato non nella camera matrimoniale ma sul divano di cuoio del suo studio. Egli rivoltò il suo corpo grasso e ben curato sulle molle del divano, come avesse voluto riaddormentarsi, abbracciò stretto il guanciale e vi premé su la gota: ma, a un tratto, si riscosse, si mise a sedere e aprì gli occhi.

    «Com’era stato?», pensava, ricordandosi di un sogno che aveva fatto. «Ah sì!», Alabin dava un pranzo a Darmstadt... ma Darmstadt era in America. Si pranzava su tavole di vetro, già, e le tavole cantavano: Il mio tesoro¹, e cantavano anche certe piccole ampolle che poi erano donne..., ora si ricordava.

    Gli occhi di Stepan Arkad’evič luccicarono allegramente e, ripensando a quel sogno, egli sorrise. «Sì, era piacevole; molto piacevole, ma certe cose non si possono esprimere a parole». E, accorgendosi di una striscia di luce che filtrava dalle tende di panno, tirò giù allegramente le gambe dal divano, cercò le pantofole, lavoro della moglie, che gliele aveva date per il suo compleanno dell’anno passato, e, per un’abitudine di nove anni oramai, stese la mano al posto dove, nella camera matrimoniale, stava la sua veste da mattina. E allora, di colpo, si ricordò come e perché dormisse nello studio invece che nella camera della moglie: il sorriso sparì dalla sua faccia, e corrugò la fronte.

    «Ahi! ahi! ahi!», gemette, rammentandosi tutto. E gli si presentarono all’immaginazione tutti i particolari della scena avuta con la moglie, tutta la gravità della sua posizione, e, più torturante d’ogni cosa, la coscienza della sua colpa.

    «Sì! Lei non perdonerà e non può perdonare. E la cosa più terribile è che la colpa è tutta mia, tutta mia, eppure non sono colpevole. In questo sta tutto il dramma. Ahi! ahi! ahi!», proruppe con disperazione, rappresentandosi le circostanze più penose di quella scena.

    Il momento più spiacevole era stato quello in cui, tornando dal teatro, allegro e contento, con in mano un’enorme pera per la moglie, non aveva trovato lei nel salotto e, con sorpresa, neppure l’aveva trovata nello studio, ma finalmente l’aveva veduta in camera che teneva fra le mani quel disgraziato biglietto, il quale rivelava tutto.

    Lei, quella Dolly, continuamente affaccendata e preoccupata e, come la credeva lui, poco perspicace, sedeva immobile, col biglietto fra le mani, e lo guardava con un’espressione disperata di terrore e di collera.

    «Che cosa è questo? questo?», aveva chiesto mostrando il biglietto.

    E a quel ricordo, la cosa che più tormentava Stepan Arkad’evič non era tanto il fatto in sé, quanto il modo col quale egli aveva risposto a quelle parole della moglie.

    Gli era accaduto in quel momento ciò che accade sempre alle persone che, all’improvviso, sono messe davanti all’evidenza di una cosa che fa loro vergogna. Egli non seppe atteggiare il suo viso alla circostanza, visto che la moglie aveva scoperto la sua colpa: invece di mostrarsi offeso, di negare, di giustificarsi, di chiedere perdono, magari di affettare indifferenza – tutto sarebbe stato meglio che quel che aveva fatto – il suo viso, proprio involontariamente (azioni riflesse del cervello, pensava Stepan Arkad’evič, che si dilettava di fisiologia) s’era atteggiato al suo sorriso abituale, buono, e perciò stupido in quel momento.

    Non se lo poteva perdonare quello stupido sorriso. Dolly, vedendo quel sorriso, aveva avuto un brivido, come per un dolore fisico, ed era scattata in parole crudeli, fuggendo via dalla stanza. Da quel momento non aveva più voluto vedere il marito.

    Quello stupido sorriso è colpa di tutto, pensò Stepan Arkad’evič.

    Ma che fare? Che fare?, diceva egli fra sé, disperandosi, e non trovava una risposta.

    1 In italiano nel testo [ndt].

    Capitolo II


    Stepan Arkad’evič era un uomo sincero con se stesso. Non poteva ingannarsi e non poteva aver rimorso di quello per cui si era sentito in colpa sei anni prima, quando aveva tradito la moglie per la prima volta. Non poteva aver rimorso se, a trentaquattro anni, col suo fisico di bell’uomo, inclinato all’amore, non era più innamorato di sua moglie, madre di cinque figli viventi e di due morti, e di un anno appena più giovane di lui. Si pentiva soltanto di non aver saputo meglio dissimulare con sua moglie. Ma sentiva tutta la gravità della sua posizione e aveva pietà di sua moglie, di se stesso e dei bambini. Forse avrebbe saputo meglio nascondere le sue colpe se avesse preveduto tutto il male che aveva fatto a sua moglie. Egli non s’era mai posto chiaramente questo quesito, ma s’immaginava in modo confuso che la moglie da un pezzo avesse indovinato tutto e non se la prendesse troppo delle sue infedeltà. Anzi gli pareva che lei, sciupata, invecchiata, non più bella, senza nessuna attrattiva particolare, semplicemente una buona madre di famiglia, dovesse, per un certo senso di giustizia, mostrarsi indulgente. E invece era accaduto proprio il contrario.

    È terribile! Ahi! ahi! ahi! È terribile!, si ripeteva Stepan Arkad’evič, e non sapeva che inventare. "E tutto andava così bene fino ad ora e si viveva tanto in pace! Lei era felice e contenta coi bambini, io non la disturbavo in nulla, in casa faceva quel che voleva. Davvero, è brutto che colei sia stata governante qui da noi. È brutto. C’è qualcosa di volgare nel far la corte alla governante di casa. Ma che governante! (Ebbe un vivo ricordo dei furbi occhi neri e del sorriso di M.lle Roland.) Però finché è stata qui non mi sono mai permesso nulla. E il peggio è che essa già... Sembra fatto apposta! Ahi! ahi! ahi! Ma che si può fare?".

    Non c’era nessuna risposta, altro che quella che la vita dà a tutte le questioni più complicate e insolubili. E la risposta è questa: bisogna vivere secondo le necessità della giornata, cioè, dimenticare. Dimenticare nel sogno non è più possibile, almeno finché venga la notte: impossibile ora tornare a quella musica che cantavano le donne-ampolle; dunque bisogna dimenticare nel sogno della vita.

    Poi vedremo, pensò Stepan Arkad’evič; e, alzandosi, infilò la veste da camera grigia, foderata di seta turchina, ne annodò i cordoni, aspirò largamente l’aria nel suo vasto petto, e con l’abituale suo passo deciso, che sopportava facilmente il suo corpo poderoso, si avvicinò alla finestra, ne sollevò la tenda, poi diede una forte scampanellata. Subito entrò il vecchio cameriere Matvej portando gli abiti, gli stivali e un telegramma. Dietro a Matvej entrò il barbiere con l’occorrente per fare la barba.

    «Ci sono carte del tribunale?», chiese Stepan Arkad’evič prendendo il telegramma e sedendosi davanti allo specchio.

    «Sono sulla tavola», rispose Matvej con uno sguardo interrogativo e pieno di simpatia al padrone, e, strizzando un po’ l’occhio, aggiunse con un sorriso furbo: «Sono venuti da parte del padrone di carrozze».

    Stepan Arkad’evič non rispose, ma, nello specchio, gettò un’occhiata a Matvej, e dallo sguardo col quale s’incontrarono nello specchio si vedeva come si capissero l’un l’altro. Lo sguardo di Stepan Arkad’evič significava: Perché mi dici questo? Non sai forse che non posso pagare?.

    Matvej mise le mani nelle tasche della giacchetta, tirò indietro un piede, e, in silenzio, bonariamente, quasi sorridendo, guardò il padrone.

    «Ho detto di venire domenica e che fino allora è inutile che s’incomodino e molestino voi», disse egli, avendo evidentemente preparato la frase.

    Stepan Arkad’evič aprì il telegramma, indovinò quali fossero veramente le parole che, come sempre, erano sbagliate, e il viso gli s’illuminò.

    «Matvej, mia sorella Anna Arkad’evna arriva domani», disse egli, fermando per un momento la mano del barbiere, grassa e lucida, che stava tracciando una linea rosea fra i peli crespi delle lunghe basette.

    «Sia lodato Dio!», disse Matvej, e quest’esclamazione faceva intendere come egli capisse, al pari del padrone, il significato di quell’arrivo, cioè che Anna Arkad’evna, la sorella diletta di Stepan Arkad’evič, avrebbe potuto metter pace fra marito e moglie.

    «Sola о col consorte?», chiese poi Matvej.

    Stepan Arkad’evič non poteva parlare perché il barbiere gli stava radendo il labbro superiore, e soltanto alzò un dito. Nello specchio vide che Matvej faceva un cenno col capo.

    «Sola. Si deve preparare di sopra?»

    «Chiedi a Dar’ja Aleksandrovna dove bisogna preparare».

    «A Dar’ja Aleksandrovna?», interrogò Matvej con aria dubbiosa.

    «Sì, a lei. Portale il telegramma, e mi dirai poi che cosa avrà ordinato».

    Matvej capì che il padrone voleva fare una prova, ma disse soltanto: «Obbedisco».

    Stepan Arkad’evič era già lavato e pettinato e si preparava a vestirsi quando Matvej, camminando lentamente con le scarpe che scricchiolavano, tornò nella stanza tenendo in mano il telegramma. Il barbiere se n’era andato.

    «Dar’ja Aleksandrovna vi fa dire che parte e che facciate come vi pare», disse il cameriere, sorridendo con gli occhi e, mettendo le mani in tasca e chinando un po’ il capo, guardò il padrone. Stepan Arkad’evič taceva. Ma poi un sorriso buono e un po’ commosso apparve sul suo bel viso.

    «Eh, Matvej?», disse, scotendo il capo.

    «Non è nulla, signore, tutto si accomoderà», disse Matvej.

    «Si accomoderà?»

    «Ma sì!»

    «Lo credi? Chi è là?», disse Stepan Arkad’evič udendo, dietro la porta, il fruscio di un vestito di seta.

    «Sono io», disse una voce di donna, ferma e simpatica, e dalla porta comparve il viso sereno e butterato di Matrëna Filimonovna, la bambinaia.

    «Che c’è, Matrëša?», chiese Stepan Arkad’evič andandole incontro sulla porta.

    Malgrado che Stepan Arkad’evič fosse in assoluta colpa verso la moglie, ed egli stesso ne conveniva, quasi tutti in casa e anche la bambinaia, la persona più devota a Dar’ja Aleksandrovna, erano dalla parte di lui.

    «Che c’è?», ripeté egli in tono triste.

    «Andateci, signore, chiedetele ancora perdono. Forse Dio vi aiuterà. Lei è molto afflitta, fa pietà, e poi in casa tutto va male. Bisognerà aver compassione dei bambini. Chiedetele ancora perdono. Che farci? Oramai...».

    «Ma non mi riceverà...».

    «Voi fate quel che vi tocca fare. Dio è misericordioso. Pregate, pregate Dio».

    «Va bene», disse Stepan Arkad’evič, arrossendo a un tratto. «Su vestiamoci». Si volse a Matvej e si sfilò risolutamente la veste da camera.

    Matvej già teneva la camicia inamidata del padrone e ne soffiava via qualche invisibile granello di polvere; poi, con evidente piacere, gliela mise addosso.

    Capitolo III


    Finito che ebbe di vestirsi, Stepan Arkad’evič si profumò, si accomodò i polsini, e con una mossa abituale si pose in tasca le sigarette, il portafogli, i fiammiferi, prese l’orologio con la sua doppia catena e i suoi ciondoli, spiegazzò il fazzoletto, e sentendosi lindo, profumato, sano e fisicamente allegro, malgrado i suoi guai, si avviò, dondolandosi un poco sulle gambe, verso la sala da pranzo dove lo aspettava il suo caffè, e lì accanto, le lettere e le carte del tribunale.

    Diede una scorsa alle lettere. Una era fastidiosa, di un mercante che comprava il taglio di un bosco di proprietà della moglie. Questo bosco si doveva necessariamente vendere, ma finché non si fosse riconciliato con la moglie non se ne poteva parlare. E più noioso d’ogni altro era il fatto che una questione di denaro si mischiasse alla riconciliazione con la moglie. E l’offendeva il pensiero che questa questione di denaro potesse parere d’influire sul suo desiderio di far pace.

    Finito di leggere le lettere, Stepan Arkad’evič attirò a sé le carte del tribunale, scartabellò rapidamente due fascicoli, fece alcuni segni con un grosso lapis, e, allontanando le carte, si mise a bere il caffè: mentre beveva il caffè, spiegò un giornale del mattino, ancora umido e cominciò a leggerlo.

    Stepan Arkad’evič riceveva e leggeva una gazzetta liberale, non estremista, ma di quella tendenza verso la quale andava la maggioranza. E malgrado che non s’interessasse né di scienza, né d’arte, né di politica, su tutti questi argomenti si atteneva alle direttive della maggioranza e del suo giornale, e cambiava opinione soltanto quando ne cambiava la maggioranza, o, per meglio dire, non cambiava opinione, ma questa insensibilmente veniva a cambiarsi in lui.

    Stepan Arkad’evič non sceglieva né le direttive né le opinioni, ma queste venivano a lui, così come egli non sceglieva la forma del cappello о dell’abito ma prendeva quella che si portava. E per lui che viveva in una certa società, avere delle opinioni era necessario come avere dei cappelli. E se preferiva le tendenze liberali a quelle conservatrici non era perché le credesse migliori ma perché si adattavano meglio al suo modo di vivere. Il partito liberale diceva che in Russia tutto andava male e difatti Stepan Arkad’evič aveva molti debiti e il denaro non gli bastava. Il partito liberale diceva che il matrimonio era un’istituzione invecchiata e che bisognava riformarlo, e difatti la vita di famiglia dava poca soddisfazione a Stepan Arkad’evič e l’obbligava a mentire e a fingere, il che era tanto contrario alla sua natura. Il partito liberale diceva, о piuttosto sottointendeva, che la religione è un freno soltanto per la popolazione incivile, e difatti Stepan Arkad’evič non poteva sopportare, e senza aver male alle gambe, anche la più breve cerimonia religiosa e non capiva a che servissero tutte quelle tremende e altisonanti parole sul mondo di là, quando si viveva così allegramente in questo. Oltre a ciò, Stepan Arkad’evič, cui piaceva lo scherzo, si divertiva a scandalizzare qualche pacifico individuo dicendo che, se ci si glorifica della nobiltà della stirpe, non bisogna fermarsi a Rjurik² e rinnegare il primo antenato: la scimmia. Così le tendenze liberali gli diventarono un’abitudine, e si era affezionato al suo giornale come al sigaro dopo pranzo, per quella nebbia leggera che gli mandava al cervello. Lesse l’articolo di fondo nel quale si spiegava come fosse vano temere che il radicalismo potesse distruggere tutti gli elementi conservatori e si dovessero quindi adottare misure per reprimere l’idra rivoluzionaria. «Invece, secondo la nostra opinione, il pericolo non è nell’idra rivoluzionaria ma nell’ostinato conservatorismo che ostacola il progresso ecc.».

    Lesse anche un articolo finanziario nel quale si citavano Bentham e Mill e si lanciava qualche frecciata al Ministero. Con la sua prontezza egli intendeva il senso di ognuna di quelle frecciate: a chi era diretta e da chi proveniva e perché, e ciò, come sempre, gli procurò un certo piacere. Ma oggi questo piacere era avvelenato dal ricordo dei consigli di Matrëna e dal pensiero che tutto andava male in casa; lesse che il conte Beist³ era partito per Wiesbaden, che non ci sarebbero più capelli bianchi, che era messa in vendita una carrozza, che una giovane offriva i suoi servigi: ma queste notizie non gli davano quella sottile, ironica soddisfazione di una volta.

    Dopo aver finito di leggere il giornale, bevuto una seconda tazza di caffè e mangiato una ciambella al burro, egli si alzò, spazzò via dal panciotto le briciole della ciambella, e, raddrizzando il suo largo petto, sorrise di piacere, non perché avesse nell’animo qualcosa di molto lieto, ma semplicemente una buona digestione gli procurava quell’allegro sorriso.

    Però quell’allegro sorriso ora gli fece tornare a mente ogni cosa, e stette pensieroso.

    Due voci infantili (Stepan Arkad’evič riconobbe la voce di Griša, il bambino più piccolo, e quella di Tanja, la maggiore) si udirono dietro la porta. Trascinavano qualcosa e l’avevano fatta cadere.

    «L’avevo detto che non bisognava mettere i passeggeri sul tetto del vagone», gridava in inglese la bambina. «Raccattali ora».

    Tutto è in disordine, pensò Stepan Arkad’evič. Ecco che i ragazzi corrono soli per casa. E, avvicinandosi alla porta, li chiamò. Essi lasciarono la scatola che figurava un treno ed entrarono dal padre.

    La fanciullina, che era la prediletta del padre, entrò correndo arditamente, lo abbracciò, e, ridendo, gli si appese al collo, come faceva sempre, contenta di aspirare il noto profumo delle sue basette, e lo baciò sul viso che arrossiva per la posizione sforzata e insieme era tutto raggiante di tenerezza. Poi essa sciolse le braccia e voleva scappar via, ma il padre la trattenne.

    «Che fa la mamma?», chiese egli passando la mano sul collo liscio e morbido della figlia. Poi rispose sorridendo al bambino che lo salutava.

    Egli aveva coscienza di voler meno bene al bambino e si sforzava sempre di essere imparziale: ma il bambino sentiva la differenza, e non sorrise al freddo sorriso del padre.

    «La mamma? Si è alzata», rispose la fanciullina. Stepan Arkad’evič sospirò.

    Non avrà dormito neppure stanotte, pensò.

    «Ma è allegra?».

    La bambina sapeva che fra il padre e la madre c’era stata una scena e che la madre non poteva essere allegra e il padre lo doveva capire, quindi fingeva facendo così leggermente quella domanda. E arrossì per il padre.

    «Non lo so», rispose. «Non ci ha dato nulla da imparare, ma ci ha detto di andare dalla nonna con miss Hull».

    «E allora va, Tančuročka mia. No, aspetta», disse egli, trattenendo la bimba e carezzandole il braccino morbido.

    Prese sul camino una scatola di confetti che ci aveva messo il giorno innanzi e gliene diede due, scegliendo quelli che essa preferiva, uno di cioccolata e uno alla vaniglia.

    «Per Griša?», disse la bambina, mostrando il confetto di cioccolata.

    «Sì, sì». E dopo averla ancora accarezzata sulla spalluccia e baciatala sui capelli e sul collo, la lasciò andare.

    «La carrozza è pronta», disse Matvej. «Ma c’è una supplicante».

    «È venuta da un pezzo?», chiese Stepan Arkad’evič.

    «Da una mezz’oretta».

    «Quante volte si ha da ripeterti che devi annunziarmi subito chi viene?»

    «Bisogna darvi il tempo di prendere il caffè», disse Matvej con quel tono fra ruvido e affettuoso contro al quale era impossibile andare in collera.

    «Su falla entrare, presto!», disse Oblonskij, aggrottando le sopracciglia.

    La supplicante, moglie di un certo capitano Kalinin, chiedeva una cosa impossibile e irragionevole, ma Stepan Arkad’evič, com’era sua abitudine, la fece sedere, l’ascoltò attentamente senza interromperla, e le diede dei consigli, indicandole a chi doveva rivolgersi, e perfino, svelto e garbato come sempre, le scrisse un biglietto, con la sua bella e nitida scrittura, per la persona che poteva aiutarla. Congedata la moglie del capitano, Stepan Arkad’evič prese il cappello e si fermò un momento per vedere se non avesse dimenticato qualcosa. Nulla aveva dimenticato se non quello che voleva dimenticare: la moglie.

    Ahimè!. Chinò il capo e il suo bel viso prese un’espressione di angoscia. Vado о non vado?, pensava. Una voce interna gli diceva di non andare perché sarebbe stata una falsità, perché era impossibile ridare alle loro relazioni la sincerità e la schiettezza, perché era impossibile rendere lei attraente e capace d’ispirare amore о far di lui un vecchio incapace d’amare. Ora da tutto ciò non poteva venire che falsità e menzogna; e la falsità e la menzogna erano contrarie alla sua natura.

    Eppure bisognerà bene una volta... Non si può rimanere così, pensava, tentando di darsi animo. Si raddrizzò, prese una sigaretta, cominciò a fumarla, poi, dopo due boccate, la gettò nel portacenere di madreperla, attraversò a rapidi passi il salotto, e aprì la porta della camera di sua moglie.

    2 Rjurik, capo dei varjaghi dal quale pretendevano discendere le principali famiglie della nobiltà russa [ndt].

    3 Conte Beist (1809-1886), cancelliere dell’Impero austroungarico, avversario di Bismarck [ndr].

    Capitolo IV


    Dar’ja Aleksandrovna, in vestaglia, con le trecce, una volta folte e belle ora fatte misere, appuntate con le forcine sulla nuca, il viso appassito e magro, su cui gli occhi parevano diventati più grandi, e avevano acquistato un’espressione di terrore, stava ritta, fra una quantità di oggetti sparsi per la stanza, ed era occupata a scegliere qualcosa in un armadio aperto. Udendo il passo del marito, si fermò, guardando verso la porta, e tentò invano di prendere un atteggiamento sereno e sprezzante. Sentiva di temere quell’incontro. Da tre giorni si era provata dieci e dieci volte a riunire le sue cose e quelle dei bambini per andarsene dalla madre, e non vi era riuscita: e ora, come tutte le altre volte, si diceva che era impossibile durarla così, che doveva decidersi a qualche passo, doveva punire, svergognare il marito, rendergli almeno una piccola parte del male che ne aveva ricevuto. Si ripeteva che doveva abbandonarlo, ma intanto sentiva che ciò le era impossibile perché non poteva cessare dal considerarlo suo marito, non poteva cessare di amarlo. Per di più capiva che se qui, in casa sua, riusciva appena appena a educare i suoi cinque figliuoli, ciò le sarebbe stato ancora più difficile altrove. In questi tre giorni il più piccino s’era ammalato per via di un brodo fatto male, e il giorno innanzi gli altri erano restati quasi senza mangiare. Si era persuasa che sarebbe impossibile andarsene, ma, ingannando se stessa, seguitava a preparare la roba da portare via e fingeva di esser sul punto di partire.

    Vedendo il marito, si mise a cercare qualcosa in un cassetto, e gli alzò gli occhi in viso quando proprio egli le era giunto vicino. Ma il viso di lui, che voleva parere sereno e deciso, esprimeva soltanto l’abbattimento e la sofferenza.

    «Dolly!», disse egli con voce timida e sommessa, rientrando la testa nelle spalle per voler parere afflitto e umile, ma il viso gli splendeva di freschezza e di salute. Lei con un rapido sguardo lo squadrò da capo a piedi, e pensò: È felice e contento, e io?... Questa sua antipatica bontà, che mi piaceva e che apprezzavo, ora la odio questa bontà. Strinse le labbra, i muscoli della gota destra le si misero a tremare nel viso pallido e convulso.

    «Che volete?», disse con voce brusca e affrettata, una voce che non era la sua.

    «Dolly!», ripeté egli con un tremito nella gola. «Anna arriva oggi».

    «Che me ne importa? Non la posso ricevere!», gridò Dar’ja Aleksandrovna.

    «Ma pure bisogna, Dolly...».

    «Andatevene, andatevene, andatevene!», urlò essa senza guardarlo; e quell’urlo parve prodotto da un dolore fisico.

    Stepan Arkad’evič aveva potuto pensare alla moglie con calma, aveva potuto sperare che tutto si sarebbe accomodato, come diceva Matvej, aveva potuto leggere tranquillamente il giornale e bere il suo caffè, ma quando vide quella faccia consunta, quell’espressione di sofferenza, quando udì quella voce in cui si sentiva la disperazione, gli si mozzò il respiro, gli si fece un nodo in gola e gli occhi gli luccicarono di lacrime.

    «Dio mio, che cosa ho fatto! Dolly! Per amor di Dio...». Non poté proseguire, i singhiozzi gli stringevano la gola.

    Lei sbatté con violenza lo sportello dell’armadio e lo guardò. Dolly, che cosa posso dire?... Soltanto questo: perdonami... Ricordati: nove anni di vita non possono riscattare un minuto, un minuto?...

    Essa aveva abbassato gli occhi e ascoltava, aspettando, supplicando quasi ch’egli dicesse qualcosa che potesse persuaderla.

    «Un minuto di smarrimento...», disse egli, e voleva continuare, ma a quelle parole di nuovo le labbra di lei si strinsero come per un dolore fisico e le tremarono i muscoli della gota destra.

    «Andatevene, andatevene!», gridò con voce ancora più acuta «e non mi parlate dei vostri smarrimenti e delle vostre porcherie».

    Voleva uscire dalla stanza, ma barcollò e dové appoggiarsi alla spalliera di una seggiola per non cadere. Gli occhi di lui s’erano empiti di lacrime.

    «Dolly!», proruppe con un singhiozzo «per amor di Dio, abbi pietà dei bambini: essi non hanno colpa... Io solo sono colpevole, puniscimi, ordinami di espiare il mio peccato. Sono pronto a tutto! Sì, sono colpevole, non ci sono parole per dire quanto sono colpevole. Ma, Dolly, perdonami».

    Essa si mise a sedere. Si sentiva il suo respiro greve, affannoso, ed egli ne ebbe una infinita pietà. Dolly più volte si provò a parlare ma non poté. Egli aspettava.

    «Ti ricordi dei bambini soltanto per giocare con loro, e io ci penso sempre e so che ora sono rovinati», disse lei, con una frase che di certo aveva ripetuto molte volte fra sé in quei tre giorni. Gli aveva dato del tu, e lui la guardò con riconoscenza, facendo un gesto per prenderle la mano, ma Dolly si allontanò con disgusto.

    «Io penso ai bambini e farei tutto al mondo per salvarli, ma non so io stessa come fare per salvarli, se portarli via о lasciarli accanto a un padre depravato, sì, depravato... Dopo quel che è successo, dite, è possibile vivere insieme? È possibile? Dite se è possibile», ripeté, alzando la voce. «Dopo che mio marito, il padre dei miei figli, ha avuto una relazione amorosa con la governante dei suoi bambini...».

    «Ma che fare? Che fare?», disse egli con voce desolata, non sapendo neppure quel che diceva e abbassando sempre più la testa.

    «Per me siete ripugnante, abietto», urlò lei, riscaldandosi via via che parlava. «Le vostre lacrime sono acqua. Non mi avete mai amata, non avete né cuore né generosità. Per me siete un essere turpe, obbrobrioso... Mi siete diventato estraneo, sì, assolutamente estraneo», e pronunziò quella parola estraneo, che per lei era tremenda, con lo strazio e la rabbia nella voce.

    Egli la guardò e l’esasperazione che le era dipinta in viso lo sorprese e lo spaventò. Non capiva che era stata quella pietà che egli le aveva dimostrato che l’aveva irritata così. Aveva veduto soltanto pietà, non amore in lui. Mi odia, non perdonerà, pensò Stepan Arkad’evič, e proruppe: «È terribile, terribile!».

    In quel momento, nella stanza accanto, si sentì piangere un bambino che di certo era caduto: Dar’ja Aleksandrovna stette in ascolto e il suo viso si raddolcì a un tratto. Per qualche secondo parve rientrare in sé, come non ricordandosi né dove era né quel che diceva, e, alzandosi in fretta, andò verso la porta.

    "Ama il mio bambino, pensò lui, che aveva notato il cambiamento del viso di Dolly al grido del bambino. Come può allora odiare me?".

    «Dolly, ancora una parola sola», disse, seguendola.

    «Se mi seguite, chiamerò gente, chiamerò i ragazzi! Voglio che tutti sappiano che siete un mascalzone! Me ne andrò e voi starete qui con la vostra amante!».

    E uscì sbattendo la porta.

    Stepan Arkad’evič sospirò, si asciugò gli occhi e a lenti passi uscì anche lui dalla stanza.

    Matvej dice che tutto si accomoderà, ma come? Non ne vedo la possibilità. Ah! che cosa terribile! E in che modo volgare gridava!, diceva egli fra sé, ricordandosi quegli urli e le parole mascalzone e amante. E forse le donne hanno sentito. Era tremendamente volgare!. Stepan Arkad’evič restò solo qualche momento, si asciugò di nuovo gli occhi, sospirò ancora, poi si raddrizzò e si avviò fuori.

    Era venerdì, e in sala da pranzo l’orologiaio tedesco stava caricando l’orologio. Stepan Arkad’evič si ricordò del suo scherzo su quell’orologiaio, un ometto tutto calvo e molto preciso: Questo tedesco è stato caricato per tutta la vita per caricare orologi, e sorrise al ricordo di quello scherzo che gli piaceva. Forse tutto si accomoderà. Che bella espressione! Bisogna servirsene.

    «Matvej!», gridò, e, quando il servo venne, gli disse: «Prepara con Mar’ja tutto per Anna Arkad’evna, là nel salotto.

    «Benissimo».

    Stepan Arkad’evič indossò la pelliccia e uscì sulle scale.

    «Pranzerete a casa?», chiese Matvej che lo accompagnava.

    «Secondo. Prendi per la spesa», e tolse un biglietto da dieci rubli dal portafogli e glielo porse. «Basterà?»

    «О basti о non basti, faremo alla meglio – disse Matvej, aprendo lo sportello della carrozza e ritirandosi sugli scalini dell’entrata.

    Intanto Dar’ja Aleksandrovna, dopo aver acquetato il bambino e capito dal rumore della carrozza che si allontanava che il marito se n’era andato, tornò nella sua camera. Era quello il suo unico rifugio contro tutte le noie domestiche che l’opprimevano appena usciva di lì. Anche ora, in quei pochi momenti che aveva passato nella camera dei bambini, l’inglese e Matrëna Filimonovna erano riuscite a porle alcune questioni che si dovevano decidere subito e che lei sola poteva decidere: come si dovevano vestire i ragazzi per la passeggiata? Si doveva dar loro il latte? Bisognava cercare un altro cuoco?

    «Ah! lasciatemi stare, lasciatemi stare!», disse, e, tornata in camera, si mise a sedere a quello stesso posto dove aveva parlato col marito, stringendo le sue dita ossute dalle quali cadevano gli anelli fatti troppo larghi, e si mise a ripassare in mente tutte le cose che avevano dette. "Se n’è andato. Ma come è finita con lei? La vede ancora? Perché non gliel’ho chiesto? No, no, è impossibile restare insieme. Staremmo nella stessa casa come due estranei. Estranei per sempre!»; e ripeté con accento particolare questa parola così terribile per lei. E come l’ho amato! Dio mio, come l’ho amato! Come l’ho amato! E ora forse non lo amo? Non lo amo più di prima? E il peggio è che...", s’interruppe, senza finire il suo pensiero, perché Matrëna Filimonovna s’era affacciata alla porta.

    «Almeno permettete che si chiami mio fratello», disse quella, «preparerà lui il pranzo. Se no, come fu ieri, i bambini resteranno fino alle sei senza mangiare».

    «Va bene: andrò a dare gli ordini. Si è fatto prendere il latte fresco?».

    E Dar’ja Aleksandrovna s’immerse nelle sue cure quotidiane e, per un certo tempo, vi annegò il suo dolore.

    Capitolo V


    Stepan Arkad’evič alla scuola imparava facilmente in grazia delle sue buone facoltà, ma era pigro e sventato e perciò ne uscì fra gli ultimi: ma, nonostante la sua vita dissipata, i suoi titoli mediocri, la sua età giovanile, occupava un posto onorifico e con un buono stipendio, era, cioè, presidente di uno dei tribunali di Mosca. Questo posto, l’aveva ottenuto per mezzo del marito di sua sorella Anna, Aleksej Aleksandrovič Karenin, che aveva uno dei più alti impieghi al Ministero dal quale dipendeva il tribunale: ma se Karenin non avesse designato il cognato per quel posto, cento altre persone, fratelli, sorelle, parenti, zii, zie, cugini di Stiva Oblonskij gli avrebbero procurato quel posto о un altro equivalente, con seimila rubli di stipendio che gli erano necessari, perché i suoi affari, malgrado la dote abbastanza vistosa della moglie, andavano male.

    Metà degli abitanti di Mosca e di Pietroburgo erano parenti о amici di Stepan Arkad’evič. Era nato in mezzo alla gente che conta in questo mondo. Un terzo di coloro che occupavano i posti più importanti erano stati amici di suo padre e lo conoscevano da quand’era in fasce: un altro terzo gli dava del tu, e un altro lo conosceva intimamente; quindi tutti coloro che disponevano dei beni della terra in forma d’impieghi, concessioni, prebende ecc., erano affezionati a lui e non potevano negargli nulla, sicché non gli ci vollero molti sforzi per ottenere un buon posto; bisognava soltanto non rifiutare le offerte, non essere invidioso, non litigare con nessuno, non essere puntiglioso, il che gli era facile data la sua naturale bontà. Gli sarebbe parso buffo che gli rifiutassero il posto e lo stipendio che gli erano necessari, tanto più che non pretendeva niente di straordinario ma soltanto ciò che ottenevano i suoi coetanei, ed egli era capace di disimpegnarsi né più né meno di un altro.

    Stepan Arkad’evič era amato da tutti coloro che lo conoscevano non soltanto per il suo buon carattere allegro e la sua indubbia rettitudine, ma in lui, nel suo bell’aspetto franco, nei suoi occhi splendenti, nelle sue sopracciglia nere come i suoi capelli, nelle sue gote bianche e rosse, c’era qualcosa che ispirava subito simpatia e amicizia alle persone che lo avvicinavano. «Ah! Stiva! Oblonskij! Eccolo!». E la gente gli andava incontro sempre con un sorriso di piacere. E se pure non accadeva, dopo quell’incontro, niente di particolarmente gradevole, lo si vedeva il giorno dopo e l’altro giorno sempre con lo stesso piacere.

    Occupando già da tre anni il suo posto di presidente di uno dei tribunali di Mosca, Stepan Arkad’evič godeva non soltanto dell’affetto e della stima dei colleghi, dei subordinati e dei superiori, ma anche di tutti coloro che avevano rapporti con lui. Le principali qualità che gli conciliavano quest’affetto e questa stima erano: prima, una straordinaria indulgenza verso la gente, basata sulla coscienza delle proprie manchevolezze; seconda, un assoluto liberalismo, non quello che leggeva sul giornale, ma quello che aveva nel sangue e che gli faceva trattare tutti egualmente, di qualunque condizione fossero; terza, ed essenziale, una perfetta indifferenza per gli affari che trattava, il che faceva sì che... non si appassionava mai e quindi non commetteva errori.

    Giunto al suo ufficio, Stepan Arkad’evič, accompagnato rispettosamente da un usciere che gli portava la cartella, entrò nel suo piccolo gabinetto, rivestì l’uniforme e si recò nell’aula del tribunale. Tutti gli scrivani e gl’impiegati si alzarono, salutandolo con allegro ossequio; Stepan Arkad’evič, frettolosamente, come sempre, andò al suo posto, strinse la mano agli altri membri del tribunale e sedette. Dopo aver discorso e scherzato in giusta misura coi colleghi, aprì la seduta. Nessuno meglio di lui sapeva trovare il limite fra il tono ufficiale e quello cordiale e confidenziale, sicché gli affari si spedivano in modo piacevole. Il segretario si avvicinò con le carte e, come tutti gli addetti al tribunale di Stepan Arkad’evič, aveva quel modo di fare confidenziale e rispettoso a un tempo che egli aveva saputo introdurre fra i suoi dipendenti.

    «Siamo riusciti ad avere le informazioni dal governatorato di Penza...».

    «Ah! Finalmente», disse Stepan Arkad’evič, e pose un dito fra le carte. «Dunque, signori...», e la seduta cominciò.

    Se sapessero, pensava egli e chinava il capo con aria d’importanza nell’ascoltare il rapporto, come il loro presidente, mezz’ora fa, aveva tutto l’aspetto di un ragazzo preso in fallo!. E i suoi occhi sorridevano, mentre continuava la lettura del rapporto. La seduta doveva durare fino alle due, e poi ci sarebbe stata un’interruzione e la colazione.

    Non erano ancora le due quando la grande porta vetrata dell’aula si aprì improvvisamente ed entrò qualcuno. Tutti i membri del tribunale, seduti sotto il ritratto dell’imperatore e l’emblema di giustizia⁴, contenti di una qualsiasi diversione, guardarono verso la porta: ma l’usciere, che stava alla porta, subito fece uscire l’intruso e richiuse i battenti.

    Quando fu finita la lettura del rapporto, Stepan Arkad’evič si alzò, si stirò, e, con una concessione al liberalismo del tempo, prese una sigaretta e andò nel suo ufficio. Due suoi colleghi, un vecchio funzionario, Nikitin, e un gentiluomo di camera, Grinevič, andarono con lui.

    «Dopo colazione potremo finire», disse Oblonskij.

    «Di certo finiremo», disse Nikitin.

    «Ma quel Fomin doveva essere una gran canaglia», disse Grinevič, alludendo a una delle figure del processo che avevano esaminato.

    Stepan Arkad’evič aggrottò le sopracciglia alle parole di Grinevič per fargli intendere che non era conveniente anticipare un giudizio sul processo, e non rispose. Poi chiese all’usciere:

    «Chi era entrato?»

    «Un tale, eccellenza, che, senza chieder permesso, ha fatto irruzione nella sala, mentre io ero voltato dall’altra parte. Domandava di voi. Gli ho detto: Quando usciranno i signori del tribunale...».

    «E dov’è?»

    «Sarà nel vestibolo. Ah! Eccolo», disse l’usciere, indicando un uomo dalla complessione robusta e dalle larghe spalle, con una barba ricciuta, che, senza togliersi il berretto di montone, con andatura rapida e leggera saliva su per i gradini consumati della scala di pietra. Un impiegato che scendeva col portafogli sotto al braccio, un individuo magro magro, guardò poco benevolmente i piedi di colui che saliva di corsa, e poi diede un’occhiata interrogativa a Oblonskij.

    Stepan Arkad’evič stava ritto in cima alla scala. Il suo viso bonario ebbe un lampo allegro sotto al bavero dell’uniforme quando ebbe riconosciuta la persona che gli veniva su incontro.

    «Ah! È lui. Levin, finalmente!», disse con un sorriso amichevolmente canzonatorio, guardando verso Levin che si avvicinava. «Come non ti disgusta di venirmi a cercare in questa bolgia?». E, non bastandogli una stretta di mano, abbracciò l’amico. «Sei qui da un pezzo?»

    «Sono arrivato ora e desideravo vederti», rispose Levin, e volse intorno un’occhiata fra timida, irritata e inquieta.

    «Su, andiamo nel mio gabinetto», disse Stepan Arkad’evič che conosceva il carattere ombroso e l’eccessivo amor proprio dell’amico, e, presolo per mano, lo introdusse nel suo gabinetto, come se lo avesse condotto in un luogo pieno di pericoli.

    Stepan Arkad’evič si dava del tu con quasi tutti i suoi conoscenti, con vecchi di sessant’anni, con ragazzi di venti, con attori, con ministri, con mercanti, con generali, sicché molti di quelli a cui dava del tu si trovavano ai due estremi della scala sociale e sarebbero stati molto sorpresi sapendo che, grazie a Oblonskij, avevano qualcosa in comune. Egli dava del tu a coloro coi quali beveva lo champagne e ne beveva con tutti, e perciò, quando davanti ai suoi dipendenti s’incontrava con quei tu vergognosi, come diceva scherzando di alcuni fra i suoi amici, con quel tatto suo proprio, faceva in modo di attenuare una impressione che poteva essere spiacevole per i suoi subordinati. Levin non era uno di quei tu vergognosi, ma Oblonskij sentiva, con la sua perspicacia, che Levin poteva non voler mettere in mostra la loro intimità, e quindi si affrettò a introdurlo nel suo gabinetto.

    Levin era quasi della stessa età di Oblonskij e perciò si davano del tu anche senza lo champagne. Levin era stato suo compagno di scuola e amico fin dall’infanzia. Si volevano molto bene, malgrado la diversità dei caratteri e dei gusti, come si vogliono bene quelli che sono stati amici fin dalla prima età, benché, come spesso accade fra persone che hanno differenti generi di attività, ognuno di loro, quantunque comprendesse e stimasse l’attività dell’altro, dentro di sé la disprezzasse un poco. Ognuno di loro pensava che la vita che egli menava era la vera vita e quella che menava l’amico era soltanto una rappresentazione. Oblonskij non poté reprimere un sorrisetto canzonatorio alla vista di Levin. Già parecchie volte lo aveva veduto arrivare a Mosca dalla campagna dove aveva le sue occupazioni (egli non sapeva bene quali fossero e del resto non se ne interessava) tutto affaccendato, frettoloso, un po’ intimidito e irritato di quella sua timidezza, e con delle vedute nuove e inaspettate su tutte le cose. Stepan Arkad’evič se ne burlava e se ne divertiva. Levin, nello stesso modo, disprezzava il tenore di vita cittadino del suo amico, e teneva il suo impiego per una futilità della quale rideva. Ma la differenza stava in ciò, che Oblonskij, facendo quello che fanno tutti, si sentiva sicuro di sé e pieno d’indulgenza, mentre Levin non si sentiva sicuro e a volte s’irritava.

    «Ti aspettavamo da un pezzo», disse Stepan Arkad’evič entrando nel suo gabinetto e lasciando la mano di Levin, come per mostrar gli che ogni pericolo era cessato. «Sono molto, molto contento di vederti. Dunque, che c’è? Quando sei arrivato?».

    Levin taceva, guardando i due colleghi di Oblonskij che non conosceva, e specialmente fissava la mano dell’elegante Grinevič, con quelle lunghe dita bianche e le lunghe unghie gialle, ripiegate all’estremità, e gli enormi gemelli luccicanti dei polsini: quelle mani attiravano tutta la sua attenzione e non gli lasciavano libertà di spirito. Oblonskij se ne accorse subito e sorrise.

    «Ah! Lasciatemi far fare la conoscenza», disse. I miei colleghi: Filipp Ivanovič Nikitin, Michail Stanislavić Grinevič – e, mostrando Levin – un consigliere di zemstvo⁵ un titolo nuovo che hanno inventato, uno sportivo che solleva cinque pudy⁶ con una sola mano, allevatore di bestiame, cacciatore, il mio amico Konstantin Dmitrič Levin, fratellastro di Sergej Ivanovič Koznyšev.

    «Felicissimo», disse il vecchio.

    «Ho l’onore di conoscere vostro fratello», disse Grinevič, porgendo a Levin la sua mano sottile dalle unghie lunghe.

    Levin fece una smorfia, strinse freddamente quella mano e subito si rivolse a Oblonskij. Benché avesse molta stima del suo fratellastro, scrittore conosciuto in tutta la Russia, non poteva sopportare d’essere presentato come il fratello del celebre Koznyšev e non come Konstantin Levin.

    «No, non sono più consigliere di zemstvo. Ho fatto baruffa con tutti e non vado più alle assemblee», disse, dirigendosi a Oblonskij.

    «Così presto?», disse Oblonskij con un sorriso. «Ma come? Perché?»

    «È una storia lunga. Te la racconterò una volta о l’altra», disse Levin, ma subito cominciò a raccontare. «Via, per dirla in breve, mi sono persuaso che non c’è e non ci può essere questa attività dello zemstvo». E nel dirlo pareva che in quel momento avesse ricevuto un insulto. «Da un lato è un giocherello, un parlamento per finta, e io non sono né abbastanza giovane né abbastanza vecchio per divertirmi coi giocattoli; dall’altro lato», qui esitò un poco «è un mezzo di far denaro per la coterie⁷ del distretto. Una volta c’erano le tutele, i giudizi, e ora c’è lo zemstvo: non che ci sia corruzione, ma si ottengono stipendi senza meritarli». E qui s’infervorò tanto che pareva che qualcheduno lo stesse contraddicendo.

    «Eh! Vedo che sei da capo in una nuova fase, quella del conservatorismo», disse Stepan Arkad’evič. «Del resto, ne discorreremo».

    «Sì, poi. Ora avevo necessità di vederti», disse Levin con uno sguardo ostile verso la mano di Grinevič.

    Stepan Arkad’evič ebbe un risolino impercettibile.

    «Eppure avevi detto che non ti saresti mai più vestito all’europea», disse, dando un’occhiata al vestito nuovo nuovo di Levin, fatto evidentemente da un sarto francese. «Già, si vede. La nuova fase».

    Levin arrossì a un tratto, ma non come arrossiscono le persone adulte, appena appena, quasi impercettibilmente, ma come arrossiscono i bambini quando capiscono che si ride della loro timidezza, e allora s’intimidiscono e arrossiscono ancora di più, quasi fino alle lacrime. Ed era così penoso vedere quel viso intelligente, virile, ridotto in quello stato di bambino, che Oblonskij smise di guardarlo.

    «Dunque, dove ci vedremo? Ho proprio gran bisogno di parlarti», disse Levin.

    Oblonskij rifletté alquanto.

    «Ecco, andiamo da Gurin a far colazione e là discorreremo».

    «No», rispose Levin, dopo aver pensato un momento, «ho ancora delle commissioni da sbrigare».

    «E allora, pranziamo insieme».

    «Pranzare? Ma io, in fondo, debbo dirti soltanto due parole. Discorreremo un’altra volta».

    «E allora, dimmi subito queste due parole e chiacchiereremo poi a tavola».

    «Ecco qui...», disse Levin «del resto, non c’è nulla di particolare». E gli si dipinse in viso quell’espressione irritata che proveniva dallo sforzo di sormontare la sua timidezza. «Che fanno gli Ščerbackij? Nulla di nuovo?».

    Stepan Arkad’evič, che sapeva da un pezzo che Levin era innamorato di sua cognata Kitty, sorrise appena appena, e gli occhi gli s’illuminarono allegramente.

    «Tu hai detto in due parole quel che volevi, ma io non ti posso rispondere in due parole perché... Permetti un minuto».

    Entrò il segretario, e con quella rispettosa familiarità e quella coscienza della propria superiorità negli affari di fronte al capo che hanno tutti i segretari, si avvicinò con le sue carte a Oblonskij e cominciò, con la scusa di chiedere un chiarimento, a esporgli certe difficoltà; ma Stepan Arkad’evič, interrompendolo, gli pose amichevolmente una mano sul braccio.

    «No, fate come vi avevo detto». Con un sorriso raddolcì l’osservazione e si mise a spiegargli cortesemente come intendeva la cosa, restituendogli le carte. «Fate così, vi prego, Zachar Nikitič».

    Il segretario si allontanò un po’ confuso. Levin, durante quel dialogo, s’era rimesso del suo turbamento e stava in piedi, con le due mani puntate sulla spalliera di una sedia, e in viso aveva una espressione di attenzione ironica.

    «Non capisco, non capisco», disse.

    «Che cosa non capisci?», chiese Oblonskij, sorridendo allegramente e tirando fuori una sigaretta. Si aspettava da Levin qualche stranezza delle sue.

    «Non capisco quel che fate», disse Levin, stringendosi nelle spalle. «Come puoi far questo sul serio?»

    «Perché?»

    «Perché... non significa nulla».

    «Tu pensi così, ma noi lavoriamo per davvero».

    «Lavoro di carta. Ma tu hai il dono di saper fare queste cose».

    «Vuol dire che mi credi incapace di un lavoro serio».

    «Forse», disse Levin. «Però mi piace vedere la tua aria d’importanza e sono orgoglioso di avere per amico un uomo così grande. Ma tu non hai risposto alla mia domanda», aggiunse, facendo uno sforzo disperato per guardare Oblonskij negli occhi.

    «Bene, bene. Aspetta un poco e ci verrai anche tu. Con le tue tremila desjatiny⁸ nel distretto di Karazinsk, dei muscoli come i tuoi, e la freschezza di una ragazzina di dodici anni, pure finirai per venire a questo. In quanto a quello che volevi sapere, nulla di nuovo, ma mi rincresce che tu sia stato tanto senza venire.

    «Perché?», chiese Levin spaventato.

    «Per nulla. Ne riparleremo. Ma, insomma, perché sei venuto?»

    «Anche di questo parleremo poi», disse Levin, arrossendo di nuovo fino agli orecchi.

    «Va bene. È inteso», disse Stepan Arkad’evič. «Vedi, ti avrei invitato a casa mia, ma mia moglie è sofferente. Se vuoi vedere quelle signore le troverai al Giardino zoologico dalle quattro alle cinque. Kitty pattina. Vacci, ci verrò anch’io e andremo a desinare in qualche luogo».

    «Benissimo. Allora, arrivederci».

    «Bada, neh! Ti conosco: sei capace di dimenticarlo, oppure di ripartire all’improvviso per la campagna», disse ridendo Oblonskij.

    «No. Non manco».

    E, ricordandosi, quando era già sulla porta, di non aver salutato i colleghi di Oblonskij, Levin tirò via senz’altro.

    «Dev’essere un signore molto energico», disse Grinevič, quando Levin fu uscito.

    «Sì, caro mio», disse Stepan Arkad’evič, scotendo il capo, «è un essere fortunato! Tremila desjatiny nel distretto di Karazinsk, tutto l’avvenire davanti a sé e una freschezza!... Non come noi, fratello!

    «Non vi potete mica lamentare, Stepan Arkad’evič».

    «Si va male, si va male», disse Oblonskij, e sospirò profondamente.

    4 Prisma trigonale con l’aquila bicipite in uso in Russia prima del 1917 [ndr].

    5 Lo zemstvo era un organo di autogoverno locale, distrettuale о provinciale, introdotto dalla riforma del 1864 [ndr].

    6 Un pud equivale a 16,38 kg [ndt].

    7 Cricca, espressione francese [ndt].

    8 Una desjatina equivale a 10.920 mq [ndt].

    Capitolo VI


    Quando Oblonskij aveva domandato a Levin perché fosse venuto, Levin aveva arrossito e poi aveva provato dispetto del suo rossore, perché non poteva rispondere: «Sono venuto per chiedere la mano di tua cognata», ed era venuto proprio per questo.

    Le famiglie Ščerbackij e Levin erano antiche famiglie della nobiltà moscovita ed erano state sempre in amichevoli relazioni fra loro. Questi rapporti s’erano fatti più stretti nel tempo che Levin era studente. S’era preparato per l’università insieme col giovane principe Ščerbackij, fratello di Dolly e di Kitty, e insieme v’erano entrati. In quel periodo Levin andava spesso in casa Ščerbackij e s’era innamorato della casa Ščerbackij. Per quanto ciò possa parere strano, Konstantin Levin era innamorato di tutta la famiglia e specialmente della parte femminile. Egli non si ricordava di sua madre e la sua unica sorella era molto più anziana di lui, sicché aveva veduto per la prima volta in casa Ščerbackij quell’ambiente della vecchia nobiltà, ambiente familiare, colto e onesto di cui l’aveva privato la morte del padre e della madre. Tutti i membri di quella famiglia, specialmente la parte femminile, gli apparivano avvolti in un velo di mistero e di poesia; e non soltanto non scopriva in essi nessun difetto, ma sotto quel velo immaginava tutte le possibili perfezioni e le più alte idealità. Perché quelle tre signorine dovessero parlare un giorno in francese e un giorno in inglese; perché, a una data ora, dovessero a turno sonare il pianoforte, il cui suono giungeva al piano di sopra, dove i due compagni stavano a studiare; perché venissero quei professori di letteratura francese, di musica, di disegno, di ballo; perché, a una data ora, le tre signorine con mademoiselle Linon andassero a passeggiare in carrozza sul boulevard Tverskòj, con i loro mantelli di raso foderati di pelliccia: Dolly ne aveva uno lungo, Natal’ja uno più corto, Kitty uno ancora più corto, sicché si vedevano le sue gambette nelle calze rosse ben tirate; perché un servitore, con la coccarda dorata al cappello, dovesse seguirle alla passeggiata; tutte queste cose egli non le capiva, come non ne capiva molte altre che accadevano nel loro mondo misterioso, ma sapeva che là tutto era perfetto ed era appunto innamorato di quella misteriosa perfezione.

    Nel tempo che era studente, per poco non s’innamorò della maggiore, Dolly, ma quella subito sposò Oblonskij. Poi cominciò a innamorarsi della seconda. Gli pareva di dover per forza innamorarsi di una delle sorelle, ma non sapeva di quale precisamente. Natal’ja, appena presentata in società, sposò un diplomatico, L’vov. Kitty era ancora una bambina quando Levin lasciò l’università. Il giovane Ščerbackij, entrato in marina, naufragò nel mar Baltico, e le relazioni di Levin con gli Ščerbackij, malgrado la sua amicizia con Oblonskij, si rallentarono. Ma quando quell’anno, al principio dell’inverno, Levin era venuto a Mosca, dopo aver passato un anno intero in campagna, e aveva riveduto gli Ščerbackij, aveva capito che, delle tre, quella di cui era destinato a innamorarsi davvero era Kitty. Sarebbe parso che nessuno meglio di lui, di buona famiglia, più ricco che povero, a trentadue anni, avrebbe potuto chiedere la mano della principessina Ščerbackaja: era verosimile che fosse tenuto per un buon partito. Ma Levin era innamorato, e perciò gli pareva che Kitty fosse una tale perfezione per ogni riguardo, una creatura tanto più alta di ogni altra sulla terra, e lui un essere così inferiore, così nullo che non poteva ammettere il pensiero che ella stessa e gli altri lo credessero degno di lei.

    Dopo aver passato due mesi a Mosca come in un sogno, vedendo quasi ogni giorno Kitty in società, dove egli aveva cominciato ad andare per incontrarsi con lei, a un tratto decise che la cosa non poteva essere e partì per la campagna.

    La convinzione di Levin che la cosa non potesse farsi era basata sull’idea che i genitori di lei dovessero trovarlo un partito non conveniente, non degno della deliziosa Kitty e che Kitty stessa non potesse amarlo. Agli occhi dei genitori egli non aveva una carriera definita, né una posizione mondana, mentre i suoi compagni, i suoi coetanei, erano chi colonnello e aiutante di campo dell’imperatore, chi professore d’università, chi direttore di banca, chi aveva un alto posto nelle ferrovie, chi era presidente di tribunale, come Oblonskij: e lui invece doveva apparire agli altri, lo sapeva bene, un semplice proprietario che si occupava dell’allevamento delle vacche, della caccia alle beccacce, di costruzioni, cioè un giovanotto senza qualità personali, incapace a tutto, e che faceva quello che fanno coloro che non hanno saputo trovare una via.

    La deliziosa Kitty, nel suo nimbo di mistero, non poteva amare un uomo brutto come lui si credeva di essere, e specialmente un individuo qualunque, buono a nulla. Oltre a ciò i suoi antichi rapporti con Kitty, rapporti di un giovanotto con una bambina, al tempo in cui era vivo il fratello – gli sembravano un ostacolo all’amore. A un brav’uomo, brutto come lui, si poteva voler bene come a un amico, ma per innamorarsene come lui era innamorato di Kitty ci sarebbe voluto un bell’uomo e specialmente una personalità.

    Aveva sentito dire che spesso le donne amano degli uomini brutti, mediocri, ma non ci credeva, perché giudicava da se stesso e sapeva che non avrebbe potuto amare se non una donna bella, poetica, eccezionale.

    Ma dopo aver passato due mesi in campagna, solo, si persuase che la sua non era una di quelle passioni che aveva provato nella prima gioventù, che questo sentimento non gli dava un minuto di pace e che non poteva vivere se non risolveva questa questione: sarebbe lei sua moglie о no? Si diceva che la sua disperazione proveniva soltanto dalla sua immaginazione e che, in fondo, niente gli provava che sarebbe rifiutato. E partì per Mosca fermamente deciso a chiedere la mano di Kitty e, se era accettato, sposarla. Oppure... ma non poteva pensare a quel che avrebbe fatto se fosse stato rifiutato.

    Capitolo VII


    Giunto a Mosca col primo treno della mattina, Levin si fermò presso il suo fratellastro Koznyšev, e, mutatosi di abiti, andò nello studio di lui con l’intenzione di dirgli perché era venuto a Mosca e chiedergli un consiglio: ma il fratello non era solo. C’era da lui un noto professore di filosofia ch’era venuto da Char’kov proprio per chiarire un equivoco sorto fra loro a proposito di una questione scientifica. Il professore menava una calda campagna contro il materialismo, e Sergej Koznyšev seguiva con interesse questa polemica, e, avendo letto l’ultimo articolo del professore, gli aveva scritto alcune sue osservazioni, rimproverandogli di aver concesso troppo al materialismo, e perciò il professore era venuto per discutere la cosa. Stavano giusto discorrendo sulla questione allora di moda: se c’è un limite, e quale sia, fra i fenomeni psichici e quelli fisici nell’attività umana.

    Sergej Ivanovič andò incontro al fratello col sorriso freddo e cortese che aveva per tutti, e, presentandolo al professore, proseguì il discorso.

    Il professore, un ometto con gli occhiali, dalla fronte stretta, interruppe per un momento la conversazione per salutare Levin, e poi, senza più badargli, riprese il filo del discorso. Levin si mise a sedere aspettando che il professore se ne andasse, ma ben presto prese interesse al soggetto della discussione.

    Levin aveva letto sui giornali gli articoli dei quali si parlava e vi si era interessato, avendo seguito fin dall’università lo sviluppo delle scienze naturali, ma non aveva mai pensato all’influenza che questioni come quella dell’origine dell’uomo, quella delle azioni riflesse, о la biologia e la sociologia potevano avere sui problemi della vita e della morte che tanto lo preoccupavano in quegli ultimi tempi.

    Ascoltando la conversazione del fratello col professore, notò che essi collegavano le questioni scientifiche con quelle che riguardavano l’anima, e a momenti pareva che toccassero il punto essenziale, cioè quello che a lui pareva tale, ma subito se ne allontanavano e s’immergevano nel campo delle distinzioni sottili, delle riserve, delle allusioni, delle citazioni, dei richiami alle autorità, e allora gli riusciva a stento di capire il senso del loro discorso.

    «Io non posso ammettere», disse Sergej Ivanovič, con la sua consueta chiarezza di esposizione ed eleganza di dizione, «non posso in nessun caso accettare la teoria di Keis, che, cioè, tutta la nostra concezione del mondo esteriore derivi unicamente dalle nostre impressioni. Il concetto dell’essere non ci viene dai sensi, giacché non abbiamo un organo speciale che ci trasmetta questo concetto.

    «Sì, ma loro, Wurst, Knaust, Pripasov, vi rispondono che questo concetto dell’essere deriva dall’insieme di tutte le sensazioni, che questo concetto è il risultato delle sensazioni. Wurst anzi dice espressamente che dove manca la sensazione manca la coscienza di esistere.

    «Io dirò il contrario», cominciò Sergej Ivanovič.

    Ma qui di nuovo parve a Levin che essi, sul punto di toccare la questione principale, se ne allontanassero, e decise di porre una domanda al professore.

    «Dunque, se i miei sensi sono aboliti, se il mio corpo muore, non può sopravvivere nulla?».

    Il professore, con dispetto e come ferito da quella interruzione, guardò quello strano interrogatore che pareva più un contadino che un filosofo, e volse gli occhi a Sergej Ivanovič come per chiedergli: «Che si ha da dire?». Ma Sergej Ivanovič, che aveva maggiore duttilità e comprensione del professore, e che poteva nello stesso tempo trovare argomenti per rispondere al professore e capire il punto di vista, semplice e naturale, da cui proveniva quell’interrogazione, sorrise e disse:

    «A questa domanda non abbiamo ancora il diritto di rispondere...».

    «Non abbiamo dati per rispondere», confermò il professore, e continuò il suo ragionamento. «No, io dimostrerò che, se, come dice Pripasov, la sensazione si basa sull’impressione, dobbiamo però distinguere questi due concetti».

    Levin non stette più ad ascoltare, e aspettò che il professore se ne andasse.

    Capitolo VIII


    Quando il professore se ne fu andato, Sergej Ivanovič si rivolse al fratello:

    «Mi fa molto piacere che tu sia venuto. Resterai un pezzo? E le cose in campagna come vanno?».

    Levin sapeva che le cose di campagna interessavano poco il suo fratello maggiore e che gliene chiedeva unicamente per una specie di concessione, perciò gli disse soltanto della vendita del frumento e del prezzo che ne aveva ricavato.

    Levin voleva parlare al fratello della sua intenzione di prender moglie e domandargli qualche consiglio, e anzi era fermamente deciso a farlo: ma quando ebbe veduto il fratello, ebbe ascoltato la sua conversazione col professore, e notato il tono involontario di protezione col quale il fratello gli aveva chiesto delle cose di campagna (la proprietà materna era indivisa e Levin si occupava di tutto), sentì che oramai era impossibile parlare col fratello della sua intenzione di sposarsi. Capiva che non avrebbe preso la cosa nel modo che voleva lui.

    «E dunque, come va il vostro zemstvo?», chiese Sergej Ivanovič, che s’interessava molto dello zemstvo e vi attribuiva grande importanza.

    «Davvero non lo so».

    «Come? Non sei membro del consiglio?»

    «No, non lo sono più: ho dato le mie dimissioni, e non vado più alle assemblee».

    «Peccato!», esclamò Sergej Ivanovič corrugando le sopracciglia. Levin, per scusarsi, raccontò quel che si faceva in quelle assemblee.

    «È stato sempre così», interruppe Sergej Ivanovič. «Noi russi siamo sempre così. Forse questa è una qualità del nostro carattere, la capacità di vedere i nostri difetti; ma esageriamo, ci conosciamo con l’ironia che abbiamo sempre pronta sulla lingua. Ti dirò soltanto che se un altro popolo europeo avesse avuto questa istituzione, l’inglese, per esempio, о il tedesco, ne avrebbe tirata fuori la libertà, e noi invece ne ridiamo.

    «Ma che farci?», disse Levin, che si sentiva un po’ colpevole. «È stato il mio ultimo tentativo. Mi ci son messo con tutta l’anima. Non posso, non ci sono adatto».

    «No, non è questo, ma non guardi la cosa da un punto di vista giusto».

    «Forse», rispose Levin con una certa tristezza. «Ah! sai? Nostro fratello Nikolaj è di nuovo qui».

    Nikolaj, fratello consanguineo e maggiore di Konstantin Levin e fratellastro di Sergej Ivanovič, era un uomo rovinato, che aveva dissipato quasi tutto il suo e viveva in un ambiente strano e abietto ed era sempre in lite coi fratelli.

    «Che dici?», chiese spaventato. «Come lo sai?»

    «Prokofij l’ha veduto per strada».

    «Qui, a Mosca? E dove abita? Lo sai?».

    Levin si alzò, come per correre subito dal fratello.

    «Mi rincresce di avertelo detto», e Sergej Ivanovič scosse il capo, vedendo l’agitazione di lui. «Mi sono informato dove abita e gli ho mandato la cambiale di Trubin che ho pagata. Ecco quel che m’ha risposto».

    Sergej Ivanovič prese un biglietto di sotto a un fermacarte e lo porse al fratello. Levin lesse quel biglietto di una scrittura strana a lui nota: «Prego umilmente che mi si lasci in pace: è tutto ciò che chiedo ai miei cari fratelli. Nikolaj Levin».

    Levin, dopo aver letto, rimase in piedi davanti a Sergej Ivanovič, senza togliere gli occhi dal biglietto. Dentro di lui erano in lotta il desiderio di dimenticare quel disgraziato fratello e il sentimento che fosse male farlo.

    «Si vede chiaro che vuole offendermi», seguitò Sergej Ivanovič, «ma non mi può offendere e desidererei con tutta l’anima di aiutarlo, ma so che è impossibile».

    «Già, già», assentì Levin. «Io capisco e apprezzo il tuo modo di agire verso di lui, ma in ogni modo ci andrò».

    «Se vuoi, vacci, ma non te lo consiglio», disse Sergej Ivanovič. «Per quel che mi riguarda non lo temo: so che non potrà mettere male fra noi: ma per te, ti consiglio di non andarci. È impossibile aiutarlo. Del resto, fa come vuoi».

    «Forse sarà impossibile aiutarlo, ma specialmente in questo momento, sento che non potrei essere tranquillo...».

    «Non ti capisco. Una cosa sola capisco, la lezione di umiltà che ci viene da lui. Io ora guardo diversamente, con più indulgenza quello che si chiama bassezza dacché nostro fratello Nikolaj è diventato quello che è... Tu sai che cosa ha fatto».

    «Ah! è terribile, terribile!...», ripeté Levin.

    Fattosi dare

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