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L'architettura del continuo
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E-book360 pagine5 ore

L'architettura del continuo

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Lars Spuybroek ridisegna le nozioni di percezione, corpo e spazio «Non è forse vero che noi architetti siamo addestrati a pianificare i movimenti per poi estruderli in un secondo momento per creare un’immagine? Non siamo forse addestrati a disegnare prima le piante, la superficie dell’azione, per poi estruderle per dar vita agli alzati, le superfici della percezione? Non siamo forse addestrati a considerare pavimenti e pareti come discontinui? Inoltre, non siamo abituati a trattare pareti, pavimenti e colonne come elementi tra loro distinti e separati? Potremmo considerare uno schema architettonico, parallelo allo schema del corpo, come qualcosa di fondamentalmente elastico, topologico e continuo?». Sono queste alcune delle domande attorno cui il leader dei NOX, Lars Spuybroek, costruisce il suo testo. Noto sin dagli anni ’90 per i suoi progetti particolarmente controversi, Lars Spuybroek ridisegna le nozioni di percezione, corpo e spazio, ripensandole all’interno delle nuove possibilità di interattività che l’architettura può oggi raggiungere. Un’architettura che viene disegnata su basi parametriche, ma non formalistiche – come troppo spesso viene frainteso -, riconciliando così, in modo sorprendente, l’architettura digitale con il gotico. In un periodo in cui l’architettura vive una profonda stagnazione teorica, “L’architettura del continuo” segna il tentativo di superare ogni forma di dualismo tra mero formalismo e freddo high-tech, senza cercare facili strade conciliatorie. L'AUTORE: Professore presso la Georgia Institue of Technology, Lars Spuybroek è uno dei pionieri dell’architettura digitale e dell’approccio parametrico. Evitando il semplice formalismo, la sua ricerca è indirizzata verso il rapporto tra esperienza ed architettura. Noto soprattutto per il suo approccio fortemente sperimentale, irrompe nella scena internazionale nel 1997 con il suo H2O expo Pavillon, l’edificio che, secondo Charles Jenk, «ancora deve essere superato».
LinguaItaliano
EditoreD Editore
Data di uscita7 dic 2015
ISBN9788888943800
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    Anteprima del libro

    L'architettura del continuo - Lars Spuybroek

    Ringraziamenti

    Profilo di Lars Spuybroek

    di Ludovica Tramontin

    Lars Spuybroek nasce a Rotterdam, il 16 Settembre del 1959, in Olanda. Dopo essersi laureato con lode alla Technical University di Delft in Architettura nel 1989, ha iniziato a lavorare più nel campo dell’arte che in quello dell’architettura. Ha curato l’edizione di una delle prime riviste in forma di libro, NOX, da cui deriva il nome dello studio di Rotterdam di cui Spuybroek è il fondatore.

    Il suo interesse per l’arte contemporanea, che forse deriva dalla provenienza da una famiglia di artisti, ha portato, nella fase iniziale della sua carriera, a progetti video e di arte elettronica interattiva e alla intensa attività di ricerca di interrelazione fra architettura e nuovi mezzi di comunicazione, e, più tardi, a progetti che coniugassero queste linee di ricerca con l'esplorazione di geometrie complesse di derivazione digitale.

    I progetti di NOX hanno vinto numerosi premi e concorsi e sono correntemente esposti in tutto il mondo[1]. Il primo edificio di NOX è un edificio completamente interattivo: il Padiglione dell’Acqua, l’HtwoOexpo, l’edificio che Charles Jencks sostiene «non sia stato ancora superato». Alcuni dei progetti successivi più interessanti sono costruiti. Spuybroek è professore in progettazione architettonica alla Georgia Institute of Technology di Atlanta. È stato Visiting Professor nella accademie più prestigiose in Europa e negli Stati Uniti. Risale agli anni 2006-2007 la decisione di non «fare più architettura ma concentrarsi totalmente sull'accademia e sullo scrivere», anche se in realtà, come scrittore, le sue interrogazioni sono rivolte ancora all'architettura e al ruolo dell'architettura nella contemporaneità. Sebbene Spuybroek ironizzi dicendo che ha «fallito così tanto nella sua pratica che adesso deve tentare la teoria»[2], potremmo interpretare questa virata dal ruolo di principale esponente di uno degli studi di architettura più rinomati nel panorama dell’architettura digitale, come meditata attenzione verso un approfondimento della disciplina estetica[3]. Quel «tentativo di diventare così tante cose per anni» riflette una mutazione critica, «un continuo movimento» che del resto costituisce anche l'immagine nella quale Spuybroek si riconosce.

    Il profondo sguardo visionario sulla cultura digitale capace di relazionare il suo punto di vista, del tutto originale, con l'architettura, la storia dei suoi fondamenti e i suoi personaggi, sebbene scelti con un criterio molto personale, è evidenziato da Bart Lootsma, che lo conosce sin dai tempi della laurea, insieme al ruolo nella sua formazione «della persona che l'ha esposto inizialmente alla cultura digitale» Joke Brouwer, la fondatrice del V2[4], particolare talento, compagna nella vita e nell'approfondimento della ricerca, curatrice della maggior parte dei suoi libri.Spuybroek si rivolge alla storia dell'architettura in quanto ritiene che i fondamentali quesiti dell'architettura siano ancora quelli originali. Tuttavia è convinto fermamente che esistano strumenti nuovi per guardare ai problemi di base. Personaggi e problematiche appartenenti a diversi periodi storici segnano fortemente l'excursus teorico di Spuybroek. Le sue ultime pubblicazioni aiutano, a intendere questa connessione extratemporale, della quale si possono intravvedere proiezioni aperte.

    La ricerca incessante di metodologie di progetto e processi per la generazione della forma non trascendente, ma calcolata, ha accompagnato tutto il percorso di Spuybroek. Se quel processo machinico[5] che coinvolge il modo di pensare ed operare nella progettazione e nell’architettura, è usato nei progetti di NOX, ideati e costruiti, ora il libro diventa esso stesso un progetto di architettura nel quale la filosofia dell'estetica della variazione, imperfezione e fragilità sono sapientemente dosati in uno stesso procedimento del farsi.

    John Ruskin viene collocato da Spuybroek in una dimensione[6] popolata da figure apparse dopo di lui: selezione e creazione di una configurazione basata su questa scelta, mobilitazione degli elementi, successivo consolidamento, e morfologia architettonica risultante sono ancora vivi. In questa dimensione machinica ci interessa non tanto capire come Ruskin abbia influenzato i suoi successori, ma come diventi parte di un gioco propulsivo attuale, che utilizzi la forza di proiezione contenuta nei concetti alla base della sue teorie.

    Spuybroek di fatto non ha mai smesso di progettare e di fare architettura.

    Come riferimento privilegiato nel quale sia appropriato comprendere i nuovi strumenti di progettazione e costruzione digitale contemporanea si guarda al periodo gotico[7]. La sua teoria è che il gotico sia più vicino al digitale di qualsiasi esempio di architettura virtuale.

    Spuybroek vede una dei fraintendimenti maggiori del digitale nella sua interpretazione come una sorta di teatro leibniziano della piegatura – a priori – del Barocco. Continuità è un termine propriamente attribuito al Barocco. Tuttavia, in opposizione al Barocco, dove il movimento diventa un aggiunta a posteriori alla struttura, nel Gotico si ricerca flessibilità negli elementi collaboranti con azioni di mutua trasmissione e la si intuisce con immagini scritte di sensibile bellezza. Citiamo quella in cui scrive di immaginare un edificio fatto tutto da figure d'angeli dove tutta la materia è animata, non da anime all'interno dell'involucro materiale, ma dalla flessibilità che vive con la materia rigida, la trama che abita la pietra, la tessitura che abita l'intaglio, l'intaglio che abita il disegno[8].

    L'interesse per i sistemi di elementi che agiscono in uno scambievole gioco di trasferimento di forze che trasmutano le debolezze individuali in una composizione strutturale del tutto rinvia all'immagine utilizzata da Spuybroek più volte come introduzione delle sue conferenze. L'anello di Frei Otto è accostato all'ornamento di Semper e al rosone gotico. La progettazione della forma, in questa indagine più matura, diventa sguardo verso le cose che proprio perché costruite e formatesi secondo queste modalità sembrano rivelare le forze intrinseche materiali nelle linee fibrose, che appaiono come avere vita propria. In questo si comprende la critica al modernismo, e l'uso del gotico filtrato da uno sguardo digitale parallelamente all'indagine su Ruskin e sulla sua critica al classicismo.

    Di interesse particolare nell'ultimo scritto è la connessione della relazione struttura-ornamento con quella di delicatezza e debolezza in relazione all'idea di imperfezione: savageness, una sorta di categoria imperfetta, che Ruskin connette all'idea dell'ornamento a piccola scala dove al manovale è permesso di commettere errori.

    Ancora, Sympathy viene definita «quello che le cose avvertono quando si sviluppano e si formano l'una con l'altra»[9] è una nuova nozione strutturale di affinità, ma è anche una riflessione filosofica sul senso di una cultura digitale e dei suoi prodotti, di cui si riconosce il disorientamento, all'interno di un inquadramento storico di più ampia lettura.

    Sarebbe un errore interpretare gli studi di Spuybroek come la traduzione delle teorie di Ruskin in una sorta di nuova teoria della progettazione digitale o addirittura la ricerca di una legittimazione. In un’architettura digitale dove tutto è permesso – del resto oggi possiamo progettare e costruire al di la dell’immaginazione – quello che si può imparare da Ruskin è che «ogni età deve trovare il suo percorso verso la bellezza». In questo caso Spuybroek indica una direzione all'indietro, verso i fondamenti e la storia dell’architettura nella constatazione che l’architettura digitale vada perdendo la visione di questo linguaggio passato da imparare.

    Da qui l’originalità e la qualità speciale dei libri e del personaggio, quello che Lootsma definisce come una personaggio di nicchia. Un personaggio suscettibile di una duplice decifrazione è, proprio per questa sua peculiarità, di estremo interesse nelle sue proposizioni, comunque si vogliano interpretare: una riflessione individuale racchiusa e, forse, riparata da un digitale che manifesta forti limiti in architettura; oppure una nuova indagine fondante che agisce dall'interno della cultura digitale immessa nel corpo dell'architettura contemporanea, come un habitat teorico riposizionato per la sopravvivenza di un organismo o di una specie.

    Prefazione - Lo spazio della percezione

    di Emmanuele Jonathan Pilia

    Nel 1982, Isaac Asimov, uno dei vati della fantascienza moderna, decise di dare nuovo respiro alla sua più fortunata serie di romanzi, il Ciclo della fondazione, con un romanzo dal titolo L'orlo della Fondazione. Nella prima parte del testo, Asimov descrive un particolare computer con cui uno dei protagonisti, Golan Trevize, avrebbe dovuto pilotare la sua astronave. Un computer che avrebbe risposto unicamente agli input del pensiero dell'operatore. Input trasmessi appoggiando le mani su un piano progettato appositamente.

    Il cervello era unicamente il quadro di comando centrale, racchiuso nel cranio e lontano dalla superficie operativa del corpo, la superficie operativa era rappresentata dalle mani: erano le mani che tastavano e manipolavano l'Universo. Gli esseri umani pensavano con le mani. Erano le mani la risposta alla curiosità intellettuale, erano esse a toccare, stringere, rivoltare, alzare, sollevare. C'erano animali dal cervello piuttosto grande, che però erano privi di mani, e la differenza era importante, molto importante[10]

    Attraverso quel semplice gesto, Trevize avrebbe potuto espandere la propria percezione al di fuori del proprio derma, espandendosi, controllando una porzione di spazio sempre più ampia, facendo sì che la propria percezione inglobasse la carena del veicolo in cui era a bordo. L'intuizione di Asimov è stupefacente: il sentire del pilota coinvolge sempre più il veicolo fino a farlo combaciare con il proprio corpo, tanto che i movimenti della seconda aderivano perfettamente alla volontà del primo, come se fosse una sua estensione naturale. La mente di Trevize non doveva in quel momento coordinare le decine di movimenti necessari a camminare, sedersi, o qualsiasi altra azione utile a esperire lo spazio che lo circonda. Così, anche la sua percezione viene tesa al controllo del proprio mezzo.

    Sentì la lieve brezza, la temperatura, i suoni del mondo intorno all'astronave. Individuò il campo magnetico del pianeta e percepì le minuscole cariche elettriche sulle pareti della nave. Si rese conto di dove e come fossero i comandi senza bisogno di averli presenti alla mente in modo dettagliato. Capì semplicemente che se voleva far decollare l'astronave, o se voleva accelerare, virare, servirsi di uno qualsiasi dei suoi congegni operativi, doveva usare soltanto la volontà, come se avesse dovuto dare un ordine al proprio corpo[11]

    Lo spazio percepito dal protagonista del romanzo si estende oltre il proprio corpo grazie ad un'estensione meccanica la quale, quasi fosse una protesi, inizia ad adattarsi a sua volta ai movimenti di Trevize. Il veicolo in cui era alloggiato non viene sentito come un contenitore ove il proprio corpo viene alloggiato, ma un prolungamento del proprio corpo.

    Scorrendo le pagine del romanzo, l'aneddoto narrativo di Asimov avrà un ruolo sempre più importante: il corpo del protagonista intesserà un rapporto sempre più stretto con lo spazio e gli oggetti che lo circondano, fino a costituire l'essenza stessa della sua avventura.

    L'intuizione di Asimov è figlia di importanti precedenti: la storia occidentale è segnata dal rapporto tra corpo e architettura, e questo a partire dalla classicità. Un rapporto che si consuma non nella diretta fisiologia del corpo, ma sulle proporzioni che accomunano i due fattori in campo. Corpo e architettura devono poter dialogare tra loro in nome della perfezione delle proporzioni con cui la natura ha forgiato l'uomo, una perfezione a cui l'ordine architettonico deve attenersi. Pena, l'esclusione dal dominio della perfezione degli Dei. Così, simmetria e proporzioni diventano i soggetti principali del III libro del De Architectura di Marco Vitruvio Pollione, dedicato ai «sacri tempj degli Dei immortali». Già dalle prime battute, Vitruvio è illuminante nel descrivere quale fosse il sentire greco e romano sul rapporto tra corpo e architettura. 

    La composizione degli edifizj dipende dalla simmetria, ai principj della quale debbono gli architetti diligentissimamente attenersi. Questa poi nasce dalla proporzione, che da' Greci chiamasi analogia. La proporzione è l'armonia di ciascheduna parte dei membri sì fra di loro, come con tutta l'opera: dal che risulta l'essenza delle simmetrie. Onde niun edifizio senza simmetria e proporzione può avere essenza di componimento, senonchè prendendo esempio dall'esatta relazione, che hanno tra loro i membri d'un uomo ben formato. [...] Adunque se fu il corpo dalla natura composto in modo che le proporzioni dei membri corrispondano all'intera figura, membra che gli antichi con ragione abbiano stabilito, che anco nella perfezione delle opere vi fosse un'esatta corrispondenza di commensurazioni dei singoli membri con tutto l'aspetta della figura. Onde adoperando essi gli ordini in ogni opera, lo fecero soprattutto nei tempj degli Dei, ne' quali i pregi e i difetti dei lavori sogliono durare eterni[12]

    A questi passi ne succedono altri in cui vengono descritte puntualmente le varie proporzioni a cui l'architettura deve far riferimento. Proporzioni che cadranno nell’oblio dei secoli bui del medioevo e che rivedranno la luce soltanto con l'interpretazione rinascimentale della matematica greca, strumento degli Dei per dare forma e perfezione al mondo, «rafforzata inoltre dalla certezza cristiana che l'uomo, immagine di Dio racchiuda le armonie dell'universo». L'uomo, tornato al centro dell'universo, sostituirà nell'arco di un secolo ogni metafora e iconografia architettonica. Ma prima di poter esprimere al meglio il potenziale espressivo di quest'intuizione, è necessario codificare alla perfezione i rapporti geometrici che dominano le proporzioni del corpo umano. Sarà Francesco de Giorgio Martini a dare una prima interpretazione grafica veramente coerente ad un oscuro passo di Vitruvio che dalla fine del '400 in poi segnerà la storia dell'arte e dell'architettura:

    Il centro medio del corpo naturalmente è l'umbilico. Perché se l'uomo si collocherà supino, colle mani e coi piedi distesi, e si far col compasso centro dell'umbilico, tirando un circolo, le dita d'ambe le mani e dei piedi toccheranno questa linea; e siccome si fa nel corpo la figura circolare, del pari in esso trovasi la quadrata. Perché se dalla base dei piedi si misurerà fino alla cima del capo, e quella misura sarà riportata alle mani distese, si ritroverà la larghezza eguale all'altezza, allo stesso modo di quei piani che sono esattamente quadrati[13]

    Da questa riflessione nascerà l'Homo ad quadratum, illustrazione del 1481 e contenuta nel Trattato di architettura civile e militare (il disegno è nel codice Saluzziano, n. 148 fol. 6v.) che attrarrà la curiosità di Leonardo da Vinci, in viaggio verso Pavia nel 1490. L'incontro tra i due sarà importantissimo per l'evoluzione creativa durante la seconda parte del periodo milanese di Da Vinci. Sarà infatti Francesco Di Giorgio a introdurre Da Vinci alla trattatistica vitruviana, di cui Di Giorgio aveva iniziato a tradurre alcune parti del terzo libro. Da Vinci non poteva conoscere a fondo il testo di Vitruvio, dato che non aveva avuto un'educazione che gli permettesse di comprendere il testo latino. Gli scambi con Di Giorgio dovettero risultargli particolarmente stimolanti, tanto che appena tornato a Milano elaborerà quella che è universalmente conosciuta come una delle icone del Rinascimento, la figura che «inscritta in un quadrato e in un cerchio divenne simbolo della corrispondenza matematica tra microcosmo e macrocosmo»[14]: l'Uomo Vitruviano.

    L'influenza delle tavole di Leonardo e di Di Giorgio sopravvisse per tre secoli, incarnandosi nell'opera di autori come Cesare Cesariano e Daniele Barbaro, che raccolsero la sfida di divulgare ai loro contemporanei il messaggio di Vitruvio. La reazione al classicismo del romanticismo spazzerà via questa tradizione, che sarà ripresa solamente nella prima metà del XX secolo, dando continuità a quella lunga tradizione di autori che ponevano al centro della loro riflessione il problema del corpo e delle sue proporzioni. Sarà infatti Le Corbusier a cercare di rimettere al centro l'uomo, dopo che l'uragano del sublime aveva spazzato via ogni resistenza antropocentrista. Ancora una volta si tenterà di trovare le proporzioni geometriche e matematiche del corpo umano per poterle utilizzare al fine di trovare la chiave a un'estetica e una funzionalità finalmente moderna. Campione di queste proporzioni è il Modulor, un sistema molto più sofisticato dei suoi predecessori, essendo basato sull'intreccio delle misure di un uomo generico alto 1,83 metri, sulla sezione aurea e sulla serie di Fibonacci. Un sistema sofisticato, ma arbitrario: infrazione imperdonabile per uno schema che si sarebbe dovuto prestare a modello ideale di tutte le cose.

    Le tappe che abbiamo ripercorso hanno tutte un elemento comune importante, ossia quello di approcciare al corpo considerandolo nelle tre direzioni dello spazio. Il corpo è un volume inerte che esprime la propria essenza passivamente come parametro di misura degli elementi architettonici. Solo il Gotico ed il Romanticismo ha tentato di combattere quest'impostazione riduzionista e deterministica. L'architettura, lo spazio architettonico, non è una stratificazione di elementi che emulano le articolazioni di un essere vivente, ma è essa stessa viva: cresce, espandendosi verso ogni direzione, amplificandosi, lasciando vaste aree di incertezza, plasmando spazi incerti che hanno bisogno dell'occhio più attento per essere letti. Ciò che anima il sentire gotico e romantico non deriva dal semplice desiderio di vincere la morte nella contemplazione o nella produzione di entità immortali, ma pretende di trascendere la forma stessa, dando vita a tendenze vandaliche: «secondo tali movimenti, attribuire al trascendente una forma significa restare vittima di una concezione antropomorfica»[15]. Il corpo umano non può essere apprezzato unicamente come apparato formale, o tutt'al più come una cosa che sente. Il corpo è pervaso di istinti e pulsioni che ne animano le membra, che agisce e si ritrae in base a ciò che lo attrae o lo repelle. Il gotico e il romanticismo pervadono l'inorganico di questo dinamismo, appropriandosi della dimensione empatica. Una dimensione per nulla riconciliante o armonica, ma al contrario «essa è piuttosto un'inquietante mescolanza di materialità e di sensibilità»[16]. La sfida che questa geometria vivente pone ai nostri corpi non è rivolta alla sua mera volumetria, ma agisce sulla stessa esperienza nella sua totalità. Ogni senso è coinvolto nell'esperire lo spazio gotico, amplificandosi, moltiplicandosi, estendendo i limiti oltre la barriera rappresentata dal derma. Una barriera che si espande e si sfuma, coinvolgendo tutto ciò con cui viene in contatto, incorporandolo nel proprio dominio. È qui che si consuma il rapporto tra corpo e spazio nel gotico: nell'enigma della pietra che vibra e attrae il dominio dei sensi.

    Il sentire gotico si nasconde nell'ombra del classicismo e del determinismo, attendendo per sferrare il suo attacco. È in questa tradizione che si insinua il lavoro di Lars Spuybroek, da sempre interessato all'indagine dei limiti che separano percezione, azione e le cose che circondano gli individui, apparecchiature cibernetiche o edifici che siano.

    Un utilizzo dell'architettura come protesi propriocettiva[17], un'interazione tra spazio e corpo che consideri le appendici del cyberspazio come estensioni dell'edificio e della pelle, una concezione dello spazio come elemento vivo, capace di autogenerarsi come se fosse un essere vivente: questa è la sfida che Lars Spuybroek ha lanciato tramite la sua ricerca. A questa si aggiunge, non come mera appendice, ma come un tessuto che fa da sfondo a tutta la sua opera, la riflessione sulla continuità tra azione e percezione ed una presa di coscienza delle potenzialità dell'utilizzo del computer in architettura. Le aree in cui si muove l'architetto olandese sono quelle fondate dalla svolta mediatica operata da Marshall McLuhan. «Le conseguenze individuali e sociali [...] di ogni estensione di noi stessi, derivano dalle nuove proporzioni introdotte nelle nostre questioni personali da ognuna di tali estensioni o da ogni nuova tecnologia»[18]. Ne deriva che ogni medium amplifica le potenzialità fisiche, intellettuali, sensoriali e cognitive dell'individuo, modificando di conseguenza l'agire e il pensare individuale, e con esso le strutture della società. In quanto estensioni del nostro sistema fisico e nervoso, per McLuhan i media costituiscono un sistema di interazioni biochimiche che deve cercare un nuovo equilibrio ogni volta che sopraggiunge una nuova estensione. A queste riflessioni Spuybroek si pone in diretta continuità, abbandonando però ogni considerazione sulla società per concentrarsi sull'esperienza del singolo e della carne.

    I movimenti delle protesi possono diventare automatici, non importa che sia fatta di carne, di legno, o di metallo, come nel caso di un'automobile [...]: il fantasma intrinseco del corpo ha una tendenza ad espandersi, ad integrare nel suo sistema motorio ogni protesi che sia sufficientemente reagente, facendola funzionare armoniosamente con il corpo stesso.

    E ancora,

    I movimenti possono essere fluidi solo se la pelle si estende il più possibile oltre la protesi e all'interno dello spazio circostante, così che ogni azione abbia luogo all'interno del corpo, il quale non compie più movimenti coscientemente, ma basandosi completamente sul proprio sentire[19]

    Deliri di un architetto che spinge all'estremo i limiti del corpo, facendolo identificare con lo stesso spazio. Si apre un legame molto più profondo tra azione e percezione che vede la fruizione architettonica come un autoinnestarsi in una protesi che non ha come obiettivo quello di sopperire ad una mancanza, ma, come il medium di McLuhan, di estendere i nostri limiti, puntando all'appropriazione di sensibilità non proprie all'uomo. A tal proposito, è interessante andare ad osservare come alcune riflessioni di Mark Hasen sul ruolo assunto dall'architettura mediatica si prestino a illustrare il lavoro operato da Spuybroek.

    La sua tesi consiste nella presa di coscienza che il ruolo di questa architettura sia quello di operare come stimolatore di una nuova convergenza basata su un regime di esperienza e presenza, in opposizione al regime di telepresenza, ormai obsoleto. L'architettura diventa così un campo di sperimentazione delle condizioni contemporanee della soggettività umana, che si connette a un sentire tecnologico radicalmente più intimo di quello prospettato dal positivismo. Seguendo Hansen, l'inversione dall'iniziale direzione del vecchio progetto di stampo cibernetico è enorme. L'idea del conformare l'uomo alla macchina si tramuta nel reinserimento dell'umano nel circuito della macchina, per ripensare la convergenza tra l'umano e il tecnologico.

    una correlazione della tecnica ad una nuova estetica, deve essere compresa in senso letterale come aisthesis, il sentire-percepire del mondo. [...] Questa nuova estetica determina l'inseparabilità dell'esperienziale (aisthesis) dal tecnico[20]

    È particolarmente importante notare come lo stesso Spuybroek, commissionatogli un lavoro di ambito urbano, che quindi coinvolge interessi allargati, riesce a ricondurre la propria attenzione verso una cittadinanza considerata come un soggetto unico, seguendo il paradigma riproposto da Pierre Lévy di intelligenza collettiva[21]. La problematica affrontata è quella di innestare una protesi al collettivo, preso come un ente unico e capace di prendere autonomamente le proprie scelte. Una protesi che si collega direttamente allo stato emotivo della collettività, e che si manifesta nel progetto D-Tower[22]. La torre, un oggetto polimero dalle sembianze di un mollusco alto dodici metri, è costantemente collegata via internet ad un sito creato per l'occasione[23], dove la cittadinanza è invitata a rispondere a dei questionari elaborati in modo tale da comunicare le proprie emozioni. La torre, cangiante al crepuscolo, vira così le sue tonalità cromatiche traslando il sondaggio virtuale in una esteriorità visibile allo stesso ente che ha prodotto il nuovo effetto. La continuità avuta da azione e percezione, uomo e macchina, trasforma la totalità della cittadinanza in un'ipercorteccia, di cui ogni utente è neurone. Lars Spuybroek sembra rispondere alla questione del ruolo che debba svolgere l'architettura del nostro tempo, posto dallo stesso Lévy[24]: «L'architettura ed il design non sono forse quelli dell'ipercorpo, dell'ipercorteccia, della nuova economia degli eventi, dell'abbondanza e del fluttuante spazio dei saperi?».

    Se la D-Tower è stata elaborare per esprimere il tessuto emotivo della comunità, il lavoro che meglio rappresenta la ricerca sul tema della protesi architettonica è, senza dubbio, l'HtwoOexpo, il Padiglione dell'Acqua, realizzato nel 1997 nell'isola di Neeltjie Kans, in Olanda, l'opera che, secondo Charls Jenks, ancora deve essere superata[25].

    Commissionato dal Ministero delle Infrastrutture e della Gestione dell'Acqua olandese, che aveva intenzione di dotarsi di una struttura atta a far vivere un nuovo tipo di esperienza dell'acqua, l'edificio di Neeltje Kans non contiene un'esposizione nel senso classico del termine, ma è esso stesso vetrina ed opera esposta. Questo particolare sistema espositivo si articola in un programma funzionale formato da tre attività: oltre all'esperienza dell'acqua richiesta dalla committenza, si ha l'occasione per sperimentare i temi dell'architettura come protesi e quello della continuità tra azione e percezione.

    L'acqua, ambiente primordiale da cui deriva la vita, diventa così il pretesto per la realizzazione di una commistione tra arcaico ed elettronico all'interno di una grotta tecnologica illuminata dalla fiamma di circa duecento neon azzurri ed un imprecisato numero di proiettori, che, a contatto con i vapori e l'umidità prodotta dalla struttura, creano effetti stroboscopici che rimandano alle immagini prodotte dal monolite di 2001: Odissea nello spazio, che proietta l'astronauta Bowman su paesaggi alieni, in un percorso attraverso lo spazio e il tempo. Ma il protagonista del film di Kubrick, chiuso nella sua capsula, è costretto a subire uno spettacolo sul quale non ha alcun potere. Subisce quindi un impedimento della continuità tra azione e percezione, che lo getta nel panico.

    Ma nel Padiglione dell'Acqua la sospensione provata da Bowman nel film viene dissolta: il fruitore viene catapultato in uno spazio definito dalla ricerca del limite del controllo sul proprio corpo. Ribaltando l'assioma di Gottfried Semper per cui le superfici orizzontali, i pavimenti, e quelle verticali, i muri definiscono rispettivamente l'azione e la percezione, Spuybroek fonde assieme muri e pavimenti, tracciando una continuità che non si ferma all'ideale. Non una superficie resta orizzontale, ma continui movimenti scuotono uno spazio in cui il corpo è costretto a trovare l'equilibrio facendo affidamento esclusivamente sul proprio movimento.

    A questo equilibrio continuamente ricercato, fa eco la stessa architettura che si fa protesi reagendo ad ogni movimento. Il corpo raggiunto l'autocontrollo, espande i propri limiti per assumere il controllo di ciò che gli sta attorno, riuscendo finalmente a gestire lo spettacolo di luci e suoni che si danno come una continuazione ideale dell'evoluzione presentata dal Poèm Électronique di Edgar Varèse: in Spuybroek l'uomo, ormai cosciente di aver tra le proprie mani la chiave del proprio destino, può proseguire, mostrando a sé stesso cosa l'aspetta. Le composizione polifoniche di Edwin van der Heid & Victor Wentink vengono attivate anch'esse nella stessa maniera delle luci e dei suoni, contribuendo alla sensazione di essere un tutt'uno con la macchina che ci circonda.

    Il poema elettronico di Varèse viene traslato in una prosa che fa della costrizione un mezzo per prendere coscienza del cammino che l'uomo ha affrontando per millenni. Spuybroek ci vuole dire questo: dopo secoli di stasi, finalmente raggiunta la possibilità, è giunta l'ora di rialzarsi e riprendere il proprio cammino.

    È in quest'ottica che occorre cercare la chiave di lettura del lavoro di Lars Spuybroek: riuscire a raccogliere la scommessa di un'architettura totalmente immersiva, capace di indagare a fondo le implicazioni di una tecnologia sempre più presente nel quotidiano, sempre più invasiva nei corpi degli utilizzatori di essa. La transarchitettura nasce da queste premesse, e la sua ambizione è quella di produrre spazi estremi in cui sperimentare i limiti del proprio corpo, virtuali o fisici che essi siano, e di utilizzare le forme dell'immaginario per aiutarci a comprendere ciò che attualmente ci circonda.

    Il dualismo tra goticismo e classicismo, tra virtuoso e razionale

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