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Glenvion La trilogia
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E-book617 pagine8 ore

Glenvion La trilogia

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Info su questo ebook

Sinossi
La trilogia completa della saga Glenvion, 7000 download negli store in meno di un anno. Vorrei festeggiare questo piccolo traguardo insieme a tutti voi riproponendovi tutti i volumi e una nuova cover. Alla fine troverete un estratto del romanzo Horror fantasy Pactum Sigilli, se dovesse interessarvi.

Volumi contenuti nella trilogia

La matrice
Cosa si cela nel sangue di Patrich Martens? Quale oscuro segreto custodisce la sua memoria? La misteriosa morte del padre, quell'emblema che alla mente torna: ciò lo conduce in Belgio, nella sua città natale, dove la sua incredibile avventura ha inizio. Individui lo cercano con insistenza, lo bramano. Un antico ordine, invece, lo segue nell'ombra, proteggendolo da una minaccia di cui è egli stesso, a sua insaputa, la causa. Questi cercheranno di salvarlo e condurlo al suo destino: una realtà incredibile, una verità celata da secoli che a pochissimi eletti è concessa e di cui egli è l'ultimo custode.

La prigione di Sefrin
Cosa accade alla Matrice? Perché è al limite delle forze? Dalla rinascita di Patrich molte cose sono cambiate, egli scompare senza lasciare traccia, lasciando nella fredda fossa in cui giaceva solo un piccolo indizio, o forse un semplice regalo di addio.
I cavalieri sopravvissuti anni prima sono allo scuro dei suoi piani, faticano a comprendere il suo gesto e la sfiducia li attanaglia, portando alla luce gli antichi scheletri che nei loro armadi erano rimasti sepolti. Il gesto del custode è tuttavia disperato: un peregrinare verso l'ignoto, verso qualcosa che lo sta chiamando e che lo tortura senza tregua, attraendolo incessantemente e facendolo sprofondare in un abisso di incertezze, un abisso che si rivelerà essere la chiave dell'antico mito.

L'ultimo Custode
Oscurità opprimente, odore ferroso di sangue e di pietra umida.
Non c'è più tempo per le domande: le forze scemano, la realtà incalza, il puzzle si ricompone.
Nelle profondità del dedalo l'urlo agghiacciante della verità.

Estratto del romanzo Pactum sigilli.

LinguaItaliano
Data di uscita4 ott 2015
ISBN9781311027481
Glenvion La trilogia

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    Anteprima del libro

    Glenvion La trilogia - Alessandro Falzani

    Altre opere dell’autore

    Hell Kaiser Vol. 1 Lorian L’alleanza dei caduti

    Hell Kaiser Vol. 2 Baal L'apocalisse di Salomone

    Pactum Sigilli

    Memoria (Racconto Breve)

    Copyright text 2015 Alessandro Falzani

    Copyright cover illustration 2015 Alessandro Falzani

    All rights reserved.

    LIBRO PRIMO

    LA MATRICE

    "Chi salva una vita salva il mondo intero"

    Schindler’s List, 1993

    Prologo

    Mechelen, Belgio. Anno 1569

    Terra intrisa di sangue, brandelli di carne, una moltitudine di cadaveri. Tutti i cavalieri sono caduti, eccetto tre. Spalla a spalla fronteggiano gli ultimi nemici, le loro spade ormai pesanti si levano a fatica e li difendono con rabbia da uomini meschini e avidi di potere. Con una resistenza disperata si tengono ancora in vita, lo sforzo tuttavia è immenso, troppe le perdite e il nemico più forte del previsto. La chimera, il motivo per cui l’ordine è stato fondato, si sta ora dileguando davanti ai loro occhi. In lontananza alcuni uomini fuggono; guadano il piccolo fiume sostenendo il prezioso carico in quattro, forse cinque: questo è inerme, impassibile, incapace, forse, di opporsi al proprio fato. A poco a poco scompare alla loro vista, tuttavia il suo bagliore, la luce dorata persiste per alcuni minuti, lasciando una scia che il loro sguardo possa seguire. Quella scena si imprime nelle loro menti, ancorandosi all’amarezza del fallimento, mai la dimenticheranno. L’ultimo dei nemici ora cade sotto la lama di Carlo Quinto, mentre Filippo e Francesco Maria si abbandonano, logori dalla fatica, ripongono la fiducia nel loro compagno, alla cui forza affidano l’ultima estenuante difesa. Ormai non si ode più il sibilo delle lame che fendono l’aria, la morte ha portato il silenzio.

    «Carlo, placa la tua ira, ormai è finita, l’hanno preso!» urla una voce sofferente alle sue spalle.

    L’imperatore estrae la spada dal torace dell’ultimo uomo ormai a terra, le gambe instabili per la stanchezza, ansimante si volta con fatica.

    «Filippo, non abbiamo perso solo quello, guardati intorno! Tutti questi giovani, le loro speranze, li abbiamo delusi e hanno pagato con la loro vita. Non doveva accadere, eravamo così vicini, potevamo finalmente riprenderlo.»

    Si lascia cadere a terra, accanto a lui il corpo esanime di un ragazzo, ne accarezza il volto ormai gelido, non ne conosce il nome ma gli basta sapere che combatteva al suo fianco.

    «Abbiamo sbagliato ancora, per l’ennesima volta. Possibile che il destino ci abbia voltato le spalle? Eppure per giusta causa combattiamo, per il bene comune stiamo sacrificando innumerevoli vite. Che la nostra forza non sia sufficiente? No, non oso crederlo» insinua con voce tremolante Filippo.

    Francesco Maria, il più provato tra i tre sopravvissuti abbandona il capo ormai pesante sulla spalla di un suo seguace, quasi voglia rincuorarlo e scusarsi con lui, quindi risponde alle perplessità dei compagni.

    «Voi, uomini dal talento e forza straordinari, perché vi compiangete? Tu, grande Carlo Quinto, ti rendi conto di quale sia il tuo potere e quale vasto impero governi? E tu, Filippo di Borgogna, hai fondato quest’ordine e ci hai resi partecipi di un miracolo. Sappiamo di cosa sono capaci persone come noi e se facciamo uso delle nostre virtù nel giusto, nessuno e niente può fermarci, nemmeno al destino è concesso di opporsi.»

    Si solleva, il suo contributo in guerra non è stato all’altezza delle aspettative e di ciò prova immensa vergogna, tuttavia del tesoro non tutto è stato perduto. Alcuni frammenti sono sparsi a terra, li osserva intensamente, guarda Filippo e con passi pesanti gli si fa incontro.

    «Ascoltate, io sono il solo responsabile della disfatta, lo so. Il mio compito era di fornire armi resistenti ed efficaci, ma come abbiamo visto, i nostri avversari erano ben più corazzati di noi. Non è stato il destino a voltarci le spalle, né la natura ci è contro, dato che la nostra vita si sta protraendo oltre il volere del buon Dio. La nostra è mancanza di esperienza, per questo compito abbiamo bisogno di tempo e di prepararci meglio. Che questa sconfitta ci serva da monito.»

    Francesco rovista tra i corpi, il suo sguardo cerca qualcuno in particolare che durante lo scontro gli era vicino, esamina il tappeto di corpi su cui delicatamente pone i piedi, infine si arresta, cambia direzione e lo raggiunge. Un uomo dal volto irriconoscibile giace privo di vita, una sacca al collo. Francesco si sente mozzare il fiato; il giovane la stringeva con le braccia, nemmeno dopo morto l’avrebbe lasciata ai nemici, quasi fosse il tesoro della sua vita. Con solennità e rispetto allarga le braccia del cadavere, ponendole a terra. Apre la sacca e ne estrae fogli di pergamena arrotolati, si lascia scivolare sulle gambe sedendogli accanto.

    «Che sia messa agli annali anche questa nefasta giornata. La nostra è stata una grande disfatta eppure anche oggi aggiungiamo un nuovo tassello alla conoscenza di cui tanto abbiamo bisogno.»

    Quindi apre i fogli disponendoli sul corpo ed inizia ad annotare qualcosa sull’unico che sembra ancora vergine di inchiostro.

    Poco distante si percepisce un lamento di donna. Carlo trova la forza di sollevarsi, sebbene cerchi di analizzare le parole di Francesco, la sua mente porta l’attenzione alle sue spalle. Si dirige verso il corpo agonizzante facendo attenzione di non calpestare nessun cadavere, la raggiunge e vede che un profondo squarcio le trapassa il ventre. La donna lo cerca con lo sguardo. Soffici capelli rossi le nascondono il viso, seppur sudici le conferiscono una bellezza straordinaria. Gli occhi di un castano scuro, profondi e tristi. Carlo si inginocchia nuovamente, le lacrime si mischiano al sudore e si perdono nella folta barba, prende la mano della donna.

    «Come ti chiami? Perché sei qui anche tu, chi ti ha ordinato di combattere?»

    La donna raccoglie le ultime energie, aspetta che Carlo avvicini l’orecchio alla sua bocca, infine sussurra «Filippo mi ha reclutata, ma…la scelta è stata solo mia, volevo combattere. Le virtù che abbiamo non possono essere trascurate…salvare la gente dal male è quanto di più bello ci sia e l’unico motivo per cui valga la pena morire.»

    Quel momento, le parole e lo sguardo compassionevole e non corroso dall’odio, si imprimono in maniera indelebile nell’animo di Carlo.

    «Il tuo nome, donna, devo saperlo» chiede ancora l’altro.

    «Il mio nome è Glenn Teodor… grande imperatore.»

    La mano della donna lentamente allenta la presa. Prima che questa possa abbandonarlo la fissa negli occhi.

    «Glenn… Teodor, io ti prometto che il tuo sacrificio non sarà vano. Non ho mai visto una donna combattere e morire con questi ideali, non posso e non voglio dimenticarti, così come ricorderò ciascuno di questi cavalieri morti con le tue e le mie stesse convinzioni. Dammi la forza Glenn, dammi la forza per continuare, perché non morirò, nemmeno tra cento anni, io non morirò se il tuo volere, il nostro destino non sarà compiuto. È la mia promessa, Glenn Teodor, la promessa dell’imperatore Carlo Quinto.»

    La donna risponde, sostiene il suo sguardo sino a che gli occhi le si chiudono, un leggero sorriso le si ferma sul volto, il dorso della candida mano accarezza la terra.

    Capitolo Uno

    Il suono della sveglia era insopportabile, assopito nel tepore delle coperte non aveva proprio voglia di alzarsi. Aprì a fatica una palpebra, mise a fuoco e lesse l’ora: sei e trenta. Sapeva di non poter tardare neanche un attimo, il capo lo aspettava solo un’ora più tardi pronto e lucido. Puntuale come la sveglia arrivava la chiamata della madre: «Patrich! Dai!»

    Ripensò per un attimo a quante volte aveva sentito quella frase da quando aveva iniziato a lavorare, erano trascorsi esattamente due anni e quattro mesi. Ora sorrideva all’idea ma le prime settimane non riusciva proprio a reggere quei ritmi. In fondo andava compreso, sino a poco prima la vita da studente era tutt’altra cosa e l’idea di alzarsi così di buon ora non lo avrebbe nemmeno sfiorato, ma dopo la disgrazia tutto era diverso, aveva cambiato vita, si era rimboccato le maniche per aiutare la madre, ora tutto era mutato.

    «Mamma non salire, ti ho sentito, scendo, scendo!»

    Era l’unica frase che poteva arrestare l’arrivo di Teresa. Fece un sospiro, scansò le coperte e di scatto poggiò i piedi a terra. Un lieve brivido di freddo lo percorse, subito la sua attenzione si diresse verso la finestra, l’orecchio si concentrò sui rumori provenienti dall’esterno, si udiva un leggero crepitio.

    «Cazzo! Piove anche oggi!» scosse la testa e si diresse all’armadio di fronte, scelse un paio di pantaloni pesanti rinforzati sulle ginocchia e una maglietta di cotone a maniche lunghe; abiti ingombranti gli rendevano difficile muoversi in cantiere ma portare un giubbotto imbottito aiutava quando il freddo era troppo penetrante. Prese gli scarponi che si trovavano appena fuori dalla stanza e li allacciò saldamente.

    «Patrich, la colazione!» urlò Teresa che iniziava a spazientirsi.

    Questa volta il ragazzo non rispose, uscì in fretta dal bagno, uno sguardo a quella maledetta sveglia, le sette meno cinque minuti. Prese il giubbotto, prima di uscire osservò alcuni secondi la foto appesa alla parete sulla testiera del letto «Buona giornata anche a te, papà.» Scese in fretta le scale, ad aspettarlo c’era lei, sempre, ogni giorno alla stessa ora. Il grembiule bianco candido ben stretto in vita a risaltarne la silhouette, i lunghi capelli raccolti in una semplice coda, una mano sul fianco destro in segno di attesa, con la sinistra spostò la sedia, sul tavolo una tazzina di caffè fumante e un pacco di biscotti al cioccolato, i preferiti di Patrich.

    «Allora dormiglione vuoi che il tuo capo venga a prenderti a casa anche stamattina? Guarda che non invento più cavolate per pararti il sedere, la mattina devi scattare!»

    «Buongiorno anche a te mamma! Sai che stai davvero bene con quel grembiulino!»

    «Guarda che non funziona e adesso siediti, fai colazione e oggi compra qualcosa da mangiare, se scopro che fai digiuno ti prendo a calci!» sbottò la madre, cedendo ad un lieve sorriso durante il richiamo.

    Patrich bevve il caffè e prese un solo biscotto, a quel punto sapeva che la madre avrebbe taciuto; la confezione doveva bastare almeno una settimana e non potevano comprarne altri. Si alzò dal tavolo, le stampò un bacio sulla guancia e uscì, socchiudendo lentamente la porta. Prese la bici ma prima di immettersi sulla strada tornò indietro e sbirciò dalla finestra; la madre era seduta al tavolo con il viso tra le mani. Distolse lo sguardo serrando le labbra e iniziò a pedalare, aveva solo quindici minuti.

    «Ciao moccioso!» fece una voce forte proveniente dall’ufficio.

    Appoggiò la bici vicino al cancello, la legò con catena e lucchetto quindi entrò.

    «Ciao capo! Dove si va oggi?»

    Il volto di Roberto si fece stranamente serio, si alzò dal tavolo dirigendosi verso il giovane, gli diede una pacca sulla spalla e disse semplicemente «Ragazzino, purtroppo abbiamo poche commesse e credo te ne sarai accorto, Lucio finirà un lavoro da poco in centro; si tratta di allacciare un grosso serbatoio d’acqua di riserva per un condominio, mi ha detto che può fare da solo e che non gli servi, quindi. . . ecco. . . non posso farlo stare a casa, ha moglie e un figlio e per i prossimi mesi non ci sono grossi programmi di lavoro…»

    «Vuoi licenziarmi? È questo che mi stai dicendo?»

    «Credimi Patrich, sei davvero un tipo sveglio e diventerai un idraulico in gamba, ma al momento non posso permettermi due operai, ho anch’io famiglia e sono in difficoltà! Però. . . se dovessi di nuovo aver bisogno…»

    «Lascia stare Roberto, non serve che dici altro, anche io ho notato che il lavoro è diminuito e che c’è poco da fare, ma non immaginavo che mi avresti licenziato. Però va bene uguale, tranquillo.»

    Si voltò verso l’uscio, la pioggia si era attenuata parecchio, fissò lo sguardo su un punto del pavimento, il pensiero rivolto alla madre. Cosa poteva dirle? La loro situazione economica era grave, lui era l’unico ad avere un lavoro mentre i suoi nonni non potevano aiutarli; vivere a Modena non era semplice, tutto costava caro e la loro pensione era misera, in fondo facevano già troppo: condividere la casa senza chiedere nulla in cambio era una fortuna ma uno stipendio era indispensabile, per di più lui era il solo che in famiglia poteva lavorare.

    «Comunque ragazzo, passa domani per l’ultimo stipendio, so bene in che situazione è la tua famiglia e di certo non voglio peggiorarla.»

    Patrich osservava l’uomo e lo vedeva sinceramente addolorato, davvero non vi era altra scelta, il licenziamento, sofferto e meditato, per questo non riusciva ad odiarlo. Gli rivolse un sorriso forzato ma gli occhi erano veri, tranquilli, senza risentimento: «Ok, allora ci vediamo domani.»

    Impugnò il manubrio della bici, si accomodò sul sellino, tolse catena e lucchetto mentre Roberto gli si avvicinò sotto la leggera pioggia, incurante di bagnarsi «Sei davvero un bravo ragazzo, vedrai, farai grandi cose. La tua gentilezza e premura verso gli altri sono la tua forza, in bocca al lupo, Patrich!»

    Il ragazzo accennò un flebile sorriso, si voltò, iniziando a pedalare lentamente sotto la pioggia.

    Capitolo due

    «Teresa, per cortesia non riesco più a vederti così. Ti prego, riprenditi!»

    «Oh, mamma, ben svegliata. No, non preoccuparti, non è nulla. Sai come sono fatta e poi è questo tempo che mi mette un po’ di malinconia, qui da voi piove quasi sempre!»

    «Mah, per quel che ricordo in Belgio non è molto diverso!»

    L’anziana donna lentamente si accomodava al tavolo iniziando a sgranocchiare un biscotto. Teresa sorrise, sua madre era dotata di una straordinaria capacità di metterla di buon umore, seppur il tono dei suoi discorsi era sempre molto serio.

    «Si, mamma. Hai ragione, scusami. Cerca di non farci caso, io…io non riesco a dimenticarlo, proprio non ci riesco.»

    «Lo so figlia mia, lo so. Non ti sto chiedendo di dimenticarlo, sarebbe come morire una seconda volta, ma hai un figlio che ha bisogno di te e tu di lui, Patrich non sopporta di vederti angosciata, soffre per Marc come te. Tutti noi sentiamo la sua mancanza. La vita va avanti, deve essere così. Ma non è la sua morte a turbarti, vero? Tu non sei ancora convinta che si sia suicidato, non è così?»

    Il volto di Teresa si contrasse, fissò lo sguardo in quello della madre che più di ogni altra persona ne sapeva leggere i pensieri e scosse la testa ripetutamente, quindi dando sfogo alla sua frustrazione alzò il tono di voce, incurante del padre che ancora dormiva «No, mamma, no e ancora no! Sono sicura che è stato ucciso ma per quanto cerchi un motivo, una seppur minima spiegazione logica non riesco a trovarla. Era soltanto un professore universitario con una grande passione per la medicina, amava me e Patrich in modo smisurato e sognava per il figlio un futuro come il suo, anche migliore e invece… invece si ritrova a fare l’operaio, in una città che non è la sua, in una casa che non è sua e in un paese non suo! Il padre è morto e non sa perché. Io invece sento che l’hanno ammazzato. Tu non c’eri ma io l’ho visto, non si spara in testa un uomo con quello sguardo negli occhi. Lui era consapevole, quasi guardasse qualcuno, lo stava aspettando!»

    «Smettila Teresa, non urlare, non serve a nulla» la richiamò la madre tenendola forte per mano. «Tu non credi al suicidio per via di quelle analisi che avete fatto fare a Patrich, è inutile che ci giriamo intorno, da allora non ti ho chiesto più niente ma ora diamine, dimmi come stanno le cose!»

    «Si, si, è così e allora? Non ci vedo nulla di strano.» Teresa si alzò dal tavolo, le fece cenno di attenderla seduta e salì al piano superiore; entrò nella sua stanza e sotto il materasso prese una grossa busta che all’apparenza doveva contenere parecchi fogli, quindi scese in fretta le scale e tornò a sedersi, ma questa volta la presenza di un uomo anziano la sorprese.

    Egli la fissava. Riccardo non aveva l’aspetto di una persona che si fosse appena svegliata, si voltò verso il tavolo e si sedette accanto alla moglie, le appoggiò delicatamente le labbra sulla guancia e sussurrò «Buon dì Matilde», per poi sorriderle.

    «Buon dì Riccardino» rispose lei con lo stesso sorriso.

    Teresa li guardò con aria innamorata, dopo quarantatré anni di matrimonio si cercavano come il primo giorno, si rispettavano. Tuttavia con lei era sempre stato duro, nonostante fosse figlia unica la sua educazione era stata molto rigida e il padre esigeva ancora oggi rispetto. Per tali ragioni tra loro si ergeva una barriera di incomprensioni, difficile da abbattere, ma dopo due anni e mezzo di convivenza la situazione sembrava essersi attenuata. Nonostante ciò vi era una cosa sola che Riccardo non tollerava, ovvero che si alzasse la voce in casa, soprattutto se era una figlia a farlo.

    «Buon. . . dì. . . papà.»

    «Buondì, Teresa, siediti, per favore.»

    Teresa ubbidì. Ogni volta che le impartiva un ordine si sentiva una ragazzina, le pareva di tornare indietro nel tempo ed era più forte di lei, non riusciva proprio a ribellarsi a quel modo di fare. D’altronde cosa poteva aspettarsi da un ex poliziotto? Per tutta la vita Riccardo era stato abituato a rispettare ordini e a farli eseguire, in fondo non poteva certo biasimarne il comportamento.

    «Non ho potuto fare a meno di ascoltare la vostra… diciamo, conversazione. Anche se mi è parso di udire un tono di voce alquanto indigesto, o mi sbaglio?»

    «Si, papà e mi scuso con mamma e con te, ma stavamo solo ragionando.»

    «Lo so, piccola mia» rispose a voce bassa il padre stringendo forte tra le mani le spalle della figlia. Teresa fu sorpresa da quel gesto, il padre era sempre restio a dimostrarle affetto e non ricordava di aver mai ricevuto una stretta così forte, questo la rassicurava, la faceva sentire apprezzata. I due si guardarono negli occhi e senza dire altro si sorrisero a vicenda, Matilde strinse la mano di entrambi quindi fece un cenno alla figlia di aprire la grossa busta. Teresa si asciugò gli occhi umidi, di lì a poco, copiose lacrime sarebbero sgorgate. Ne estrasse il contenuto, espose quattro differenti fogli sul tavolo e li lasciò leggere ai genitori. Riccardo scrutò meticolosamente i quattro fogli uno alla volta, passandoli poi a sua moglie, si soffermò sull’ultimo più che sugli altri, quindi ebbe un sussulto, di scatto si voltò verso la figlia «Teresa, non può essere! Che cavolo è successo!»

    «Esattamente quello che hai letto, io stessa ho ricontrollato più e più volte, ma è tutto vero, so solo questo.»

    Capitolo tre

    Il licenziamento lo aveva colto alla sprovvista. In fin dei conti, considerato che fino ai diciotto anni studiava ancora e le sue mani erano levigate e soffici come quelle di una donna, aveva imparato presto il mestiere. In meno di tre anni aveva fatto progressi da gigante e non reputava esagerato dire che era un idraulico niente male, di certo migliore di quel bastardo di Lucio. Da tempo si era accorto che l’uomo provava invidia nei suoi confronti, sempre scortese, custodiva gelosamente i segreti del mestiere, temendo forse che Patrich l’avrebbe superato. Che dietro il licenziamento ci fosse anche lui? Questo ora non aveva importanza, domani la paga e per un po’ sarebbe stato tranquillo. Avrebbe avuto modo e tempo di fargliela pagare.

    Pedalando distrattamente si accorse di essersi spinto sino in Via del Pozzo, non molto distante da casa sua. Raramente aveva frequentato quella strada, una volta forse, gli parve di ricordare, c’era stato per una riparazione. Era certo però che lì vicino vi fosse una chiesa, non aveva più preso parte ad una funzione da quando si era trasferito in Italia. Un sentimento di inquietudine e sconforto si era insinuato in lui: trovare lavoro di nuovo non sarebbe stato facile. Pensò che pregare l’avrebbe aiutato. In Belgio la messa domenicale era un appuntamento fisso e negli anni il ricordo di quei momenti trascorsi con i genitori aveva iniziato ad essergli di conforto, la chiesa sembrava un ambiente sicuro.

    Specialmente suo padre, ancor più che sua madre, premeva perché non saltasse nemmeno una domenica, la ragione non gli fu mai chiara. Il padre sembrava attratto dalle funzioni religiose, sembravano essere una parte irrinunciabile della sua vita. Giunse dinanzi ad un incrocio, il cartello con sfondo marrone indicava un itinerario turistico ma il simbolo della croce era inconfondibile: da lì verso sinistra e si arrivava in chiesa. Alcuni minuti dopo vi era di fronte, una targa apposta su una piccola aiuola ne riportava il nome, Beata Vergine della salute. «Che scherzo del destino» pensò dentro di se. Ormai la pioggia era cessata, scendendo dalla bici si rese conto di essere fradicio, giunse dinanzi al portone socchiuso, questo si aprì sotto una spinta vigorosa, producendo un fastidioso cigolio ferroso. Fermo sull’uscio si guardò intorno: tutto era silenzio e pace, non vi era alcun fedele ma distingueva ai piedi dell’altare una figura, probabilmente il parroco, stava pregando in ginocchio. Entrò adagio per non disturbarlo e si avvicinò lentamente. Era incurante del luogo, la sua attenzione concentrata sull’uomo; senza un’apparente ragione ne cercava il volto, doveva guardarlo negli occhi. Arrivato a pochi centimetri realizzò di non sapere cosa dirgli, aspettava che fosse l’altro a fare la prima mossa e così accadde: il parroco si segnò alzandosi. Gli si rivolse con un sorriso.

    «Salve Patrich, benvenuto nella casa di Dio.»

    Il ragazzo fu colto dalla sorpresa e non rispose. Perché conosceva il suo nome? Ancor più lo incuriosì la piccola spilla che l’uomo portava sul petto. Evidentemente d’oro, l’oggetto rappresentava un animale di profilo, stranamente incurvato, come preso per la schiena. Le gambe iniziarono a tremargli e indietreggiò.

    «Ragazzo, stai bene? Mi sembri scosso! Sei qui per pregare o vuoi confessarti?»

    Patrich era ora nel panico, non comprendeva il perché ma in qualche modo quella figura lo condizionava, sembrava ricordargli qualcosa, qualcosa di importante che aveva completamente rimosso dalla memoria.

    «Io … niente padre. Volevo. . . volevo. . . cavolo, non lo so che volevo, non so nemmeno perché sono qui, mi scusi, vado via.»

    Mentre si avviava, il parroco lo trattenne delicatamente per un mano.

    «Forse ora non sai perché sei qui, ma dentro di te c’è la risposta, devi trovarla da solo e forse, ci rincontreremo, ma solo allora, Patrich, solo allora. Prima di quel momento non venire più qui, intesi?»

    Il giovane era confuso e dubbioso, di certo quel prete lo conosceva più di quanto immaginasse, non carpiva il senso di quelle parole.

    «Come ti chiami, prete?»

    «Questo non è un bel modo di rivolgersi ad un servo di Dio, comunque sono Stefano, Padre Stefano, piacere!»

    Patrich tacque, non era necessario si presentasse a sua volta. Fissò il marmo bianco e lucente, gli ricordava un altro luogo, di nuovo gli si presentò alla memoria un’immagine. Uscì in fretta, quasi spaventato. Era entrato in chiesa in cerca di conforto ma ne usciva più insicuro di prima. Cosa significava tutto ciò?

    Riprese la bici e iniziò a pedalare veloce, il sole si era fatto largo tra le fitte nubi, voleva tornare a casa. Subito. Aveva troppe domande a cui rispondere, forse la madre poteva aiutarlo. Il massiccio portone si richiuse con estrema lentezza, mentre il caratteristico cigolio ne accompagnava il moto. Padre Stefano osservava la luce proveniente dall’esterno ridursi pian piano fino ad esaurirsi con l’ultimo grosso tonfo del legno che impattava sul perno di ferro. Chiuse gli occhi ed emise un lieve sospiro. «Credo tu debba tornare in Belgio, ormai è solo questione di tempo, abbiamo innescato il dubbio nella sua mente, quel ragazzo di certo vorrà andare fino in fondo.»

    Si udirono passi svelti avanzare fino ad arrestarsi dietro una grossa colonna alle spalle del prete, nella penombra era impossibile osservare le fattezze dell’uomo.

    «Si, Stefano, credo proprio tu abbia fatto un buon lavoro. Non dobbiamo essere troppo incisivi con lui, se sente qualcosa deve avvicinarsi naturalmente. Per il resto concordo. Torno in Belgio, penso di dovermi aspettare una visita.»

    La figura si scoprì dirigendosi verso il parroco, quindi i due si strinsero forte le mani. «Spero tu sappia quello che fai Johan. Abbiamo bisogno assoluto di quel ragazzo, va protetto.»

    «Lascia fare a me. Tu che farai? Ormai qui non servi più.»

    «Vi raggiungerò presto. Ho ancora qualche anima da salvare qui, ho dato la mia parola.»

    «Ok, fa in fretta e vedi di non dare nell’occhio, ci vediamo.»

    «Si, ci vediamo, Johan.»

    Stefano si voltò nuovamente verso l’altare mentre osservava l’amico confondersi di nuovo con l’oscurità. Ancora una volta il cigolio riempì gli immensi spazi vuoti della chiesa ma Stefano non si voltò. Una ragazzina era entrata, sulla testa coperta parzialmente da una bandana colorata correvano sottili vene azzurre, profonde occhiaie le solcavano il viso.

    «Ciao, piccola, cosa posso fare per te?»

    Capitolo quattro

    «Capisci mamma, sembra incredibile ma Patrich è…guarito! Il tumore non c’è più, le analisi non mentono: a distanza di quattro anni le cellule tumorali sono regredite fino a scomparire è…un miracolo!»

    «Figlia mia, non dire corbellerie. I miracoli oggi non li fa più nemmeno il Signore, credo però che stavolta tuo marito ci sia andato vicino!»

    «Allora. . . la pensi come me? Vedi, ti dicevo che ci deve essere qualche motivo dietro la sua morte» concluse Teresa mentre si asciugava le lacrime.

    Riccardo si alzò dal tavolo, le sopracciglia corrucciate mentre passava ripetutamente le dita sul mento.

    «Matilde, siamo concreti, cosa ci costa ammetterlo? Lo hanno ammazzato! Tutto qui. Ha scoperto qualche cura miracolosa o non so che e per questo l’hanno ucciso.» «Riccardino, se anche fosse, perché sotto minaccia non avrebbe dato loro quello che cercavano? Tutti i suoi sforzi e i sacrifici economici per salvare il figlio avevano dato ormai i frutti sperati. Per quale ragione avrebbe dovuto nascondere la sua scoperta?» Teresa continuava a passare i palmi delle mani sulle palpebre facendole roteare, un leggero suono metallico si udiva da fuori. La porta si spalancò improvvisamente.

    «Ciao a tutti!» Patrich si espresse in un misto di ironia e perplessità.

    «Figliuolo, già di ritorno?» esclamò Riccardo che difficilmente si lasciava cogliere di sorpresa.

    «Che volete che vi dica? Mi ha licenziato, ok? Non chiedetemi altro, non so perché. . . tipo che aveva poco lavoro e le solite storie, semplicemente non gli servivo più, però tranquilli, mi troverò qualche altra cosa in giro ma oggi se permettete vorrei restare solo.»

    Patrich ammutolì di colpo osservando le cartelle sul tavolo, le conosceva benissimo e si era più volte chiesto che fine avessero fatto, soprattutto la quarta. Non aveva mai avuto modo di vederla.

    Tre anni prima, quando si era sottoposto per l’ultima volta alle analisi di controllo gli era stato riferito che non c’erano miglioramenti. Aveva preso atto di quella risposta, in fondo stava morendo, era solo questione di tempo e non gli fregava più di tanto sapere quanto ne avesse. Solo nei primi periodi dalla scoperta del tumore si era sottoposto a sedute di chemio, successivamente non gli erano stati prescritti farmaci di alcun genere, si era quindi convinto che lo stadio della malattia fosse così avanzato da rendere inutili e fatali i tentativi di curarla. Ciò nonostante il suo stato di salute era anomalo e lo sorprendeva, non si sentiva affatto debilitato e se non fosse stato per la consapevolezza della malattia avrebbe giurato di essere nel pieno vigore.

    «Mamma dove le avevi messe? Perché le hai tirate fuori? Smettila di fissarti, non si può fare niente, tu non puoi fare niente e comunque sto bene! Non so perché ma non mi sento malato!»

    Teresa osservò prima la madre, quindi il padre. Gli sguardi di entrambi parlavano chiaramente, bisognava dirgli come stavano le cose. Espose le quattro cartelle dinanzi al figlio, lo invitò a sedersi, quindi sospirò lentamente.

    «Patrich, ho da darti una bellissima notizia ma temo, anche una brutta. Credo di sapere perché tuo padre è morto, è solo un’ipotesi ma ritengo sia proprio quello che è accaduto. Io, noi, siamo sicuri che sia stato ucciso. Non so da chi, se lo sapessi…ma sento che lo hanno ammazzato.»

    Patrich inclinò il capo, una piccola lacrima cadde sul tavolo confondendosi tra le gocce di pioggia che i suoi abiti avevano liberato. Sperò fosse sfuggita ai presenti ma i loro sguardi erano fissi su di lui. La madre sapeva che ogni volta che si parlava di Marc, Patrich si rattristava e il volto diveniva quello di un uomo vissuto e consumato dalle tragedia di una vita intera. Teresa avrebbe evitato quel momento e l’avrebbe barattato con la sua stessa vita ma non poteva e non sapeva cos’altro fare. Patrich alzò lo sguardo al soffitto, serrò forte le labbra come spesso faceva quando la rabbia lo divorava, incurante degli altri iniziò a piangere copiosamente.

    «Mi manca, mamma… mi manca da morire. Mi mancano le sue carezze, mi manca quando mi teneva per mano in chiesa, mi manca quando mi aiutava a studiare. Io… ho pensato anch’io che l’avessero ammazzato, ma sono solo un ragazzo e…che ne so, mi metteva in guardia. . . mi avvisava di qualcosa.»

    «Cosa significa? Cosa significa che ti metteva in guardia? Patrich, guardami in faccia, c’è qualcosa che devo sapere, qualche cosa che hai dimenticato di dirmi! Di qualcosa!» urlò la madre incurante della sofferenza del figlio.

    Intervenne Matilde, accarezzò la mano del ragazzo e la strinse forte senza parlare, infine il ragazzo rispose.

    «Non incazzarti mamma, perché l’unico che deve incazzarsi qui sono io. Papà mi aveva detto che avrebbe fatto di tutto per salvarmi la vita. Disse che stava cercando la cura e che non importava quanto sarebbe costato ma che ci sarebbe riuscito. Mi disse che se nell’arco di qualche mese mi fossi sentito uguale, allora la sostanza che mi aveva iniettato sarebbe stata la mia salvezza. Aggiunse che per questa cosa che aveva fatto lo avrebbero perseguitato, ne era sicuro, era certo che qualcuno gliel’avrebbe fatta pagare ma non mi disse mai chi lo infastidiva.»

    Il giovane si alzò dal tavolo, lo sguardo era mutato e forse lo sarebbe stato per sempre.

    «Ora che so come stanno le cose, troverò chi lo ha ammazzato, stanne certa.» «Tu…tu. . . non farai un bel niente, mettiti a sedere, non abbiamo ancora finito!» Lo aggredì il nonno con una risolutezza che da decenni non tirava fuori. «Siamo tutti confusi e vorremmo spaccare il mondo ma cosa vorresti fare ora? Dove vorresti andare? Dobbiamo cercare di capire, giovanotto. La tua rabbia è comprensibile, ma non credere di essere l’unico ad averla. Perché lo pensi?»

    «Mi chiedi perché, nonno? Io sono guarito, solo adesso l’ho capito e tutto grazie a papà ma quando volevate dirmelo? Non ho mai chiesto di quelle fottute cartelle perché credevo mi dicessi la verità almeno tu mamma! Cosa ti sarebbe costato dire che ero guarito!» urlò in faccia alla donna in un misto di disperazione e odio.

    «Hai…pienamente ragione, piccolo mio. Ho sbagliato ma. . . avevo paura. Ho paura. Da un tumore non si guarisce, specie nel tuo caso. Era in metastasi, capisci? Qualsiasi specialista ti dava tra i cinque e i sette mesi di vita. Come potevo dirti che eri guarito? Come avrei potuto. . . illuderti? E se poi si fosse ripresentato? Se la cura di Marc non fosse stata definitiva? Solo ora a distanza di due anni e mezzo penso di aver capito quale straordinaria scoperta abbia fatto. Perché in tutto questo tempo tu sei stato sempre meglio, sei nel pieno della salute. Solo ora posso dire che sei davvero guarito.»

    «Sbagli ancora mamma! Tu dimentichi quante volte hai litigato con papà! Lo hai aggredito, gli hai detto che era un pazzo, che mi avrebbe ucciso, che non aveva rispetto per me e che non era un vero dottore. Ti ho sentito ogni volta di nascosto. Non ti sei mai resa conto di quanto gli facevi male, non lo hai mai visto mentre piangeva abbracciandomi. Non ti sei mai fidata di lui, non hai mai capito che dalle prime volte in cui mi estraeva il sangue io ero…già guarito. Io di lui mi fidavo ciecamente e per lui ho resistito a dolori allucinanti. Era mio padre e sapevo che mi avrebbe salvato ma tu non la pensavi così e ora parli perché il rimorso ti corrode. Perché non lo dici chiaramente? Dillo ai nonni che volevi lasciarlo? Avanti!»

    Il silenzio scese inesorabile. Il volto di Patrich era trasformato dalla rabbia e dall’odio. Non aveva mai detto frasi simili ma il rancore che serbava dentro era ormai un fiume in piena.

    «Mamma, tu hai le stesse colpe di chi lo ha ucciso. . . tu lo hai straziato nell’anima. Non ti posso perdonare! Non capire il gesto d’amore di papà ti rende un mostro. Ha dato la vita per me e se dovesse servire, sarò io a dare la mia per vendicarlo. Nessuno di voi potrà fermarmi. Nessuno può capirmi. Io sento ancora che è qui con me, in qualche modo lui c’è!»

    I genitori osservavano la figlia, increduli, attoniti.

    «Si, è vero. Cosa vuoi che dica? Credevo si sbagliasse e volevo lasciarlo. Pensavo che avresti potuto vivere quei pochi mesi in pace, invece di vederti soffrire mentre ti prelevava tutto quel sangue. Dicevo quelle cose solo per te, sei mio figlio!» concluse Teresa ormai stravolta.

    «E lui era tuo marito, l’uomo della tua vita!» ribatté calmo il ragazzo, mentre saliva lentamente le scale.

    Capitolo cinque

    Cercava un piccolo locale ormai da due settimane ma trovare qualcosa di accessibile era praticamente un’impresa. Gli affitti di Modena erano proibitivi per i giovani, specie se alle prime armi con il lavoro ma Sara amava troppo il suo. Aveva sognato quella laurea sin da ragazzina e voleva intraprendere la difficile carriera di psicologa. Lo avrebbe fatto a qualsiasi costo. La mente umana l’affascinava e ne aveva approfondito gli aspetti più reconditi, conoscerla il più possibile le avrebbe permesso di aiutare molte persone. Il cellulare improvvisamente squillò. Chissà, magari gli annunci su Facebook iniziavano a dare frutti e i primi clienti la stavano contattando. Le mancava ancora uno studio, ma se si fosse trattato di una richiesta pur di esercitare avrebbe accolto il paziente in casa sua.

    «Salve sono la dottoressa Sara Tevoli, come posso aiutarla?»

    «Sara, ciao sono Patrich. Mi riconosci?»

    «Patrich? Ma questo numero è un altro? Quando l’hai cambiato?»

    «Poi ti spiego. Avrei bisogno di un favore, ecco, posso stare da te per un po’?»

    «Che? Ma sei fuori, che hai combinato stavolta? E chi la sente Teresa?»

    «Sara ti prego. Questa volta è difficile, non penso di tornarci a casa, ma mi serve che mi ospiti, non sarà per molto, non so dove andare.»

    Sara ascoltò le suppliche di Patrich e comprese dal tono di voce che qualcosa di serio era successo. Era diverso dal solito, il timbro era spento e rassegnato, non era mai così.

    «Ok, ma guarda che c’è sempre il solito divano, quello dell’altra volta, per una notte può andare ma se intendi restare poi non rompere se è scomodo!»

    Solitamente Patrich rispondeva con una battuta ma questa volta non disse nulla, Sara comprese che la sua mente era altrove, rimase in attesa. Troppo tardi, aveva messo giù. Si affrettò certa di trovare l’amico già ad aspettarla. Un passante attento, osservando l’andatura veloce e decisa ne avrebbe intuito il carattere: risoluto e determinato. Sara era così in tutto. All’età di ventinove anni le mancava solo l’amore e le esperienze vissute le avevano fatto maturare l’idea che degli uomini poteva fare a meno, ormai ne leggeva le intenzioni ancor prima di stringer loro la mano. Solo una cosa veniva prima della carriera, i suoi genitori. Da quando non viveva più con loro evitava di disturbarli rispettandone la privacy, quel piccolo appartamento era il regalo di laurea. Mantenerlo però non doveva esser facile, ma la tenacia non le mancava, si dava da fare impartendo ripetizioni regolarmente. Ora, l’arrivo di Patrich la metteva in soggezione. Era un bel ragazzo, atletico e riservato, come piacevano a lei ma quei nove anni di differenza e la situazione famigliare non proprio rosea erano un freno che non riusciva a ignorare. Per altro lui, non sembrava ricambiarla. Non poteva negarlo a se stessa, provava chiaramente qualcosa nei suoi confronti. Comunque la priorità era adesso di aiutarlo. Entrò in ascensore, pigiò il pulsante con il numero quattro e salì. La porta automatica apriva davanti al suo portone. Osservando la targhetta portanome ancora vuota pensò che presto avrebbe recato la scritta Dott. sa Sara Tevoli. Entrò in casa, non vi era particolare disordine, aprì il frigo quasi vuoto, fece perciò un veloce elenco di cose che sapeva piacere a Patrich. Un lieve rossore ne colorò le guance, ricordò di aver lasciato della biancheria sulla lavatrice, teneva in modo particolare alla sfera intima. Lo specchio rifletteva una ragazza mora, occhi scuri, labbra sottili, un volto sensuale, pelle levigata e corpo asciutto, statura media. Malgrado la sua avvenenza, difficilmente riusciva a relazionarsi con l’altro sesso. Questa era la sua unica insicurezza. Chissà, magari sarebbe stata la volta buona, con un amico sarebbe stato più semplice, Patrich avrebbe potuto aiutarla, forse l’avrebbe contraccambiata. Pensò di potergli accennare qualcosa a riguardo, forse avrebbe cercato di farglielo capire, o forse no, il momento non era quello adatto, si domandò cosa gli fosse accaduto di così drammatico.

    Capitolo sei

    Disteso sul letto fissava il soffitto, incurante indossava ancora gli abiti fradici, non aveva voglia di cambiarsi, immerso nei suoi pensieri non sentiva freddo, non sentiva più nulla. Chiuse gli occhi. Ripensò alle frasi dette poco prima alla madre, le trovava brutali, crude. Se le era portate dentro per lunghissimo tempo, poi d’impeto le aveva liberate. In cuor suo era convinto che Teresa fosse nel torto e che in parte la colpa degli eventi fosse anche sua. Non certamente la morte ma sapere che fino all’ultimo respiro il padre era solo, che da tempo aveva smesso di ascoltarlo, che l’aveva abbandonato, per questo non la poteva perdonare. Sentì che il legame con la madre era ormai inclinato, prendere le distanze era forse la migliore soluzione, avrebbe giovato ad entrambi. Un’immagine sfocata gli si presentò alla mente, pian piano la mise a fuoco: la piccola spilla dorata si insidiava ancora nei suoi pensieri e stavolta dietro di essa scorse qualcosa, qualcuno, un volto di cui non distingueva i lineamenti. Un busto. Un quadro. No, un ritratto, ne era certo. Aprì gli occhi, sbatté ripetutamente le palpebre, guardò fuori dalla finestra, era ancora giorno, quindi controllò l’ora, le due e quarantatré minuti. Doveva sentirsi proprio distrutto, a pensarci bene quella sveglia la guardava solo la mattina presto e sempre allo stesso orario, per un attimo sorrise; dopo tanto si era preso la sua piccola rivincita contro quella canaglia elettronica. Si girò sul letto, i muscoli pesanti e rigidi, sollevò il capo e fissò l’immagine del padre.

    «Ok papà, sono stato duro con mamma, lo so, ma non temere, le voglio bene e ti ho promesso che l’avrei protetta. Adesso starà un po’ da sola, vedrai non le farà male.» Si spogliò velocemente, entrò in bagno, una rapida doccia, quindi si vestì indossando il primo paio di jeans e una camicia a maniche lunghe che aveva trovato nell’armadio. Prese la grossa valigia, ormai impolverata e vi stipò tutti i vestiti che poté. Prima di chiuderla pensò di nuovo al padre e alla sua foto. Il vetro si sarebbe certamente rotto durante il viaggio. Decise di portare con se soltanto l’immagine. L’estrasse, sul retro una scritta, aveva scattato lui la foto su richiesta del padre, due giorni prima che morisse. Di nuovo un ricordo gli tornò alla mente, il padre aveva preso l’immagine uscita dalla polaroid, l’aveva voltata e vi aveva scritto qualcosa.

    Riponendola nel portafoto gli aveva detto «Prometti di tenerla sempre con te, anche se mi dovesse accadere qualcosa di brutto. Promettimelo.» Aveva mantenuto quella promessa. Con il fiato sospeso lesse Amici miei, ho la certez— Qualcuno alla porta lo interruppe.

    «Chi è?» Disse Patrich mantenendo un tono di voce sommesso.

    «Sono il nonno, apri questa porta o la butto a terra!»

    Riccardo era sempre il solito. Rude e dalle maniere spicce, proprio come un vecchio poliziotto. Ma Patrich gli voleva un gran bene, per quanto non si dimostrassero affetto con abbracci, suo nonno era sempre lì nel momento del bisogno, nel cercargli un lavoro, nel farlo integrare con i ragazzi del quartiere. Riccardo gli aveva insegnato molto della vita, soprattutto a crescere in fretta senza piangersi addosso e a non fidarsi mai, mai di nessuno.

    «Nonno, guarda che è aperta, puoi entrare.»

    Il vecchio aprì lentamente la porta, vide la valigia pronta mentre il nipote la chiudeva. «Quindi hai deciso? Questo è quello che vuoi fare? Farti un giro in Belgio?» «Nonno, inutile che parli, non cercate di convincermi, devo andare lì e ci devo andare adesso. C’è qualcosa che sento di dover sistemare. Tu però non preoccuparti, ok? Per un po’ starò da Sara e magari vi faccio uno squillo prima di partire.»

    «Ragazzo, non voglio proprio fermarti. Anzi, se devo essere sincero, io credo che avrei fatto lo stesso.»

    L’uomo si portò alla finestra. Patrich rimase estremamente sorpreso e compiaciuto, per la prima volta il nonno era in accordo con lui.

    «Nessuno può immaginare quello che hai passato e quanto ancora stai soffrendo. Anche se credo che me ne pentirò, prendi questa, spero tu sappia cosa fare in caso di pericolo.»

    Patrich strabuzzò gli occhi. La calibro nove regolarmente denunciata dal nonno, tenuta sotto chiave e custodita gelosamente era nelle mani del vecchio. Sapeva usarla, era la prima cosa che gli aveva insegnato giunto in Italia. Da allora almeno due volte al mese si esercitavano al poligono ed era diventato discretamente bravo.

    «Ma, nonno, io non vado ad ammazzare nessuno! Cosa me ne faccio di quella!» «Zitto, delinquente! Non lo faccio per te, ma per tuo padre. Anch’io non sono stato completamente sincero, né con te, né con mia figlia. Marc telefonò qui circa tre anni fa e mi disse che era preoccupato perché sentiva

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