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Storia di Ernesto Marino Attilio Salvacore tra capelli e cappelli
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E-book187 pagine2 ore

Storia di Ernesto Marino Attilio Salvacore tra capelli e cappelli

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Info su questo ebook

Quale valore può avere un solo, singolo capello? E può forse il manifestarsi della calvizie stravolgere la nostra realtà? Per Ernesto Marino Attilio Salvacore, un serio e riservato avvocato impiegato presso una compagnia assicurativa, succede proprio questo: la perdita dell’ultimo dei suoi capelli lo precipita in un nero baratro esistenziale, in cui sembrano perdute identità e dignità personali.

Un po’ di psicanalisi, l’incontro con improbabili e insoliti amici, un viaggio tragicomico nei lontani mari del Sud, e soprattutto molta voglia di riscatto, porteranno Ernesto a una profonda revisione di sé e della sua vita, e alla scoperta di orizzonti di insperata sublimazione.

Una storia per divertirsi e, un pochino, riflettere.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2016
ISBN9786050449389
Storia di Ernesto Marino Attilio Salvacore tra capelli e cappelli

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    Anteprima del libro

    Storia di Ernesto Marino Attilio Salvacore tra capelli e cappelli - Ivana Gianmoena

    epilogo…)

    1. L’inizio della fine

    Fu proprio quella mattina che Ernesto perse il suo ultimo capello.

    Successe in modo dolce, indolore, quasi segretamente, perché un capello, per quanto unico e insostituibile possa essere, ha in sé così poco peso e un corpo talmente minuto, da provocare al suo cadere un rumore e una sensazione pressoché nulli. Ma, per Ernesto, quel niente dell’universo sonoro ebbe, nel colore e nell’identità delle sue giornate, un’importanza e un valore incalcolabili.

    Non v’erano stati segni premonitori, né sintomi o sospetti di nessun genere. La sera prima, come tutte le sere da molti e molti anni, Ernesto, sazio della cena e del riposo del dopo cena, assolti tutti i doveri e raggiunta finalmente l’ora della meditazione e della dolcezza, si era preparato a celebrare il suo rito quotidiano nella camera da letto. Era, questa, la parte che preferiva della sua elegante e confortevole abitazione, la più profonda e segreta. Egli era infatti convinto che gli atti più intimi e sacri della cura personale, quelli che, al di là delle tediose, scialbe e scontate espletazioni fisiologiche, garantiscono elevatezza e definizione alla persona umana, non dovessero avvenire nel luogo deputato all’igiene e alla pulizia, così prosaico e volgare, ma meritassero spazi di valore e decoro adeguati. Per dare giusta cornice al momento centrale del giorno aveva così fatto collocare nella sua stanza, oltre ai soliti mobili, un grande specchio levigato, una lampada di vetro soffiato e un prezioso tappeto bianco.

    Anche quella volta, come sempre, si era posto a piedi nudi sul tappeto, godendo della sua morbidezza serica e calda. Nel consueto silenzio sacrale, aveva proteso il capo al fascio luminoso che sgorgava dalla lampada e la luce era scivolata teneramente sulla pelle lucida e rosea del cranio: nel chiarore spiccavano, messe a nudo, la certezza, l’essenzialità, la potenza, l’immensità di quell’unico perfetto capello.

    Sorridendo quieto all’immagine riflessa, Ernesto aveva preso la spazzola e massaggiato vigorosamente il cuoio capelluto, con movimenti concentrici precisi e calcolati; era quindi passato alle frizioni con un unguento nutriente e profumato di purificanti essenze. Infine si era concesso il piacere che costituiva il punto d’arrivo delle sue giornate: aveva poggiato i palmi delle mani calde e odorose sulla fronte e le aveva lentamente fatte scorrere fino alla nuca; poi aveva chiuso il suo capello tra il dito medio e l’indice, come in un abbraccio, e ve lo aveva fatto scivolare per l’intera lunghezza del fusto: più e più volte ancora. Lo sentiva elastico, corposo, così concreto e saldo!

    Poiché era già molto tardi, non aveva indugiato troppo a lungo in quel godimento e si era coricato in fretta: il giorno successivo sarebbe stato pieno di impegni ed egli voleva arrivarvi riposato e in forze. Si addormentò subito, nella frescura delle lenzuola, per una notte senza sogni. Se solo avesse potuto sapere, supporre, prevedere! Ma così accade mille e mille volte, che noi gustiamo appena il sapore di quegli atti quotidiani che pure sappiamo essere importanti, nell’idea che saranno sempre lì, nei nostri giorni, a ripetersi per il nostro piacere all’infinito, e non mettiamo in dubbio la loro stabilità. E il loro svanire, improvviso e crudele, ci sorprende, attoniti e straniti, e ci spalanca inesorabile le porte del rimpianto.

    Quando aveva aperto gli occhi il mattino seguente, al suono della sveglia, aveva sconsideratamente sfregato le mani sul viso dove un’ombra di polvere − così aveva creduto − lo solleticava fastidiosamente, forse un filo di seta, forse l’impronta di una piega del cuscino; poi aveva stretto forte le dita a pugno per stirarsi in tutto il corpo e scuotere il torpore della notte. Si era alzato a sedere e con la destra aveva acceso la lampada del comodino per sbirciare l’ora sul quadrante dell’orologio. Solo allora, con lo sguardo ancora un po’ miope di sonno, aveva percepito quella sottilissima linea dorata sul dorso della mano. Il cuore aveva dato un doloroso sobbalzo: aveva colto, più rapido e sicuro del pensiero, la verità agghiacciante.

    Stritolato in una morsa d’angoscia, Ernesto aveva avvicinato la mano al volto e, tremando fin nel profondo di sé, aveva soffiato dolcemente: la linea aveva avuto un fremito, poi si era distaccata dalla pelle calda e leggermente umida e si era abbandonata sul lenzuolo che ancora lo avvolgeva. Inorridito, con il gelo nel cuore e il vuoto nella mente, aveva serrato gli occhi e la bocca nelle mani, stringendo forte per non urlare la sua disperazione e poi, singhiozzando convulsamente, era crollato in avanti tastando frenetico. L’aveva trovato: un biondo, sottile, leggerissimo capello. Il suo. L’ultimo. Era caduto, aveva abbandonato per sempre la feconda culla dell’epitelio e niente mai avrebbe potuto farvelo rientrare.

    Ernesto lo guardava, posato sul palmo, attraverso il velo delle lacrime. Si fece forza e, proteggendo il capello nella calda alcova dei palmi, barcollò fuori dal letto fino allo specchio. Si guardò, nella luce fredda del mattino che irradiava indifferente dalla finestra: scorse rapidamente il piccolo corpo grassoccio vestito dell’elegante pigiama, le mani chiuse a cofano, il volto gonfio di dolore e smarrimento, e si arrestò sul capo. Vedeva l’assenza. La mancanza. Il vuoto. Con un relitto di speranza nell’animo, posò il capello sul piano della cassettiera e provò a palpare delicatamente la pelle del cranio: la trovò desolatamente morbida, liscia, uniforme. Niente pungeva, niente ne emergeva. L’aveva perduto. Ora era calvo.

    L’enormità del fatto lo investì con una violenza quasi intollerabile: per lunghi minuti rimase lì, fermo, immobile. Dentro, nel profondo, si agitavano i neri vortici del suo dolore. Squillò il telefono ed egli, infine, si scosse. Come un automa raggiunse la consolle nell’entrata di casa: sollevò il ricevitore e lasciò che il fiume di parole concitate che ne sgorgava gli si riversasse dentro l’orecchio. Balbettò meccanicamente una vaga risposta e riagganciò senza sapere di cosa e come avesse parlato. Poi si lasciò lentamente scivolare sul pavimento, si rannicchiò e chiuse gli occhi.

    Un’ora dopo una nuova telefonata lo strappò da un sogno che lo vedeva dondolarsi e volteggiare, ridente e spensierato, su un trapezio sorretto da una corda di lunghissimi capelli intrecciati. Questa volta un barlume di coscienza lo attraversò: lo stavano aspettando da ore, alla Società Assicuratrice Certezza e Verità: era il giorno della chiusura di una pratica, che aveva impegnato l’intero studio assicurativo per oltre un anno. Improvvisamente attivo, Ernesto corse alla valigetta porta documenti appoggiata sul tavolino accanto al portoncino, ne controllò affannosamente il contenuto e alzò poi gli occhi alla pendola, che scandiva la sua monotona danza sulla parete.

    «Le dieci!» sussultò orripilato. Aveva meno di un’ora per essere sul posto. Impedendosi di pensare a null’altro se non alla pura e semplice successione delle azioni da compiere, si lavò, si rase e si vestì; fu solo al momento di infilare il cappotto che si bloccò nuovamente:

    «Mio Dio, ma come posso uscire così?»

    L’idea della sua nuova, sconfinata nudità lo riafferrò. Con il cuore in tumulto e la consapevolezza del volatilizzarsi del tempo a sua disposizione, cercò una possibile e dignitosa soluzione: non possedeva cappelli, poiché aveva sempre pensato che la cute del capo dovesse respirare libera e godere dell’aria e della luce circostanti; sapeva che non gli avrebbero permesso di partecipare alla riunione programmata vestito con il cappuccio e la mantella da pioggia, di cui si serviva solo in casi di eccezionale maltempo; non gli pareva adatto all’importanza dell’occasione nemmeno il casco da motociclista, che conservava dall’età dell’adolescenziale motorino. Che fare allora?

    Tornò in bagno e, dopo una lunga riflessione davanti allo specchio, si decise: estrasse dall’armadio della biancheria un telo da bagno in spugna particolarmente ampio e, con meticolosa cura, se lo acconciò a turbante. Con occhio critico studiò l’effetto: una sorta di morbida, enorme meringa rosa-conchiglia avvolgeva e sovrastava il viso pallido e pensieroso. Ne tastò la consistenza, strinse ancora un poco le spire e si accertò che la fronte e le orecchie rimanessero libere e senza rughe di compressione. Quando infine aprì la porta di casa e si ritrovò sul pianerottolo, era ben consapevole che aveva solo tamponato malamente il suo problema e che avrebbe dovuto confrontarsi ben più duramente con lo sconvolgimento esistenziale che lo aveva colpito, ma nonostante tutto il dovere lo chiamava e, coraggiosamente, scese le scale, attraversò l’atrio e uscì in strada.

    Camminando a passetti rapidi verso lo studio, Ernesto tentava di non prestare attenzione agli sguardi increduli dei passanti che, data l’ora e la posizione centrale del quartiere in cui risiedeva e lavorava, affollavano il marciapiede.

    Stupidi urlava dentro di sé. Stupidi e insensibili! Ho perso il mio capello: come possono ridere così? Come possono non capire? Si fermò, dopo qualche minuto, davanti a una libreria, per riprendere fiato e per sbirciare la sua immagine riflessa nella vetrina. Lo vedono, lo vedono di certo, che vergogna!

    Incapace di proseguire, chiamò con la mano un taxi che passava e vi si rifugiò come un animale ferito nel fondo della tana. Mentre l’auto correva nel traffico, Ernesto tentò di ricomporsi: aggiustò a tentoni il turbante che sfiorava il soffitto dell’abitacolo, si deterse il sudore dalla fronte e dalle mani, si impose lunghi e sonori respiri e provò a pensare al lavoro che lo attendeva. La mente, insubordinata, gli sfuggiva. Il taxista cercò inutilmente di intavolare una breve conversazione: divertito ma avvezzo a ogni stranezza dei suoi clienti, dovette accontentarsi di sbirciare dallo specchietto retrovisore.

    Raggiunta la meta, Ernesto scivolò fuori dal taxi verso l’entrata del palazzo in cui si trovava il suo ufficio. Sempre più affaticato e tentennante passò davanti alla ricezionista, il cui saluto si spezzò a metà, perdendosi in un silenzio imbarazzato e denso di domande inespresse. Le ante dell’ascensore gli si aprirono accoglienti: l’interno era vuoto ed egli respirò, finalmente solo.

    Forse non è così evidente, non ancora… mormorò guardandosi allo specchio. La figura che gli ritornò, confusa dalle lacrime, era purtroppo una severa, durissima risposta.

    L’ascensore si fermò e la porta si spalancò: deglutendo a fatica, si gettò nel frenetico flusso di impiegati che gremivano il corridoio. Puntava a una nuova porta, quella della sala riunioni che brillava sulla parete al fondo, ma si rendeva conto che, mano a mano che avanzava, le persone ammutolivano e i loro occhi lo trafiggevano crudelmente. Gli parve persino di udire qualche risatina repressa e sciocche, inopportune parole, che accennavano a possibili e improvvise turbe mentali. Raggiunse la porta e si aggrappò alla maniglia per non cadere. Non ebbe però il tempo di premerla ed entrare: una mano molto ferma gli si posò sulla spalla e una voce gli sibilò, sottile, all’orecchio:

    «Dottor Salvacore, se volesse seguirmi un momento…»

    La mano, salda e autorevole, lo sospinse verso l’ufficio della dirigenza senza che egli vi si opponesse e lo lasciò solo quando non si ritrovò seduto davanti alla scrivania. Un istante dopo il dottor Corsari, direttore della sezione Furti veri o falsi di opere d’arte della compagnia e suo diretto principale, prese posto sulla sua poltrona e, ansimando di rabbia repressa, lo apostrofò:

    «Cosa sta facendo, Salvacore, è forse impazzito?»

    «Sono desolato, desolato davvero, dottore, non mi era mai capitato un ritardo in tanti anni, pensare che oggi è un giorno così… importante per la società…» sussurrò con il respiro spezzato Ernesto Marino Attilio Salvacore, poiché questo era il suo nome completo, tentando di assumere un’espressione contrita e disponibile nello stesso tempo.

    «Non mi sto riferendo al ritardo, Salvacore, anche se l’aspettavamo qui quattro ore fa, no di certo, ma a questa… questa sua presentazione…» ribatté con voce via via più sonora il direttore. «Sconveniente, potremmo definirla, non crede? Non pensava veramente di entrare di là, con i nostri clienti, in quelle condizioni?»

    «Ma dottore, non capisce, non posso cambiare lo stato delle cose!» rispose Ernesto con crescente angoscia. «Vorrei, vorrei con tutto me stesso, come può supporre che non lo desideri? È così terribilmente umiliante! Ma come potrei?»

    «Di che cosa parla, Salvacore? Sta forse delirando? Cosa significa che non può? Si levi immediatamente quell’assurda cosa dalla testa e si spicci a raggiungere gli altri!»

    «Quale… quale cosa? Io…»

    La mano destra del dottor Corsari si abbatté con violenza sul piano della scrivania: il colpo ebbe il duplice effetto di zittire il balbettìo di Salvacore e riportare il dolorante direttore a un comportamento più controllato.

    «Dottor Salvacore, c’è forse qualcosa che la disturba?» si impose di chiedere con uno sforzo di cortesia, mentre si massaggiava il palmo formicolante.

    Ernesto chinò il capo, facendo pencolare pericolosamente il roseo copricapo: il momento era arrivato. Avrebbe, per la prima di molte volte, dovuto spiegare e mostrare la sua sciagura. Si fece forza:

    «È stato tutto così improvviso… vede… non c’ero preparato. Lo choc è stato fortissimo… Una specie di lutto, un terribile lutto…»

    Il dottor Corsari, assunta all’istante un’espressione sollecita e lievemente mortificata, si alzò dalla scrivania e gli tese le mani:

    «Oh, ma mi dispiace, non sapevo… A dire il vero, non ero a conoscenza del fatto che avesse legami, credevo… Ma questo non importa, mi scusi, mi dica invece, mi dica…»

    «Dev’essere successo questa notte» prese a narrare Ernesto, confortato dal cambiamento di Corsari e dalla premura che gli mostrava. «Io dormivo, e tranquillamente anche. Non mi sono accorto di nulla, di nulla, pensi, fino al risveglio stamane: ho aperto gli occhi sereno, come avrei potuto pensare? Lui era lì, accanto a me… Non c’era più nulla da fare!» Sopraffatto, nascose il volto tra le mani ma riuscì, pochi attimi dopo, a continuare. «Ne avevo moltissimi una volta, sa? Bellissimi, devo dire, di una magnifica corposità: adoravo accarezzarli, sembrava che dovessero durare in eterno! Se ne sono andati uno dopo l’altro: lui era l’ultimo, il più caro, il

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