Ecologia Decrescita Dispositivo
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Info su questo ebook
Con un intervento di Serge Latouche
a cura di Stefano Righetti
A cura di Manlio Iofrida
Gli autori: Prisca Amoroso, Andrea Angelini, Valentina Antoniol, Stefano Berni, Gianluca De Fazio, Roberto Esposito, Ubaldo Fadini, Alfonso M. Iacono, Manlio Iofrida, Serge Latouche, Francesco Marchesi, Igor Pelgreffi, Stefano Righetti
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Anteprima del libro
Ecologia Decrescita Dispositivo - Officine Filosofiche
OFFICINE FILOSOFICHE
Officine Filosofiche
è una collana in cui vengono pubblicati i lavori del gruppo di ricerca omonimo, attivo a Bologna dal 2008 e composto da studiosi di varie Università e discipline e da studiosi indipendenti. I temi di ricerca su cui il gruppo si muove sono dati dalla convergenza fra due tradizioni filosofiche in genere fra loro separate: da un lato quella della filosofia francese contemporanea, a partire da Sartre e Merleau-Ponty fino a Deleuze e Foucault; dall’altro, i filoni tedeschi della Scuola di Francoforte (Adorno e Benjamin specialmente) e dell’antropologia filosofica (Scheler, Gehlen, Plessner); sullo sfondo, anche il riferimento ad alcune correnti della tradizione marxista (marxismo esistenzialistico, tradizione operaista). Questo insieme di riferimenti si concentra in particolare sui temi dell’ecologia e della tecnica.
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© STEM Mucchi Editore s.r.l.
Via Emilia Est, 1741 - 41122 Modena
www.mucchieditore.it
info@mucchieditore.it
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twitter.com/mucchieditore
instagram.com/mucchi_editore
Edizione digitale: dicembre 2020
Produzione digitale: Mucchi Editore
ISBN: 978-88-7000-874-6
OFFICINE FILOSOFICHE
Collana di filosofia
Coordinamento scientifico:
Stefano Berni, Ubaldo Fadini, Stéphane Haber, Manlio Iofrida, Stefano Righetti
Comitato di redazione:
Prisca Amoroso, Andrea Angelini, Silvano Cacciari, Gianluca De Fazio, Marco Della Greca, Alessandro Dondi, Ivano Gorzanelli, Claudia Landolfi, Francesco Marchesi, Diego Melegari, Igor Pelgreffi, Benedetta Piazzesi, Katia Rossi, Andrea Sartini, Matteo Villa, Caterina Zanfi
Segreteria di redazione:
Prisca Amoroso, Andrea Angelini, Gianluca De Fazio, Alessandro Dondi, Marco Tronconi
Direttore:
Manlio Iofrida
Università di Bologna, Dipartimento di Filosofia e Comunicazione, via Zamboni 38 – 40126 Bologna
e-mail: manlio.iofrida@unibo.it
officinefilosofiche.it
Indice
Collana
Colophon
Comitato
Presentazione di Manlio Iofrida
Sezione I - Ecologica
Introduzione a Lavoro e decrescita: una doppia sfida
- di Stefano Righetti
Lavoro e decrescita: una doppia sfida - di Serge Latouche
Sezione II - Sul dispositivo
Dispositivo.Una storia del presente - di Francesco Marchesi
Sul concetto di dispositivo - di Alfonso M. Iacono
Il dispositivo della persona - Roberto Esposito
Le crepe del sistema
. Saggio sulla dialettica del positivo e del vivente - di Ubaldo Fadini
Dal campo trascendentale al dispositivo. Foucault e la ricerca del concreto tra esistenzialismo e post-strutturalismo - di Andrea Angelini
Struttura o dispositivo. Politiche della diacronia - di Francesco Marchesi
La rappresentazione del potere in Schmitt e Foucault - di Stefano Berni
La guerra come dispositivo: un percorso a partire da Michel Foucault e Carl Schmitt - di Valentina Antoniol
Spielraum: tra corporeità, dispositivi e linee di fuga - di Prisca Amoroso e Gianluca De Fazio
Il dispositivo dell’automatismo. Annotazioni per un’etica della corporeità - di Igor Pelgreffi
Sezione III - Qualche libro recente
Ubaldo Fadini, Il tempo delle istituzioni. Percorsi nella contemporaneità: politica e pratiche sociali, ombre corte, Verona, 2016 - di Stefano Righetti
Roberto Esposito, Da fuori. Una filosofia per l’Europa, Einaudi, Torino, 2016 - di Francesco Marchesi
Alfonso M. Iacono, The History and Theory of Fetishism, Palgrave Macmillan, London, 2016, traduzione di V. Tchernichova e M. Boria - di Nicola Lorenzetti
Marcello Musto, L’ultimo Marx (1881-1883). Saggio di biografia intellettuale, Donzelli, Roma, 2016 - di Chiara De Cosmo
Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli (edited by), Foucault and the Making of Subjects, Rowman & Littlefield, London-New York, 2016 - di Valentina Antoniol
Manlio Iofrida
Presentazione
Il quarto volume di Officine Filosofiche è articolato in due sezioni: nella prima, ospitiamo un importante saggio di Serge Latouche, scritto appositamente per noi, sul tema della decrescita; nella seconda, pubblichiamo gli atti del convegno sul concetto di dispositivo che, organizzato da Officine Filosofiche, secondo un progetto ideato e messo in atto da Francesco Marchesi, si è tenuto a Pisa nel 2016. Introduciamo dunque dei temi in parte nuovi e lo facciamo associando due filoni – quello ecologico e quello post-strutturalistico – che possono parere eterogenei: di entrambi questi fatti è opportuno dare una giustificazione, dato che corrispondono a una diversa inflessione che ha preso la nostra ricerca gi à dal numero precedente, che si intitolava Emergenza ecologica Alienazione Lavoro . Proprio negli ultimissimi anni, in particolare a partire dal 2014, è emersa nel gruppo la consapevolezza del fatto che la situazione politica, culturale, filosofica imponesse una svolta, una discontinuit à , dovuta alla presa d’atto che il duplice riferimento a una certa batteria tedesca da un lato, a Deleuze, Foucault, Derrida dall’altro avesse fatto il suo tempo: in particolare, ci è parso chiaro quanto fosse necessario uscire dall’alternativa Nietzsche-Heidegger, che ha così pesantemente condizionato gli orizzonti culturali internazionali, e italiani in particolare, degli ultimi trent’anni. Del resto, l’esigenza di questo distacco da una configurazione ormai logora era gi à tutta nel nostro ostinato riferirci al pensiero di Merleau-Ponty: siamo ora più consapevoli di cosa volesse significare questo attaccamento a un autore così inattuale, almeno per gli aspetti che noi ne abbiamo sempre ripreso.
Ma questo positivamente cosa significa? Significa che, senza dogmatismi, senza ritorni indietro a posizioni definitivamente superate, noi abbiamo ritenuto che la nostra batteria filosofica dovesse aprirsi a temi e autori che più chiaramente ci dessero gli strumenti per pensare a una critica, non dogmatica e non ideologica, del capitalismo; dirò ancora più chiaramente: non ci basta più criticare il capitalismo attraverso concetti indiretti e un po’ neutri come l’archeologia o la genealogia, o come la deterritorializzazione o i vari momenti del minore
o del macchinico in Deleuze e Guattari: tale critica va condotta affrontando in modo diretto e esplicito una serie di temi e problemi squisitamente economici, come quello del lavoro e dell’impresa, o come quello della tecnologia, che con l’economia ha dei nessi strettissimi. Questo ha significato anche che sui nostri orizzonti sono sorte delle stelle nuove: Ubaldo Fadini ha cominciato a riferirsi al suo Benjamin, che non ha certo scoperto ora, in maniera diversa e con un significato più pregnante; altri hanno cominciato a parlare di Marcuse; per chi scrive, in particolare, il riferimento a Merleau-Ponty si è caricato dell’esigenza di connetterlo ancor più strettamente che in passato alla lezione dei francofortesi (che insomma ci sembrano oggi gli autori più vivi e attuali), Benjamin, Marcuse, Adorno: in sostanza sto dicendo che, attraverso questi filtri assolutamente antistalinisti e antidogmatici, abbiamo cominciato a riparlare di Marx. E quindi si è accentuata in noi la consapevolezza del significato specifico, originale che ha per noi il tema dell’ecologia: essa va distinta dalla generica tematica ambientalista che sfocia nella produzione compatibile; e anche dalle ricerche scientifiche, certo importanti, che vanno sotto l’etichetta dell’ ecologia, ma che non affrontano il nodo essenziale della questione, che è quello di un certo modo di produzione e di un certo tipo di tecnica che hanno nell’Occidente le loro radici.
Un discorso ecologico all’altezza della situazione attuale deve inserirsi nel quadro di una critica di ampio respiro del modello occidentale e quindi non può che essere al tempo stesso decisamente politico e decisamente filosofico – le due cose si legano strettamente, perché solo la filosofia ha le forze e le competenze per compiere questa critica di ampio respiro. Insomma, in questi ultimi anni ci si è fatta più chiara l’esigenza di mettere a fuoco la specificità del nesso fra discorso ecologico e critica del capitalismo, un nesso che di per sé ormai ha una lunga tradizione, ma di cui bisogna mettere a fuoco in modo preciso le implicazioni e le modalità; nello stesso tempo, questo ha significato un lavoro critico sempre più attento sul termine e sul concetto di ecologia
, le cui ambiguità filosofiche e politiche si rivelano ai nostri occhi sempre più gravi.
Siamo dunque particolarmente onorati di ospitare il saggio di Serge Latouche, presentato e tradotto da Stefano Righetti: si tratta, come già accennavo, di un contributo originale che l’autore ha composto per il nostro volume ed esso è per noi un’espressione particolarmente efficace della nuova direzione che intendiamo imprimere al nostro lavoro, pur nella assoluta autonomia dell’autore, che non ha fatto che sviluppare una linea di ricerca da lui inaugurata da lunghissimo tempo, con una serie di contributi che costituiscono delle pietre miliari in questo campo.
Colpisce, nel saggio, innanzitutto la radicalità della posizione di Latouche, radicalità che si dimostra subito come l’altra faccia della concretezza, del forte rapporto con la realtà assolutamente drammatica del momento storico che stiamo vivendo: l’idea di decrescita, come viene qui configurata, non è un’utopia, ma l’unica soluzione realistica della crisi del modello capitalistico neoliberale che si è impiantato negli ultimi trent’anni, espressione compiuta, a sua volta, di un sistema sociale e di un modo di vita che risale alla fine del XVIII secolo. In questo quadro, centrale è la ripresa che fa Latouche del dibattito sul problema del lavoro, un tema che si era imposto già dai primi anni novanta e che, anche ultimamente, con le discussioni sulla proposta sul reddito di cittadinanza, continua a essere centrale. In realtà, è tutto il grande dibattito sulla società del lavoro e dei consumi, che già gli anni Sessanta avevano conosciuto, a tornare in tutto il suo vigore e nella pienezza del suo significato: la questione del lavoro, prima che la quantità, investe la sua qualità; si tratta di pensare alla prospettiva di un lavoro non salariato, riempito di senso, riconnettibile a una dimensione di gioco; si tratta di concepire l’attività lavorativa come attraversata da quel momento contemplativo da cui è stata allontanata da una tradizione millenaria. Decrescita
, in questa prospettiva, non significa una triste prospettiva di autolimitazione calvinistica dei bisogni, in nome di qualche malinteso rispetto per una mitica natura originaria (e qui il saggio di Latouche dà un contributo decisivo alla critica delle ecologie romantiche e/o profonde), ma attiva costruzione, reinvenzione di un rapporto uomo – natura che sia dotato di senso: dal lato del soggetto, che deve svolgere un’attività che sia non alienata, al di fuori della contrapposizione tempo di lavoro/tempo libero; e dal lato dell’oggetto, perché fa parte integrante di questa non alienazione del lavoro il suo rapportarsi alla natura non come a un oggetto, a una mera risorsa, ma come a un ambiente di cui il soggetto fa parte, e che deve dunque rispettare nella sua autonomia, che deve trattare come un altro soggetto. Del resto, entrambi questi aspetti di una concezione non alienata e ecologica del lavoro possono essere riportati alla sua configurazione come interscambio fra uomo e natura – configurazione che, per essere stata classica e tipica della società del lavoro, non manca di poter essere oggi ripensata in una chiave completamente diversa, che è quella del rapporto soggetto-oggetto concepito in chiave fenomenologica. Nel quadro di questi riferimenti a presupposti storici e culturali anche lontani, non si può non percepire la vicinanza a una lunga linea di elaborazione del movimento operaio, che è stata più quella del socialismo utopista che di quello marxista, più fourierista, proudhoniana, cooperativistica e associativista che politica e partitica.
Colpisce, infine, la centralità della figura di André Gorz, che, nel complesso del discorso svolto da Latouche, rappresenta veramente la figura-chiave per una riconsiderazione complessiva dei temi del socialismo e dell’ecologia; anche se si tratta di una figura assai nota, questo saggio ne reinterpreta alcuni temi fondamentali in una chiave nuova: sui testi di Gorz sarà necessario ritornare, per riscoprirne l’attualità, ed è quello che ci proponiamo di fare in uno dei prossimi numeri di Officine. Per concludere sul saggio di Latouche, voglio solo ricordare un aspetto politico fondamentale che emerge da esso: non si tratta, per l’autore, di negare la razionalità capitalistica e occidentale, di pensare che essa sia un disvalore assoluto e che sia necessario abolirla; al contrario, essa è una risorsa preziosa, una costruzione storica irrinunciabile, che deve essere reiscritta all’interno del mondo vitale, reinserita in una logica più ampia, che non è quella della ragione strumentale.
Per quanto riguarda la sezione sul dispositivo, l’introduzione di Francesco Marchesi fornisce già tutte le coordinate sulla sua impostazione e sui suoi contenuti; qui aggiungerò solo che questa iniziativa, che ha visto il confluire della Scuola Normale Superiore e dell’Università di Pisa, con particolare riferimento a Roberto Esposito e ad Alfonso Maurizio Iacono, i cui testi pure siamo onorati di ospitare in questo volume, si colloca anch’essa nel quadro della nuova impostazione di cui ho parlato in apertura: si è trattato, in queste giornate pisane, di ripensare un concetto fondamentale della filosofia post-strutturalista, risultante, come è noto, dalla confluenza del pensiero di Foucault e di quello di Deleuze, al di fuori della consueta costellazione Nietzsche-Heidegger, al di fuori delle discussioni un po’ da conventicola che spesso capita di ascoltare e leggere sull’argomento; il discorso sul dispositivo, attraverso lo scavo storico-filosofico, o, più ampiamente, storico-culturale, di alcuni suoi lontani presupposti, dall’antichità al Rinascimento, è qui investito da prospettive assolutamente nuove, in relazione alle problematiche che ci impone la situazione storica attuale.
Chiudono infine il volume alcune recensioni di libri che sono particolarmente importanti nella nostra prospettiva: il volume di Ubaldo Fadini sul tema delle istituzioni, il volume Da fuori di Roberto Esposito, la nuova edizione, in lingua inglese, del libro di Maurizio Iacono sul feticismo, lo studio sull’ultimo Marx di Marcello Musto, quello di e curato da Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli dal titolo Foucault and the Making of Subjects.
manlio.iofrida@unibo.it
Sezione I
Ecologica
Stefano Righetti
Introduzione a Lavoro e decrescita: una doppia sfida
Abbiamo perduto, se mai essa era stata davvero in nostro potere, la capacità di immaginare il mondo, al di là dei suoi equilibri, delle sue forme consolidate, dei domini stabiliti e delle ‘libertà’ ammesse. Lo abbiamo perduto non per una qualche sfortuna o per una perdita improvvisa delle nostre facoltà creative, ma in un momento esatto della storia. Il momento in cui la storia ci ha dato l’idea di avere improvvisamente stabilito il torto e la ragione, la vittoria e la sconfitta, illudendoci che da allora in poi tutto si sarebbe appianato; il conflitto sociale sarebbe stato abolito, le guerre nel mondo avrebbero perso il loro motivo ideologico, e si sarebbero lentamente estinte; la pace sarebbe divenuta realtà; è stato il sogno, un po’ ingenuo, e molto interessato, del 1989. Ingenuo, perché esso non teneva nel debito conto il fatto che le dinamiche della storia sono propriamente dinamiche di conflitto, e che il conflitto è connaturato alla storia stessa; che l’uomo, anzi, è egli stesso conflitto; e interessate, perché dare per scontato il racconto del venir meno del conflitto ideologico a ogni livello è servito, in realtà, a imporre il pensiero unico di un ordine mondiale modellato sulle politiche del neo-liberismo, sulla sua modalità produttiva, a un tempo assimilante ed escludente. Modalità che è propria della sua economia, e che è divenuta l’unica modalità possibile (cioè ammessa) di vita, secondo il nuovo ordine economico mondiale.
Tra il 1989 e il 1991 l’Europa, e in particolare la Germania o, meglio, la SPD tedesca e il suo programma politico, hanno creduto per un attimo che, venendo meno la contrapposizione militare Est-Ovest, si potesse dare forma a una diversa ragione politica; si potesse impostare la vita perfino su nuovi presupposti. Questi presupposti erano, a volerli riassumere entro i concetti che qui ci interessano, quello di un lavoro ridefinito nei tempi, e ulteriormente garantito nei diritti, e quello di un’ormai consapevole necessità – dopo Cernobyl e dopo l’allarme per il ‘buco’ nella fascia d’ozono che circonda il pianeta – circa i problemi ambientali ed ecologici. Si trattava di ridefinire il lavoro umano, la sua produzione e il suo impatto ecologico e sociale affinché a) le persone vivessero con più pienezza altre dimensioni, oltre a quella del lavoro, e dunque lavorassero meno tempo di quanto fosse al momento previsto, dando così a tutti, o quasi, una possibilità di impiego; e b) che questo lavoro fosse improntato a una maggiore sicurezza ecologica, che l’attenzione al benessere individuale e sociale non potesse anzi distinguersi dal benessere dell’ambiente nel quale viviamo. C’era anche un altro punto – che pareva essenziale a quel programma politico – e riguardava l’integrazione europea. Ma si è trattato di un breve lampo della storia.
La Prima guerra del Golfo è corsa ai ripari e ha ristabilito i presupposti del conflitto mondiale, imponendo allo stesso tempo il riarmo collettivo e i valori del profitto come la forma corretta e unica di rapporto con il mondo. I pozzi che bruciavano per mesi nel deserto iracheno, e i traffici di rifiuti tossici che hanno invaso l’Africa dopo la fallita missione militare in Somalia, insieme alle armi e al crimine organizzato, hanno fatto scempio di ogni attenzione ambientale. Il tema della riunificazione tedesca ha infine spostato e complicato anche quello dell’integrazione europea. Il 1991, e gli anni immediatamente successivi, sono stati gli anni di presa del potere di un capitalismo ormai libero da ogni antagonismo politico (per quanto errato nei modi e nei modelli), e perciò tanto più selvaggio e incontrollabile. Il liberismo uscito vittorioso dal confronto con il comunismo ha reclamato – e ottenuto – un’assoluta signoria sull’intera umanità; e ha preteso la conversione al suo dogma di ogni parte o posizione politica. Nessuno, o quasi, ne ha messo più seriamente in discussione il dominio ideologico. Nessuno che avesse una pur qualche credibilità politica (possiamo anche dire strategia) in grado, non di testimoniare la propria differenza, ma di svilupparla in un racconto capace di porsi realmente come alternativo all’unico credo economico e sociale impostosi dopo la caduta del regime sovietico.
Il collasso delle sicurezze sociali e economiche, e dei diritti acquisiti, che da allora in avanti i governi europei di centro, di destra e di sinistra hanno via via sostenuto, in una gara reciproca per dare la migliore testimonianza di fede a un mondialismo inteso nel senso unico del mercato globale, dove gli attori sono in concorrenza spietata tra di loro, e il lavoro si vende al ribasso, come la vita, le speranze e le aspirazioni degli individui; tutto questo sforzo alla riduzione, in cui la sinistra italiana e europea ha fatto a gara con la destra, pur di dimostrarsi auterevole agli occhi dei ‘mercati’, tutto ciò si è accompagnato all’avvio di una catastrofe ecologica senza precedenti, e nella quale siamo intrappolati, in modo forse irrimediabile, da almeno un decennio.
È possibile invertire il corso della storia, soprattutto per ciò che riguarda la forma e l’organizzazione sociale che la storia sta esprimendo, nell’attuale epoca del liberismo assoluto? La decrescita ha accolto già da tempo questa sfida. E si tratta di una sfida su vari fronti: economica, sociale e filosofica. Filosofica perché intende ridefinire le basi dell’economia, e quelle della forma sociale che le corrisponde, su un presupposto teorico che è l’esatto opposto di quello del liberismo e del capitalismo, così come questi si sono espressi storicamente, e come oggi si esprimono con rinnovata enfasi: ovvero, in base al presupposto che la crescita, lo sviluppo economico (che dobbiamo distinguere attentamente, come si raccomandava marxianamente Pasolini, dal progresso) siano un processo necessariamente continuo e auspicabilmente infinito. L’intero sistema economico del liberismo si basa su questo principio teorico: la crescita produttiva economica è il motore unico e necessario per lo sviluppo delle attuali forme sociali che regolano, e permettono, la nostra esistenza. La produzione deve quindi aumentare costantemente, pena correre il rischio di una spirale negativa e di un’involuzione non solo economica, ma anche sociale. E il funzionamento di questo principio è quello che in questi anni di crisi si è cercato disperatamente di ripristinare, sacrificando nel tentativo ogni altro aspetto del nostro vivere comune: i diritti del lavoro, la sanità (che è stata via via ridotta e privatizzata), la scuola (idem), l’università e la ricerca (idem, idem), ecc. ecc. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Ora, v’è però un altro aspetto – un aspetto che si è inserito prepotentemente negli ultimi quindici-vent’anni – e che rende ormai difficile considerare il principio della crescita infinita un principio davvero praticabile, ed è appunto la questione ecologica. Se le teorie economiche tradizionali (quelle tradizionalmente liberiste, ma anche quelle che si vorrebbero differenti mentre non sono neppure più astrattamente distinguibili da esse, come quelle del cosiddetto comunismo di mercato) potevano ridurre le teorie della decrescita al livello dell’economia hippy, o della curiosità intellettuale, la questione ecologica ne rimette urgentemente al centro gli assunti teorici, mostrando le sue concorrenti liberali per ciò che esse si sono infine rivelate: economie della distruzione. È chiaro infatti, ed è ormai evidente, che l’attuale modello produttivo, fondato sull’assunto indiscutibile di una produzione che deve incrementarsi all’infinito, in tutte le direzioni e senza alcun limite, incentivando un corrispondente sviluppo demografico, anch’esso ormai infinito e incontrollato, è dunque evidente che questo modello, che è quello che sostiene appunto l’idea di una crescita potenzialmente infinita della ricchezza, è anche quello che sta provocando la repentina distruzione dell’intero pianeta.
Immaginare un modo di vita alternativo a quello della crescita illimitata è, a questo punto, una questione non più di divagazione intellettualistica (come sarcasticamente il liberismo ha sempre giudicato i modelli economici alternativi al proprio), ma è una questione (appunto) di vita o di morte. Si tratta di salvare dal modello produttivo globalizzato ciò che è ancora possibile difendere della vita sul pianeta, definendo al contempo un diverso modello di produzione, una diversa gestione delle risorse naturali, un diverso rapporto individuo-lavoro e individuo-società. La decrescita è il modello teorico di un’alternativa che ha avuto il merito di affrontare tale complesso problema e di proporne una possibile soluzione. Che la sua teoria si fondi su una pratica alternativa è ormai chiaro. Si tratta di ribadirne i principi e le possibili applicazioni, affinché il suo modello possa continuare a testimoniare una concreta differenza. Ma, soprattutto, la decrescita rappresenta – ad oggi – l’unico modello economico che ricerchi una realistica composizione tra economia ed ecologia; che si interroghi sul punto di equilibrio tra produzione, limite del pianeta e sue risorse naturali. Si tratta di un limite che rimane, nella cultura occidentale, e in quella economica che la contraddistingue, e che ormai è divenuta la cultura economica globale, un limite impensato, e forse addirittura impensabile, dal momento che tale cultura ha sacrificato al culto dell’infinito, nelle sue contigue forme teologiche e logiche, metafisiche e teoriche, la sostanza finita della miracolosa materialità entro cui soltanto essa può agire e respirare.
Il concetto di sostenibilità, entro cui la produzione neo-liberista vorrebbe inquadrare questo problema, dimostra ancora una volta la sua dipendenza insuperabile dal principio dell’infinito che ne sorregge l’idea di sviluppo. Sostenibile non vuol dire altro, infatti, che un improbabile, oltre che impossibile, accordo tra il principio di fondo del modello economico-produttivo globale e il consumo di risorse che questo richiede. Ma un consumo di risorse sostenibile è davvero tale solo se la sostenibilità è calcolata sul ritmo biologico del vivente e su quello della sua riproduzione naturale. Non è sostenibile, invece, l’idea che la produzione umana ritagli un campo del biologico ed imponga a questo un ritmo meccanico di crescita e di sviluppo, perché tale ridefinizione del naturale secondo i ritmi della produttività economica non fa che scardinare l’equilibrio che è proprio della catena biologica del sistema vivente e risulta sempre, in definitiva, l’estremo tentativo di nascondere il problema cercandone la soluzione in un salto ulteriore della tecnica. Un salto di tale portata da mettere il biologico in linea con i tempi dell’economia accelerata. Non è forse questo che vediamo all’opera, quando