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L'atomica di Mussolini
L'atomica di Mussolini
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E-book315 pagine4 ore

L'atomica di Mussolini

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Storico - romanzo (248 pagine) - Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale l’Italia è in prima fila nelle ricerche sull’atomo e dispone delle conoscenze e dei mezzi per realizzare la bomba atomica. Perché non lo ha fatto?


Siamo nell’autunno del 1938, sette anni prima dello scoppio della atomica di Hiroshima. Nel cuore del Reich tedesco uno scienziato oppositore di Hitler mette a punto il procedimento teorico che porta alla fabbricazione della Bomba. Il ricercatore offre il risultato delle sue ricerche agli inglesi in cambio della sua fuga dal Reich ma viene ucciso dalla Gestapo. Un corriere inglese riesce a portare fuori dalla Germania nazista le formule, copiate nelle pagine di un libro antico di argomento archeologico. Il libro, che descrive la localizzazione della reggia di Porsenna, il più importante dei sovrani etruschi, viene rubato a Nizza da un topo d’albergo e finisce su una bancarella. Qui lo trova un giovane archeologo italiano, Caio Mario Borsi, che, pieno di entusiasmo, appena ritornato a Roma si butta a capofitto nella ricerca della reggia. Quello che scoprirà, potrebbe cambiare le sorti stesse della guerra. Perché anche Mussolini capisce di poter realizzare la bomba atomica…


Patrizio Bongioanni è nato ad Aosta nel 1950. Laureato in Medicina e Chirurgia, ha compiuto le sue prime esperienze professionali in Svizzera e in Austria. Ha svolto gran parte della sua attività medica nella Regione Piemonte. Ha pubblicato come ebook presso Delos Digital il romanzo storico Il tesoro di Mazzini. È autore inoltre di pubblicazioni scientifiche e di un e-manuale per pazienti affetti da ipertensione dal titolo Vivere bene con la pressione alta.

LinguaItaliano
Data di uscita20 feb 2018
ISBN9788825405019
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    Anteprima del libro

    L'atomica di Mussolini - Patrizio Bongioanni

    9788867754168

    Il ladro

    Con le mani sudate per la tensione, Estebàn sfilò di tasca il passepartout rubato alla portineria dell’albergo. Un’occhiata piena di ansia al corridoio vuoto e silenzioso, poi trattenendo il respiro forzò la serratura del numero 215 dell’Hotel Beau Rivage di Nizza, entrò nella camera e vi si chiuse dentro. La luce autunnale che filtrava attraverso le persiane accostate gli rivelò l’arredamento, di una eleganza standard, come si conveniva a un albergo di quella categoria. Un armadio déco. Il letto, che la cameriera aveva appena rifatto. Alle finestre, tende decorate da motivi geometrici dai colori forti. Una specchiera gli rimandò l’immagine di un corpo smagrito e contratto per la tensione, un clandestino scampato a un mondo di guerra e di morte e ora infilato come un corpo estraneo nella pacifica Francia. Spostandosi dallo specchio, inciampò nella panca che serviva per posare i bagagli. Sopra, era sdraiata una valigia di cuoio inglese, nuova. Nella stanza rivestita di tappezzerie a fiorellini azzurri e rosa il silenzio era totale, innaturale, opprimente e il ticchettio insistente di una sveglia lasciata su uno dei comodini posti ai fianchi del letto come due guardie d’onore diventava il suono martellante di un tamburo. Si avvicinò alla sveglia e la esaminò. Era un buon modello disegnato dalla Longines per i viaggiatori, pieghevole e trasformabile in una piccola scatoletta ricoperta di finto cuoio bianco. Da rubare. Così la fece scivolare nella bisaccia che teneva a tracolla. Si diresse verso il tavolo su cui stavano, alla rinfusa, un biglietto ferroviario, una copia del Times e un astuccio di velluto. Prima di aprire l’astuccio diede uno sguardo cauto alla porta chiusa, come se un’occhiata prudente bastasse a capire se il padrone momentaneo della stanza stesse percorrendo il corridoio lì fuori. Dalla porta traspirava soltanto un silenzio spettrale. In quel mese che precede l’inverno i frequentatori della Costa Azzurra erano pochi e a quell’ora della mattinata si sparpagliavano lungo la Promenade, a prendere il pallido sole del tardo autunno in attesa del pranzo. Come ladro d’albergo, Estebàn era alle prime armi. Laggiù oltre i Pirenei, prima della guerra civile, faceva il maestro elementare. Aveva combattuto contro i franchisti, poi, quando aveva visto avvicinarsi la sconfitta, era scappato a Nizza. Se i gendarmi francesi lo avessero sorpreso in quella camera mentre rubava e lo avessero arrestato, non sarebbe stato un dramma. Alla peggio, avrebbe passato i mesi invernali nel caldo di una prigione. Vitto, alloggio e riscaldamento assicurati nell’ambiente decoroso di un carcere della République. Meglio del buco freddo e sporco in cui era costretto a vivere ora. Le cose spiacevoli sarebbero venute dopo, alla fine della detenzione, quando lo avrebbero tirato fuori di galera e ributtato al di là di quella frontiera incandescente, in mezzo agli spari e alle fiamme di una guerra civile che la sua parte aveva ormai perso. Passare i Pirenei voleva dire essere catturato prima o poi da un reparto di franchisti affamati di vendetta, spintonato contro un muro e fucilato.

    Aprì l’astuccio lasciato sul tavolo. Un necessaire da viaggio, con pettini, spazzole per capelli e per baffi, sapone da barba di marca inglese e rasoi. D’argento o più probabilmente di alpacca. Roba facile da piazzare, pensò, mentre lo infilava nella borsa a tracolla. Prese il biglietto ferroviario e controllò la data. 17 ottobre 1938. Era stato emesso il giorno prima, dalla stazione francese di Ginevra. Dunque el inglès che soggiornava in quella stanza non era il classico riccone britannico venuto a svernare sulla Costa Azzurra. Niente Bugatti decapottabile con autista in livrea e sedili in pelle di daino. In treno e in seconda classe, come un qualunque rappresentante di una ditta british impegnato nel suo giro dei clienti. Beh, qualunque cosa facesse, erano fatti suoi. Sbirciò nell’armadio semiaperto. Un doppiopetto leggermente fuori moda appeso a una gruccia. Frugò nelle tasche, da cui tirò fuori alcuni foglietti ripiegati con cura. Li esaminò. Erano il conto di un albergo tedesco e quelli di alcuni ristoranti in Germania e in Svizzera. Tenuti per giustificare le note spese davanti ai contabili della ditta, pensò. Rimise i fogli nella tasca del completo e affrontò la parte più interessante del suo lavoro, l’esame del contenuto della valigia. Ma prima buttò un altro sguardo nell’armadio per vedere se avesse trascurato qualcosa. Un paio di scarpe nuove lucide di vernice, posate sul fondo del mobile, finirono nella tracolla. Un’ultima rapida ispezione nell’armadio lo convinse che non c’era nient’altro da rubare. Si spostò vicino alla panca e slacciò le cinghie che chiudevano la valigia. Da quando si era scelto per sopravvivere la professione di topo d’albergo, aveva imparato a valutare il valore dei bagagli dal loro aspetto esteriore. Una valigia di cuoio come quella, nuova, di buona fattura ma non costosissima poteva nascondere di tutto, da un piccolo bottino a un mucchietto di calzini sporchi, ma non certo oggetti di un valore eccelso. Sganciando i fermi di ottone, alzò il coperchio. Vide della biancheria piegata con cura e alcune camicie di qualità corrente. In una tasca interna della valigia trovò una piccola fiaschetta d’argento per il whisky, che finì nella bisaccia. Quando sollevò le camicie posandole sul tavolo, si trovò davanti due libri. Uno nuovissimo e uno antico. Il nuovo era il romanzo di Pearl Buck, La Buona Terra, che aveva appena vinto il premio Nobel. Sfogliò in fretta quello antico. Un libro in francese, ingombrante e pesantissimo. Lesse il nome dell’autore, impresso in lettere dorate sulla costa rilegata in pelle. Bullé. Mai sentito nominare. Il titolo gli diceva ancor meno: Considérations sur le palais royal de Porséna. In ogni caso avrebbe potuto venderli tutti e due nelle bancarelle davanti al tribunale e di sicuro quello antico avrebbe fruttato qualche franco in più dell’altro. Così come gli avrebbero comprato i due fazzoletti da taschino di seta che trovò accanto i libri. Nel banco dei vestiti usati, Marcel, gli avrebbe allungato qualche soldo anche per le camicie. Mise tutto, libri, fazzoletti e camicie nella bisaccia. Un rumore di voci e di passi che si avvicinavano alla camera tagliò il silenzio. Estebàn si fermò, i muscoli irrigiditi dalla tensione. Una frase pronunciata in tedesco, che l’eco del corridoio aveva reso più cavernosa, vibrò attraverso la porta. Seguì una risposta gutturale, poi i passi si allontanarono. Turisti. Meno male che non aveva cominciato dalla loro stanza. Si rilassò e riprese la perquisizione. Da una tasca laterale della valigia tirò fuori tre libretti telati, identici, sulle cui copertine un leone e un unicorno dorati, così rilassati da sembrare una coppia di allegri compari di sbronze, tendevano verso di lui uno stemma britannico. Aprì uno alla volta i tre passaporti. Erano falsi come Giuda: tre nomi e tre indirizzi diversi fiancheggiavano la foto della stessa persona, un trentenne dall’aria sprovveduta. Magnifico. Finalmente qualcosa da cui avrebbe potuto ricavare un bel pacchetto di franchi, smerciandoli ad altri rifugiati spagnoli in cerca di documenti. Con i passaporti, era uscito dalla tasca un altro libretto ancora più sottile. Lo aprì e trovò una serie di simboli strani, accompagnati a lettere dell’alfabeto inglese. Il suo passato recente nel controspionaggio della repubblica spagnola, fianco a fianco con i consiglieri russi inviati da Stalin, gli permetteva di capire di cosa si trattava. Codici. Codici per criptare o decrittare i messaggi. El inglès doveva essere una spia. Bene. Avrebbe potuto vendere i codici ai francesi, in cambio di un permesso di residenza. Ma forse poteva trovare clienti migliori: i compagni sovietici. A poche ore di treno, a Marsiglia, c’era un consolato dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. I russi pagavano bene e avevano la fama di essere corretti nelle transazioni d’affari. Riprese a esplorare la valigia alla ricerca di qualcos’altro di vendibile e decise di terminare il lavoro con un’occhiata ai cassetti del tavolo e del comodino, che trovò rigorosamente vuoti. Diede un’ultima occhiata circolare alla camera, chiedendosi se avesse guardato bene dappertutto, poi andò verso la porta. Uscì nel corridoio, assestandosi in spalla la tracolla della borsa.

    La bancarella

    Nonostante fosse autunno inoltrato, l’aria era tiepida sulla Promenade des Anglais, l’interminabile passeggiata pedonale che separava la città dalle spiagge. Il dottor Borsi guardava il mare azzurro pallido scintillare sotto il sole ottobrino, perso in una sua visione. Nelle nebbie della fantasia vedeva l’equipaggio di una nave etrusca accostata alla riva scendere lungo una passerella portando in spalla lunghe anfore piene di vino toscano. A terra, altri uomini si lanciavano richiami in un dialetto greco mentre prendevano le anfore dalle mani dei marinai per stiparle su un paio di carretti tirati da asini. Un tempo su quella riva sorgeva la colonia greca di Nikaia, e altre colonie elleniche avevano visto la luce nelle terre vicine. Antipolis, ora Antibes. Monakos, Monaco. La stessa Marsiglia. E alle colonie greche sorte in quell’area era dedicato il congresso, ai cui lavori lui aveva preso parte come assistente del professor Volterra, cattedra di etruscologia alla Regia Università di Roma, la Sapienza.

    Risvegliandosi dal suo sogno a occhi aperti Borsi riconobbe la figura imponente che si era fermata al suo fianco.

    – Grande. È stato grande, professor Volterra – disse con entusiasmo all’anziano signore che gli era venuto vicino e che ora stava salutando con un cenno amichevole della mano un collega svedese.

    – Una magnifica relazione, la sua – aggiunse mentre l’interlocutore prendeva un’aria compiaciuta.

    – Ha spiegato con chiarezza a quei francesi tutti impettiti come le flotte etrusche alleate con i cartaginesi abbiano reso la vita difficile ai greci di Alalia, in Corsica, costringendoli a tornarsene nella madrepatria con la coda fra le gambe.

    – Sì, il mio intervento è stato accolto bene – commentò il professore sorridendo soddisfatto. – Oggi l’etruscologia è ancora un ramo molto giovane dell’archeologia, ma si affermerà presto. Anche grazie agli scavi che io e lei faremo a Veio,.

    – Speriamo che il successo di oggi convinca il Consiglio Nazionale delle Ricerche a mollare abbastanza quattrini da montare un cantiere decente – commentò Borsi.

    – Tranquillo. I membri del CNR sono amici. Finanzieranno, finanzieranno.

    Borsi sollevò la testa per dare un’occhiata all’imponente colonnato neoclassico che ornava la facciata del palazzo dei congressi. Era la pausa per il pranzo e la scalinata della massiccia costruzione andava riempiendosi del chiacchiericcio degli studiosi che sciamavano fuori, eccitati come bambini in gita scolastica.

    – A che ora riprenderanno i lavori? – chiese il professore.

    – Alle tre – rispose Borsi.

    – Abbiamo tutto il tempo per il pranzo. Andiamo verso la città vecchia. A Roma ho avuto l’indirizzo di una trattoria toscana che si trova dalle parti del tribunale. Mi hanno detto che lì si mangia bene.

    Borsi allungò il passo per pareggiare l’andatura decisa del professore. Aveva una fame nera, dopo una mattinata di lavori interrotta soltanto da una tazza di caffè annacquato.

    – Chi le ha consigliato quel posto?

    – Padovani.

    – Attento, professore – disse Borsi mentre cercava di tenere dietro alla falcata dell’allampanato professor Volterra. – Il professor Padovani è nipote di un ex deputato socialista. Se quei toscani della trattoria sono suoi amici, forse sono scappati dall’Italia per motivi politici e lei potrebbe avere delle grane, quando torniamo a Roma. Qualche spione dell’OVRA gira sempre, nei locali gestiti da italiani.

    – Ma no. Se mi vedono in un locale che appartiene a nemici del Fascio, cosa possono mai farmi le autorità del nostro Paese? Sgridarmi? Colle mie scoperte archeologiche, in questo momento sono una celebrità. Si ricorda l’articolo uscito l’anno scorso sul Popolo d’Italia, il giornale del Duce?

    Si mise a declamare: – L’istituto di etruscologia del professor Volterra sta scrivendo una delle più fulgide pagine dell’archeologia italiana nel mondo.

    Sorrise compiaciuto a quel ricordo, poi continuò: – E poi, ho la tessera del Partito Fascista. Cosa che lei dovrebbe finalmente decidersi a prendere, se vuole fare carriera. La tessera, caro mio, risolve tutti i problemi.

    Borsi non rispose. Non era fascista né antifascista. Semplicemente a lui, come alla maggior parte dei suoi coetanei la politica non interessava. Era una cosa che riguardava i vecchi, quelli che avevano conosciuto la democrazia. La generazione dei trentenni a cui apparteneva, l’attività politica non l’avevano provata di persona. Non sapevano proprio cosa fosse.

    Dovette interrompere le sue considerazioni per fare attenzione a dove metteva i piedi. Il marciapiede era ingombrato da una fila irregolare di vasi di ficus. Erano finiti in mezzo al Marché aux Fleurs e furono costretti a zigzagare fra i venditori di piante da appartamento e di mazzi di crisantemi scansando le cassette di chi offriva verdura appena raccolta negli orti. Anche per gli ambulanti la mattinata era finita e molti di loro cominciavano a ritirare le loro merci sui carretti. Ad andatura sostenuta come suggeriva loro l’appetito i due abbandonarono il Marché addentrandosi nel budello di stradine del Vieux Nice. Sembrava che il professore conoscesse bene la città perché intraprese a passo deciso la traversata di una piazza che si stendeva ai piedi di un maestoso tempio neoclassico. Alzando gli occhi sul timpano del grandioso edificio, Borsi lesse un iscrizione a lettere di bronzo che lo qualificava come il Palais de Justice, il tribunale. Passando davanti alla solenne scalinata che saliva verso l’ingresso del tempio affrontarono un gregge di bancarelle piene di cianfrusaglie appartenenti a un antiquariato minore. Borsi sfiorò con lo sguardo quella corte dei miracoli di oggetti consunti e inutili. Vecchie stampe chiuse in cornicette di legno dorato che ritraevano dame in crinolina o monsieurs baffuti in tuba e mantella. Chiavi annerite di ogni tipo e grandezza buttate accanto a serrature di ferro battuto mangiate dalla ruggine. Poi campanacci per capre e mucche, bastoni da passeggio con il pomello di finto avorio e con la punta aguzza foderata d’acciaio per difendersi dagli aggressori notturni, arcaici sci di legno legati assieme alle loro racchette spuntate, ventagli sbiaditi, ferri da stiro a carbonella bruni di ruggine, cornici di legno dagli angoli rosicchiati, alari di caminetto neri di fuliggine, un paio di grosse gabbie liberty dal tetto a forma di cupola indiana che avevano ospitato pappagalli o forse merli parlanti. E ancora vasi di rame opachi e gibollati, attaccapanni zoppi e via dicendo. A quell’ora ogni oggetto bello o interessante era già finito nelle botteghe degli antiquari e nelle case dei collezionisti e gli ambulanti esponevano ormai soltanto i fondi di barile del loro magazzino.

    – Guardi – fece il professore indicando uno dei banchi. – Là vendono dei vecchi libri. Andiamo a dare un’occhiata.

    Borsi avrebbe preferito puntare verso la trattoria, ma sapeva che l’appetito per i libri del professore la aveva vinta su qualsiasi fame corporale. E poi avrebbero potuto trovare un sacco di testi considerati importanti nel resto dell’Europa ma vietatissimi in Italia. Libri scritti da mani straniere e che la censura considerava già solo per quel motivo umilianti per il genio italico. Così i due deviarono verso quel piccolo giacimento cartaceo.

    Trascurando le immancabili scatole da scarpe piene di cartoline illustrate impostate dieci o quindici anni prima, si dedicarono a un lotto di una cinquantina di volumi scritti in una babele di lingue europee. La parte del leone la facevano biografie di santi, opere di morale e di diritto canonico. Ce n’erano così tante da far pensare a Borsi che nella città doveva essere morto da poco un bacchettone e che gli eredi si erano sbarazzati della sua biblioteca. Dopo i libri devozionali, in ordine di quantità venivano le guide turistiche, i Bedaeker e le Guide Michelin, oltre a numerosi romanzetti scritti in inglese, abbandonati in albergo da turisti anglosassoni di ritorno in patria e subito rivenduti dagli addetti alle pulizie dell’hôtel. C’era perfino una copia nuovissima in lingua originale della Buona Terra. Il romanzo, ricordò Borsi, era stato scritto da una americana che aveva vissuto a lungo in Cina. Del libro se ne era parlato di recente anche il Italia perché poche settimane prima aveva ricevuto il Premio Nobel per la letteratura.

    In un angolo della bancarella un turista tedesco in camicia a scacchi e calzoni con le bretelle ricamate a edelweiss e genziane raspava con una mano dentro a uno scatolone, mentre l’altra stava aggrappata come un tenace antifurto alla tracolla della macchina fotografica Leika. Lo scatolone era sormontato da un cartello con la scritta: RÈSERVÈ AUX MONSIEURS.

    Dalla parte superiore della scatola sporgevano decine di foto pornografiche in formato cartolina colorate a mano in tinte pastello coll’intenzione di ingentilire i grigi dell’immagine originale. Cartoline pornografiche, una merce introvabile in Germania e vietatissima in Italia. Diversi conoscenti di Borsi in Italia avrebbero apprezzato quelle immagini di balene ricciute vestite soltanto di un paio di mutandoni a sbuffo ma lui sapeva che il professor Volterra non avrebbe approvato l’acquisto. Il tedesco continuava a pescare con dita entusiaste una foto dopo l’altra dalla scatola, indifferente alla vicinanza di un lungo plotone di libri scritti nella sua lingua, i cui titoli in caratteri gotici che, con le loro lettere angolose, le g panciute e le s che assomigliavano a delle f, avevano un sulfureo aspetto medioevale. Il professore invece quel plotone germanico lo passò in rassegna tutto quanto con l’attenzione di un falco che stia sorvolando un ovile. Il tedesco era la lingua della scienza e negli atenei italiani conoscerla era un requisito di base. Se il professore, come del resto Borsi, era in grado di leggere quei libri, la rapidità con cui ne scorreva i titoli faceva capire che nessuno sembrava incuriosirlo al punto da spingerlo a sfogliarne le pagine. La muraglia di libri germanici terminava in una torre costituita da cinque volumi impilati l’uno sull’altro, del formato ingombrante che hanno i libri antichi. Quello in cima alla pila doveva avere almeno un paio di secoli a giudicare dalla rilegatura vetusta: copertina di pergamena bianco avorio, costa di cuoio, il titolo inciso a caratteri dorati. Mentre il professore era ancora impegnato a setacciare con gli occhi il plotone germanico Borsi diede un’occhiata al titolo e sorrise. Un argomento così avrebbe dovuto avere sul suo cattedratico lo stesso effetto di un vasetto di miele per un orso bruno:

    CONSIDERATIONS

    sur

    LE PALAIS ROYAL DE PORSENA

    Un libro sulla reggia di un re etrusco, che diavolo. Anzi, del più famoso dei re etruschi, Porsenna. Le sue previsioni non furono smentite. Volterra posò gli occhi sul volume, lo afferrò e lo trascinò giù dalla torre. Borsi lo guardò sollevare la copertina con mani impacciate dalla fretta ed esaminare il frontespizio. Intanto si chiedeva cosa mai fosse questa reggia di Porsenna, di cui nessun storico, per quanto ne sapesse lui, aveva mai parlato. Si piazzò dietro il cattedratico e dal disopra delle sue spalle lesse i grandi caratteri a stampatello che riportavano il nome dell’autore e il titolo del libro.

    Claude Bullé, Considérations sur le Palais Royal de Porséna.

    Verso il fondo della pagina, dopo un disegnino ornamentale, veniva a lettere più piccole la dichiarazione che il libro era stato stampato a Parigi nel 1776, presso la stamperia Jaques Estienne, in via St Jacques à la Vertu. Seguiva la dichiarazione d’obbligo per cui l’opera era stata pubblicata avec approbation et privilège du Roy.

    Volterra pinzò un blocco di pagine tra pollice e indice e le fece scorrere rapidamente per dare un’occhiata generale al testo permettendo al suo assistente di constatare che l’opera era disseminata di numerose tavole. A prima vista, sembravano prospetti e planimetrie di un edificio disegnati con quella perfezione professionale e quella nettezza di linee che facevano venire in mente le incisioni riportate nell’Encyclopédie di Dalambert. Nel testo invece, stampato a grossi caratteri, ricorrevano le parole étrusque o il suo sinonimo tyrrénien o il nome Porséna. Parole chiave, che non potevano non indurre in tentazione il professore che infatti chiuse di colpo il pesante volume e con un’aria determinata si diresse verso il proprietario della bancarella per chiederne il prezzo. L’ambulante era occupato a infilare in una busta le foto scelte dal tedesco e senza alzare la testa dal suo lavoro sparò una cifra. Una bella sommetta, pensò Borsi, mentre il venditore, impassibile, continuava a far scivolare dentro alla busta le cartoline osé scelte dall’altro cliente.

    – Trovato qualcosa di interessante? – chiese Borsi al suo capo intento a tirare fuori alcuni biglietti da dieci franchi dal portafoglio.

    – Chi lo sa – rispose lui. – Il titolo promette bene. Considerazioni sulla reggia di Porsenna. Io, della reggia di Porsenna non ne ho mai sentito parlare. Ma se esistesse davvero? E se dentro a quel tomo ci fossero le indicazioni per trovarla? Si rende conto del colpo fantastico che sarebbe, scoprire un edificio del genere?

    Il professore diede all’ambulante i biglietti di banca appena contati e l’uomo li piegò affrettandosi a farli sparire in una tasca dei vecchi pantaloni di velluto.

    Volterra controllò i titoli incisi sulle coste degli altri quattro libri, nella speranza che anche loro fossero di tema archeologico. I volumi, in pessime condizioni, con le copertine a brandelli e le pagine squinternate, trattavano argomenti di astronomia e di scienze naturali. Il professore li rimise sul bancone uno dopo l’altro con un’alzata di spalle poi sii staccò dalla bancarella con la sua preda sottobraccio e seguito da Borsi puntò verso la stradina dove era la trattoria.

    Seduto a un tavolo del locale affollato e fumoso il professore riprese a sfogliare in compagnia del suo assistente il nuovo acquisto, sempre più catturato da quelle pagine ingiallite.

    – Ma pensi – commentò, gli occhi avvitati al volume, – c’è una descrizione minuta di quello che l’autore chiama ‘il palazzo di Porsenna’. La facciata, il retro, la planimetria dell’edificio, le pitture murali delle pareti interne. Ci sono persino le riproduzioni delle terrecotte che ornavano il frontone. Tutto quanto. E tutto abbondantemente illustrato.

    Alzò la testa dal libro e chiese a bruciapelo:

    – Lei ricorda chi era Porsenna, Borsi?

    Lì per lì, l’assistente rimase disorientato dalla domanda. Poi si riprese.

    – Secondo Tito Livio – rispose, – era un re degli Etruschi che aveva reagito con decisione quando i romani avevano buttato fuori a calci l’ultimo re della città, Tarquinio il Superbo, etrusco anche lui. Aveva assediato Roma con l’intenzione di fare inghiottire ai romani ribelli la loro rivolta, ma venne sconfitto. Non ci fu mai più un re etrusco a Roma, che diventò una repubblica.

    – Ma no, quella è la versione abbellita che i romani davano della vicenda. Se lei avesse letto con attenzione Tito Livio, avrebbe notato che quando deve raccontare la conclusione della guerra, glissa, dicendo che si venne a un accordo per cui i romani dovettero pagare un tributo a Porsenna.

    – Il che in soldoni vuol dire che avevano vinto

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