Seduta sull'erba in un mare di nebbia
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Anteprima del libro
Seduta sull'erba in un mare di nebbia - Gian Carlo Parini
nebbia
Denise Chatrian è un avvocato, vive a New York.
E’ socio di un prestigioso studio legale in Madison Avenue, condivide un lussuoso appartamento in Upper Est Side con Paul, conosciuto a Torino ai tempi dell’università.
La sua vita scorre tranquilla sino alla telefonata, un giorno d’autunno, di una zia che le annuncia l’aggravamento delle condizioni di salute del padre in un piccolo paese della Val D’Aosta.
Denise si trova costretta a tornare, dopo ventisette anni, e ad affrontare una realtà da cui si era sottratta fuggendo dopo l’adolescenza.
In particolare deve confrontarsi con un paio di episodi forzatamente sepolti nei meandri della coscienza, è costretta a incontrare Michele, il perfido e famoso cugino, e deve rivedere Jozet e Lesie, i genitori, con cui non aveva rapporti da ventisette anni.
Dopo pochi giorni di permanenza nella vecchia casa di Saint Denis la sua vita è messa a soqquadro, le certezze costruite con pazienza nel corso degli anni vengono confutate e travolte dai fantasmi del passato.
Dopo la morte di Jozet Denise torna a New York ma la sua vita sarà diversa.
Gian Carlo Parini è nato a Milano nel 1961. Autore di diverse opere noir ‘Seduta sull’erba in un mare di nebbia’ è il primo romanzo pubblicato dall’autore.
Dovevo tornare.
Dovevo tornare.
Questa volta non c’erano scuse, dovevo farlo.
Sapevo che aprendo la porta in vetro dello studio molte cose sarebbero cambiate, tante certezze si sarebbero infrante contro le barriere dei ricordi e solo quelle più solide avrebbero resistito all’urto.
Semplici consuetudini sarebbero state stravolte, le contraddizioni insite nel mosaico della quotidianità, pazientemente assemblato con fatica tassello dopo tassello, sarebbero affiorate con prepotenza.
Il passato, tracimando come un fiume in piena, avrebbe travolto la serenità della mia vita costruita con fatica lontano dai luoghi dove ero nata e che mi erano rimasti nel cuore.
Ma dovevo tornare.
L’auto viaggiava veloce
L’auto viaggiava veloce sulla corsia di sorpasso.
Al ‘car rental’ di Malpensa avevo prenotato una macchina con il cambio automatico: in America, tutte le macchine hanno il cambio automatico.
Ma non l’avevano, cambio automatico esaurito.
In compenso, avevano una macchina sportiva nera fiammante a sei marce, che si stava rivelando uno spasso: il motore rombava, a ogni scalata la scocca sembrava imbarcarsi in attesa della marcia successiva.
E mancava ancora il tratto di strada con i tornanti, quello che da Chatillon porta su, fino a Saint Denis.
Li sì sarebbe stato divertente.
La notizia che il vecchio Jozet se ne stava andando mi aveva raggiunto un giorno di pioggia, a metà pomeriggio.
Era stata zia Martina a chiamare.
ciao Denise, ti disturbo?
Non ero riuscita a nascondere la sorpresa: ho risposto dopo qualche istante.
No, per niente. Ma che ore sono lì, zia? Dev’essere tardi.
Le dieci passate, non è così tardi.
Mi faceva un certo effetto sentire, dopo tanti anni, la cadenza secca della valle con la erre marcata.
Per il resto, il tono austero di mia zia non era cambiato.
" Ti ho chiamato per avvisarti che Jozet sta male.
Molto male.
Il medico ha detto che è questione di giorni, ormai. "
Pausa, silenzio.
Zia Martina aveva proseguito.
Michele e Norina sono già arrivati e stiamo aspettando Mariella, che sarà qui a momenti.
Il messaggio era chiaro: i parenti sono accorsi al capezzale, ti stiamo aspettando, prendi il primo aereo e fai in fretta se vuoi vedere tuo padre ancora vivo.
Torna, almeno in questa circostanza.
Non sapevo che fosse così grave, cerco di organizzarmi.
Avevo riagganciato, confusa.
Il vecchio Jozet aveva passato da un pezzo i novantadue ed era in dirittura dei novantatre: era normale che prima o poi succedesse.
Da quando avevo lasciato la valle, ventisette anni prima, non ci eravamo più parlati: per lui la mia fuga a Torino era stata uno smacco, per me l’idea di tornare e diventare la moglie di un bovaro, se tutto andava bene, inconcepibile.
Avendo un carattere simile, il suo silenzio aveva trovato buon gioco nel mio.
Ma ora, la situazione era diversa: lui se ne stava andando e io non potevo lasciarlo andare così.
Chiusa la conversazione con zia Martina, avevo attivato l’interfono.
Lisa, mi dici velocemente com’è l’agenda della settimana?
" Subito, dottoressa.
Dunque: domani mattina c’è l’udienza per la causa della Hit Pharma, il pomeriggio ha un appuntamento col dottor Warner. Dopodomani è in tribunale in mattinata, nulla il pomeriggio. Poi… "
Nulla di importante.
" Ok Lisa, va bene così.
Per la Hit Pharma manda Daniel: è una prima udienza, anche se mandiamo un imbecille non se ne accorgeranno. "
Non mi era sfuggita, in sottofondo, la risatina a denti stretti di Lisa. Gli avvocati giovani e ambiziosi proprio non li poteva digerire.
" Per il resto, annulla tutti gli appuntamenti, rimandali se riesci almeno di una settimana.
Poi prenotami un volo per Milano, il primo che trovi da qua a tre ore. "
Va bene dottoressa, mi metto subito al lavoro.
Picchiettando nervosamente con la biro sul tavolo, avevo composto in fretta il numero di Paul sul cellulare.
Hei, che sorpresa! A cosa devo questa chiamata di metà pomeriggio? Hai forse qualche proposta intrigante per la serata?
Paul riusciva sempre a mettermi di buon umore. Incontrarlo è stata la fortuna che capita una volta nella vita, l’attimo da cogliere senza esitazione.
" No Paul, purtroppo niente di tutto ciò.
Mi ha appena chiamato zia Martina dall’Italia, pare che il vecchio se ne stia andando: devo partire, subito.
Ho annullato gli appuntamenti dei prossimi giorni, faccio un salto a casa a prendere quattro cose che mi servono per il viaggio e corro in aeroporto.
Volevo solo avvisarti: ti richiamo più tardi con calma, quando arrivo."
Lo studio Curtaz, Nicholson & Fink era al settimo piano, suite 2400, di un elegante palazzo in Madison Avenue: con l’ascensore si raggiungeva direttamente l’autorimessa.
Dallo studio all’appartamento di Upper Est Side erano sì e no cinque minuti.
Dieci minuti più tardi, mentre stavo riempiendo un borsone da viaggio con le prime cose che mi venivano in mente, era squillato il cellulare. Era Lisa.
Dottoressa ho trovato un volo Alitalia che parte alle 19 e 15 e arriva a Milano alle 9 e 25. Se le va bene prenoto subito. Altrimenti, andiamo a domattina.
Avevo guardato l’orologio, perplessa. Di tempo non ce n’era molto, ma correndo un po’ potevo farcela.
L’alternativa era partire il giorno dopo, e sarebbe stato forse troppo tardi.
Va bene Lisa, prenota pure. Mandami il biglietto sul Blackberry, sto andando in aeroporto. Ci sentiamo in questi giorni, se ci sono problemi chiamami.
Terminato di riempire il borsone avevo ripreso la macchina, destinazione JFK.
Quaranta minuti più tardi ero all’imbarco, addirittura in anticipo.
Nel frattempo Lisa aveva sistemato le udienze, spostato gli appuntamenti e prenotato una macchina, a Malpensa, per una settimana.
Col cambio automatico, mi raccomando Lisa. Chiedine una col cambio automatico perchè non ricordo più come si guida una macchina con le marce, ok?
La vecchia casa era sempre lì.
La vecchia casa era sempre lì, imponente a dominare la valle, seminascosta dagli alberi secolari del giardino e dalla vigna, che si estendeva sin quasi alla strada.
In ventisette anni non era cambiato nulla.
Probabilmente anche l’interno era lo stesso: la grande cucina al pian terreno con il camino in pietra e la parete annerita dal fumo, la sala sul retro con la veranda sul giardino, lo studio e le due camere per gli ospiti al primo piano, la stanza mia e di Alex e la camera da letto di Jozet e Lesie al piano di sopra.
Il tempo non aveva offuscato i ricordi.
Ancora poche curve e sarebbe apparso il cancello d’accesso al vialetto d’ingresso che porta al giardino di fronte al fienile.
Aggredendo gli ultimi tornanti con un leggero stridio di gomme, avevo sorriso ripensando alle volte in cui, salendo in bicicletta per quella stessa strada, avevo sognato di sfrecciare con l’automobile di zio Vincenzo, una Fiat 128 rossa fiammante.
Noi bambini, le volte in cui lui e zia Sesìle venivano a farci visita, con le testoline di Michele e Norina che facevano capolino dai finestrini posteriori, ci azzuffavamo per sederci al posto di guida, girare il volante a destra e a manca e ingranare le marce.
Ai pedali ancora non arrivavamo.
Anche la vecchia Fiat doveva esserci ancora, da qualche parte dietro il granaio, mentre zio Vincenzo non c’era più: da quando Michele e Norina se ne erano andati Sesìle era rimasta sola.
Michele e Norina: tra tutti i cugini erano quelli che avevano avuto più fortuna nella vita, o forse quelli con più iniziativa. Dopo la sottoscritta, naturalmente.
Non c’era giorno in cui Michele non apparisse in televisione: dibattiti, conferenze e interviste, era l’uomo del momento, l’economista con un’idea per tutto.
Impeccabile nel doppiopetto scuro, i capelli dritti come spaghi pettinati all’indietro, gli occhi cerulei fissi sulla telecamera, sicuro e disinvolto, non sembrava neppure l’ombra del ragazzino introverso con le braghe strappate che si divertiva a catturare le rane e a tagliare la coda alle lucertole.
Norina, invece, non era cambiata: la ragazzina solare e un po’ impacciata era diventata uno dei più bravi pediatri della valle.
Con loro ci si sentiva un paio di volte l’anno, per gli auguri di Natale e il compleanno. Le poche notizie in più mi arrivavano da zia Sesìle o da internet.
Il cancello era aperto.
Avevo rallentato per osservare la fila di alberi che fiancheggiava il vialetto. Non me li ricordavo così alti, anzi non me li ricordavo affatto. Dopo tutto, ero stata via quasi trent’anni.