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Le stagioni della memoria
Le stagioni della memoria
Le stagioni della memoria
E-book243 pagine3 ore

Le stagioni della memoria

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Info su questo ebook

Nel romanzo sono raccontate le storie di due uomini, Olindo e Aldo Marchetti, due fratelli, molto diverse fra loro ma nello stesso tempo intrecciate l’una all’altra. Accanto a questi due protagonisti tuttavia ce n’è una terza, che poi è la vera “prima donna” di tutto il racconto, ed è la campagna ferrarese di un tempo. Dico di un tempo, perché è evidente che il mondo contadino che fa da sfondo a questo romanzo non esiste più. Di esso non ne rimangono infatti che poche tracce, se non dentro di noi. Eppure le nostre radici, anche quelle di noi gente di città, rimangono sempre ben conficcate nella terra: senza saperlo, o a volte addirittura senza volerlo ammettere, un poco di quella terra ce la ritroviamo ancora attaccata alle suole delle scarpe. (L.B.)
LinguaItaliano
Data di uscita10 mar 2019
ISBN9788832536133
Le stagioni della memoria

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    Le stagioni della memoria - Luigi Bosi

    Luigi Bosi

    LE STAGIONI DELLA MEMORIA

    © TED

    Tiemme Edizioni Digitali

    www.ted.onweb.it

    Ebook Letteratura

    Marzo 2019

    In copertina

    Immagine da Pixabay.com

    € 3,00

    Vietata la riproduzione, la divulgazione e la vendita

    senza autorizzazione da parte dell’Editore.

    UUID: f04476c0-41bc-11e9-bc22-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice

    Intro

    LE STAGIONI DELLA MEMORIA

    Piccolo Glossario Dialettale

    Ringraziamenti

    Luigi Bosi

    LE STAGIONI DELLA MEMORIA

    TIEMME EDIZIONI DIGITALI

    Intro

    Nel romanzo sono raccontate le storie di due uomini, Olindo e Aldo Marchetti, due fratelli, molto diverse fra loro ma nello stesso tempo intrecciate l’una all’altra. Accanto a questi due protagonisti tuttavia ce n’è una terza, che poi è la vera prima donna di tutto il racconto, ed è la campagna ferrarese di un tempo. Dico di un tempo, perché è evidente che il mondo contadino che fa da sfondo a questo romanzo non esiste più. Di esso non ne rimangono infatti che poche tracce, se non dentro di noi. Eppure le nostre radici, anche quelle di noi gente di città, rimangono sempre ben conficcate nella terra: senza saperlo, o a volte addirittura senza volerlo ammettere, un poco di quella terra ce la ritroviamo ancora attaccata alle suole delle scarpe. (L.B.)

    LE STAGIONI DELLA MEMORIA

    1.

    Nella nebbia azzurrina della bella mattinata d’ottobre, erano le grida cadenzate dei bovari e gli schiocchi secchi delle scùrie [1] che s’udivano di lontano. L’aria ancora tiepida manteneva calde le zolle appena rivoltate, che a lungo continuavano a fumare. Un volo radente di gabbiani, pronti a gettarsi su tutto ciò che il vomere portava in superficie, seguiva la lunga teoria dei buoi che senza sforzo apparente trainavano l’aratro, trascinandolo da una capezzagna all’altra. Dietro di loro le stoppie giallastre scomparivano, per fare posto al nero della terra rivoltata.

    Valàoooh!… Valàaa!… era l’incitamento del bovaro, ripetuto come un’antica cantilena, al quale faceva seguito lo schioccare delle lunghe fruste, quasi schioppettate, e i fischi acuti degli uomini per costringere le sette paia di buoi, bene assortiti per garrese e per vigore, a tirare con impegno pari.

    C’era pace all’intorno. Pareva che il faticoso lavoro di uomini e animali fosse qualcosa di naturale, di dovuto. Non traspariva lo sforzo in quei gesti, la fatica la s’indovinava a malapena. Eppure ce n’era tanta!...

    Il vecchio Olindo procedeva nel solco appena tracciato, con entrambe le braccia spalancate a spingere sui manici, per costringere l’acciaio dell’aratro ad addentrarsi nella terra. Si teneva pronto: a lui sarebbe toccato il compito di rivoltare l’attrezzo non appena fossero giunti alla fine del campo, subito prima di svoltare sulla capezzagna. Era riservato a lui quel lavoro, il più delicato, ma anche il più gravoso. A lui, e alla possente coppia dei buoi da timone, gli ultimi due della lunga fila, quelli più prossimi all’aratro, che da soli alla fine del solco avrebbero dovuto farsi carico di tutta la fatica.

    Avevano iniziato per tempo quel mattino, quando ancora era buio pesto. Del resto le giornate ormai s’erano accorciate. Alle quattro già tutti erano in piedi, nella grande casa. C’era in giro un’eccitazione generale, come sempre del resto quando si dava inizio ai lavori più importanti. E l’aratura certamente era uno di questi. Un lavoro impegnativo, che per molti giorni avrebbe tenuto occupati tutti quanti, gli uomini in special modo. Con l’aratura si sarebbe praticamente conclusa l’intera annata di lavoro. Dopo restava soltanto la vendemmia, ma quella era un’altra cosa. Quella più che una fatica, era una festa.

    Alla luce rossastra di candele e lampade a petrolio uomini e donne s’aggiravano per casa, rivestendosi in fretta e buttando giù qualche boccone di pane inzuppato nel latte caldo prima d’uscire. La colazione vera e propria l’avrebbero fatta soltanto più tardi, verso le otto e mezza, non prima.

    Olindo e Dante, il maggiore dei suoi figli, erano stati i primi a uscire di casa per andare ad aprire la stalla. Pareva che pure le bestie avvertissero l’eccitazione del momento, perché subito s’erano messe a muggire tutte assieme.

    "Le vacche hanno fame. Rigoverniamo in fretta e distribuiamo al pcón [2] . Poi le manderemo a bere. Per le cinque e mezza comunque le voglio tutte sul campo" aveva detto Olindo rivolto a Ermes, il bovaro, che nel frattempo li aveva raggiunti. Dietro all’uomo veniva il figlio, il giovane Romano, ancora piuttosto insonnolito.

    Ogni cosa s’era svolta com’era stato stabilito. Pur nella confusione generale, pareva che ciascuno sapesse con esattezza quello che doveva fare. Pochi ordini di Olindo, poche parole, e tutto s’era svolto nel migliore dei modi. E anche in un tempo relativamente breve, dal momento che ancora prima che facesse giorno tutti quanti erano già in campagna, uomini e animali, pronti a cominciare.

    Avevano iniziato dalle parti dei maceri, dove la terra forte, ricca d’argilla, rendeva l’aratura più difficoltosa. Pareva che il vomere stentasse a rivoltare quelle zolle, scure come il sangue rappreso.

    Cominciamo di là, aveva detto Olindo, così dopo il lavoro ci sembrerà più facile.

    Erano passate da poco le otto quando sul campo era giunta la Cleves, la moglie di Dante, accompagnata dalla figlia, con le sporte della colazione. Gli uomini avevano già portato a termine l’aratura della prima pèzza [3] e avevano iniziato la seconda, abbastanza perché Olindo desse l’ordine di sospendere il lavoro.

    Stiamo procedendo bene. Adesso fermiamoci a mangiare, ma cerchiamo di non perder tempo.

    Seduti sull’erba della stréna [4] ancora bagnata dalla rugiada della notte , gli uomini tirarono fuori dalle sporte pane, formaggio e cipolle, e presero a mangiare. Masticavano adagio, com’era loro consuetudine, portando alla bocca piccoli pezzetti di pane e di companatico, tagliati col coltello. Parlavano di rado, solo poche parole quando era necessario. Masticavano e guardavano lontano.

    Olindo era rimasto in piedi. Il vecchio capofamiglia, un poco discosto dagli altri, osservava ora la sua gente, ora i campi che gli stavano all’intorno. Pure lui masticava adagio, piccoli bocconi per volta, come se volesse farsi durare più a lungo il cibo che teneva fra le mani. Per lui quella era un’abitudine. I suoi pensieri erano concentrati sul lavoro che avevano iniziato e che avrebbero dovuto portare a termine nei giorni a venire. Non voleva pensare ad altro.

    Eppure talvolta non poteva impedirsi di fare una semplice considerazione, che inevitabilmente lo riempiva d’orgoglio: quella terra che la famiglia stava lavorando, come del resto da una vita intera aveva sempre fatto, quella terra adesso era tutta loro, soltanto loro, dei Marchetti!... Era un fatto straordinario, che soltanto qualche anno prima non sarebbe neppure riuscito a immaginare. E invece adesso proprio così stavano le cose! Un colpo di fortuna certamente, che gli era capitato fra capo e collo all’improvviso e che lui aveva saputo cogliere senza esitazioni. Pareva quasi che sapesse meno di sale, il sudore che ora ci versavano sopra.

    Avanti, diamoci da fare. Siamo stati fermi anche troppo tempo. Riprendiamo da dove abbiamo interrotto.

    Prima di tornare al lavoro, gli uomini s’affrettarono a bere qualche sorsata di vino annacquato dalle fiasche che la Cleves e la piccola Irma porgevano loro. La lunga fila dei buoi, ferma sulla capezzagna, venne rimessa in movimento e l’aratro tornò ad affondare nella terra nera.

    Un nuovo solco s’aprì sotto i piedi d’Olindo, che con le forti mani teneva ben saldi i manici perché il vomere non allentasse la sua presa. La terra che l’acciaio rivoltava pareva uno strano fiore nell’atto di sbocciare. Così almeno veniva fatto di pensare all’anziano contadino.

    Per ben cinquantadue anni, tanto era durata fino a quel momento la sua vita, Olindo Marchetti era vissuto in campagna, sulla terra e per la terra. La sua famiglia del resto da tempo immemorabile aveva fatto solo quel mestiere e, per quanto ricordava lui, sempre sulla stessa tenuta, la Sterpata. Dapprima come manovali del Conte, poi come affittuari, e infine come mezzadri. Tutta la scala avevano percorso, sudando e sputando sangue per conto del padrone, per ricavare da quella terra non certo avara, ma comunque restia a regalare qualsiasi cosa che non fosse condita di fatica, di che campare per tutta la famiglia. Una famiglia sempre numerosa la sua, anche quando ancora era un bambino.

    Suo padre era un uomo duro. Duro e forte come un olmo. Forse era pure buono, in cuor suo, ma non lo dava di certo da vedere. Loro ragazzi, lui e tutti i suoi numerosi fratelli, compreso quello scavezzacollo di Aldo, avevano dovuto imparare molto presto a lavorare come muli, senza mai tirarsi indietro, senza mai protestare. E sempre per conto del padrone.

    Non che il Conte Frova fosse un padrone troppo esigente, questo no; però pretendeva tutto ciò che gli spettava fino all’ultimo chicco di frumento. Così da quella tenuta d’una trentina di ettari doveva saltare fuori a fine annata di che campare per loro, oltre s’intende la metà per il padrone.

    E non sempre era facile riuscirci! Il Conte per la verità li lasciava fare, sulla terra era solito venirci non più d’un paio di volte l’anno, più per fare atto di presenza che per altro. Per loro comunque il lavoro sotto padrone era sempre stato duro, come del resto per la maggior parte delle famiglie dei dintorni. Così almeno era stato fino alla fine della guerra.

    La guerra aveva stravolto ogni cosa. Soprattutto perché un sacco di persone moriva ogni giorno, chi andando a combattere chissà dove, e chi, pur restandosene a casa, perché rimaneva sotto le bombe. O per tante altre ragioni. Poi c’era chi partiva, chi se ne andava lontano, come aveva fatto suo fratello Aldo, e non tornava più.

    Non se n’era più saputo niente, di suo fratello: se era morto in Russia, dove, matto com’era, se n’era andato volontario nonostante l’età, o se era ancora vivo, da qualche parte, in qualche casa sconosciuta. Che fosse stato fatto prigioniero, non c’era più da sperarci, perché qualche notizia sarebbe trapelata. Disperso, dicevano invece quelli del Distretto, che poi non voleva dire niente perché loro a casa ne sapevano come prima.

    La guerra aveva cambiato la vita di molti: in generale rendendola più difficile, se non addirittura tragica, a volte perfino invivibile. Ma per lui, Olindo Marchetti, classe 1894, le cose erano cambiate sì, ma per il meglio. Caspita, se erano cambiate in meglio!... Negli ultimi anni del conflitto, in mezzo alle tragedie che in un modo o nell’altro avevano coinvolto tutti quanti, compresa la sua famiglia con la scomparsa di Aldo durante la ritirata dalla Russia, per lui personalmente c’erano state al contrario alcune occasioni d’oro, inviate dalla buona sorte, che lui non s’era fatto di certo scappare.

    Dapprima c’era stato tutto quel bendiddio portato a casa da Aldo la notte maledetta, con quella sporta pesante come un’incudine che conteneva un tesoro. E poi, l’anno successivo, nel dicembre del ’43, la grande occasione di tutta la sua vita. L’opportunità che gli aveva cambiato l’esistenza, in una con quella della sua famiglia.

    Il Conte Frova, costretto a fuggire nel timore di rappresaglie da parte dei suoi vecchi amici fascisti, coi quali s’era compromesso non poco, e dai quali adesso voleva allontanarsi in tutta fretta prima che gli facessero pagare certi vecchi conti rimasti in sospeso, aveva deciso di punto in bianco di vendere parte delle sue tenute, a cominciare dalla Sterpata per l’appunto.

    In un ultimo rigurgito d’orgoglio nobiliare, quando Olindo tramite terze persone gli aveva fatto intendere d’essere interessato all’acquisto, il vecchio conte aveva rifiutato con sussiego.

    Non cederò mai le mie terre a un contadino, neppure al mio miglior mezzadro aveva asserito indignato il nobiluomo. Ma poi, convinto più che dalle argomentazioni del sensale, dalle circostanze che non gli concedevano vie di scampo, era stato costretto a rivedere certi principi e a ritornare sulle sue decisioni. Così avevano concordato la data per l’incontro, direttamente davanti al notaio, dove si sarebbe potuto procedere alla transazione. Il Conte comunque, in barba al coprifuoco, aveva preteso che l’ora del convegno fosse fissata a sera inoltrata, quando già era buio, perché il tutto si svolgesse nella massima discrezione, quasi in segreto.

    A Olindo pareva che il cuore gli volesse saltar fuori dal petto, quella sera. La vicinanza di Dante non gli dava alcun sollievo, nonostante suo figlio fosse grande e grosso come un armadio. Del resto non era di un conforto fisico che l’anziano contadino aveva bisogno in quel momento, ma di ben altro.

    Aveva voluto il figlio con sé perché sapeva che c’erano dei grossi rischi in tempi come quelli ad andarsene in giro per Ferrara, a maggior ragione con la sporta che si portava dietro. Era soltanto di qualche settimana prima la strage di poveri cristi compiuta dai tupìn [5] contro il muretto del castello. In giro non si parlava d’altro, sia pure a bassa voce, tanto che la terribile notizia era arrivata anche alla Sterpata. Comunque in un momento importante come quello Olindo aveva preferito non essere da solo, anche se per tutta la strada lui e Dante non s’erano scambiati neppure una parola.

    C’era un buio pesto per le vie cittadine. L’oscuramento funzionava alla perfezione, anche se fino a quel momento Ferrara era stata risparmiata dalle bombe, che invece erano cadute come pere mature sulle città vicine. A Olindo sembrava di camminare in una città abbandonata. E loro parevano dei ladri, gli venne fatto di pensare, non persone che stavano andando a compiere l’atto più importante di tutta una vita.

    I due uomini procedevano con cautela, rasentando i muri, attenti a ogni rumore. Ci si vedeva ben poco nell’oscurità della notte, per questo occorreva tenere tutti i sensi all’erta. In effetti fecero bene, perché in tal modo poterono avvertire per tempo l’arrivo della pattuglia, prima che i militi avessero avuto modo di scorgerli. In un attimo s’addossarono al portone di un palazzo, che per loro fortuna subito cedette lasciandoli entrare in un androne buio e maleodorante. Riaccostarono il battente e rimasero in silenzio, addossati al muro, in ascolto dei passi che s’avvicinavano.

    Da uno spiraglio rimasto socchiuso, Olindo adesso poteva scorgere i tre uomini con la divisa della Guardia Repubblicana, i famigerati tupìn, che senza fretta stavano sopraggiungendo. I tre chiacchieravano fra loro come vecchi amici, come se stessero facendo una passeggiata dopo cena. Nel buio si scorgeva distintamente la brace della sigaretta che uno dei tre, quello più alto, stava fumando. Dopo aver sorpassato il portone dietro il quale Olindo e Dante s’erano riparati, i tre militi sostarono un momento. Il lungo tirò fuori un pacchetto di sigarette e ne offrì ai compagni. La fiammella del cerino per un attimo illuminò i volti. Poi i tre ripresero per la loro strada.

    Dopo un breve lasso di tempo Olindo scostò il battente e s’affacciò guardingo sulla strada buia. Adesso tutto era silenzio. Non c’era un’anima in giro. Dante sollevò la sporta, pesante come se contenesse dei mattoni, e senza perdere altro tempo padre e figlio s’affrettarono in direzione della piazza principale, dov’era l’abitazione del notaio che li stava aspettando.

    Prima di suonare al portone del professionista, i due rimasero in attesa del sensale. L’appuntamento era sotto i portici del Duomo, lì vicino. In effetti dopo neanche un paio di minuti Olindo scorse un’ombra che veniva a passo spedito verso di loro.

    Siete voi, Domenico?… chiese il contadino, a bassa voce. La risposta affermativa non si fece attendere. Dopo una rapida stretta di mano, i tre suonarono alla porta del notaio. Non attesero molto. Una donna anziana, che doveva essere stata preavvertita del loro arrivo, aprì il portone e li fece entrare.

    Per una scala buia, che sapeva di muffa e di soffritto di cipolle, salirono al piano di sopra. Il notaio era nel suo studio, in compagnia del Conte, in loro attesa. Quando tutti si furono accomodati attorno al vecchio tavolo ingombro di carte, l’anziano professionista cominciò a leggere ad alta voce l’atto di vendita, che diligentemente aveva preparato per tempo. Arrivato alla cifra da mettere per la cessione della Sterpata nel suo complesso, vale a dire terreni, fabbricati, bestiame e ogni quant’altro, il notaio s’interruppe un istante, guardando in direzione di Olindo da sopra gli occhialini che teneva sulla punta del naso.

    Se non sbaglio, s’era parlato di un milione e duecentomila lire. Tale almeno era la richiesta a suo tempo avanzata. È questo l’importo che devo mettere nell’atto? chiese il notaio rivolgendosi per la conferma dapprima in direzione del Conte, che annuì col capo, poi in quella del mezzadro. Ma Olindo non rispose. Dopo un attimo di silenzio, si levò in piedi.

    Forse s’era parlato di questa cifra quando ancora non era stato fatto cenno al pagamento in contanti. Né tanto meno al tipo di moneta. Io qui però non ho pezzi di carta: ho portato tutto ciò di cui dispongo, niente di più, niente di meno. Se al signor Conte può stare bene, concludiamo subito l’affare. Altrimenti non se ne fa più niente. Decidete voi, signor Conte, ma subito perché nessuno di noi ha tempo da perdere.

    Il tono perentorio del vecchio mezzadro, che chiaramente faceva riferimento a qualcosa di ben diverso da quanto s’era inteso in un primo tempo, o per lo meno da quanto aveva in animo il signor Conte, fece andare fuori dai gangheri quest’ultimo che cominciò a sbraitare nei confronti del contadino, il quale osava cambiargli le carte in tavola all’ultimo istante, proprio in un momento delicato come quello.

    Ma Olindo non se ne diede per inteso. Era tornato a sedersi e se ne stava con il capo reclinato sul petto, del tutto impassibile, come se neppure udisse le proteste del vecchio padrone. Alla fine si levò di nuovo in piedi, facendo l’atto d’andarsene, subito seguito dal figlio che fino a quel momento non aveva detto una parola. Prese la sua sporta e s’avviò verso l’uscita.

    Signor Conte, quello che c’è dentro a questa sporta è tutto ciò che io possiedo. Per vostra conoscenza, si tratta di marenghi d’oro!... Dieci chili all’incirca di marenghini! Non c’è neppure una lira: io non ne ho mai avute. Se vi possono andare bene, sono vostri. Se no, me li riporto a casa e amici come prima.

    Il tono di Olindo era perentorio. Con noncuranza s’era avvicinato al tavolo e, dopo averne liberato un angolo, aveva preso a riversarvi sopra il suo tesoro. Una pioggia di monete d’oro, tintinnanti e lucenti pur nella scarsa luce della stanza, in un attimo andarono a ricoprire la superficie scura del legno. Pareva un sogno.

    Ma quante sono?… azzardò il notaio, continuando a fissare con sguardo incantato il mucchio delle monete che andava aumentando.

    Non ne ho la più pallida idea. Non le ho mai contate. So soltanto che pesano una decina di chili, pressappoco. Nessuno ebbe il cattivo gusto di chiedere a Olindo dove avesse preso quel tesoro, nel timore che potesse farlo scomparire.

    Il Conte guardava affascinato lo spettacolo del tutto inatteso. Per un poco nessuno fiatò. Le considerazioni dell’anziano patrizio, per quanto non pronunziate a voce alta, potevano essere facilmente indovinabili: tutte quelle monete costituivano il mezzo ideale, il più sicuro, per andarsene lontano, magari all’estero, com’era sua intenzione. Con quelle nascoste in una qualsiasi valigia avrebbe potuto recarsi in capo al mondo, molto più agevolmente che con delle mazzette di banconote svalutate. Su questo non c’erano dubbi. Per nessuna ragione al mondo poteva perdere un’occasione come quella. Non doveva lasciare andar via quell’uomo, che fra le mani teneva una fortuna. Poco importava l’equivalente in lire, quei marenghini

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