A mani nude: La memoria della terra nel cammino di Besnik Harizaj
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Anteprima del libro
A mani nude - Lucia Andreano
madre
uno
Il Muro delle meraviglie
2016 Caltagirone, 1969 Kocul
La verità è che la terra fa i propri figli e poi non li vuole.
Così Besnik parla di sé. Seduto dietro il tavolo del suo laboratorio, immobile, con i capelli lunghi legati dietro, il pizzetto che gli incornicia l’ovale del viso e gli occhi neri che si allontanano a cercare i ricordi. Ricordi che si perdono, a volte, in quella stanza troppo piena di teste di varie misure. E se è vero che certe storie hanno una faccia, la bottega di Besnik è piena di facce. Facce dagli occhi fissi, dalle bocche chiuse, impassibili, ma non indifferenti. Facce che ti guardano e ti attraversano, che cerchi di incrociare con gli occhi ma ti scansano, sfuggono, perché vengono da lontano e lontano si proiettano.
Besnik guarda oltre il vetro. La gente attraversa la strada e si ferma ad osservare la vetrina mentre lui insegue le immagini del suo passato che si succedono con un ritmo crescente, commosso, pacato. Si accavallano, si ingarbugliano e poi si dispiegano come un grande lenzuolo.
Certe verità affiorano lentamente e la sua verità ha voluto quarantotto anni per trovare la strada. Come un fiume che viaggia sottoterra e percorre chilometri, attraversa monti, altopiani, pianure, s’ingrossa, straripa e secca, ritorna a nutrirsi di una pioggia violenta, contaminato da acque diverse, sconosciute, arricchito di minerali, sprofonda nel mare e riemerge da un’altra parte del mondo.
Questo fiume è nato a Selenicë nel Sud dell’Albania il 29 giugno del 1969. Uno di quei giorni che non puoi dimenticare, quando il sole tramonta sull’orizzonte disegnando un’arcata con il rosso e da lontano vedi il mare dello stesso azzurro del cielo, tanto uguale da sembrare un unico specchio gigante. Quella mattina nasceva Besnik in un bacino minerario, dove il catrame è il vero oro nero di un popolo povero che da sempre ha difeso la sopravvivenza oltre ogni disumana barbarie. Sia quando ha resistito alla furia degli ottomani, sia quando ha trucidato centoventidue carabinieri italiani e nascosto i corpi nella grotta del pipistrello, tacendo e negandolo per cinquant’anni. Il popolo albanese da sempre ha protetto i suoi confini. E la terra per gli Arbën non ha prezzo. Lì, in quel luogo dove il nero delle miniere si fonde con i colori della natura e il rosso del sangue di una guerra sproporzionata per un terra così piccola, nasceva una mattina il decimo figlio dei coniugi Harizaj. Con undici fratelli, ha vissuto ventun’anni a Ondriç, un piccolo villaggio di poche case nella cooperativa agricola di Kocul, seicento metri sopra il livello del mare, lungo il fiume Vjosa. Ed è da quel promontorio che ancora oggi si vede il mare e, nelle giornate più calde di giugno, il tacco dello stivale vicino.
Il padre aveva un sogno, la terra. Era un dirigente della polizia di Stato, guardia del corpo del ministro dell’interno Mehmet Shehu sotto la dittatura di Enver Hoxha, ma sognava la terra. Come tanti arbëreshë, cresciuti nelle campagne degli altopiani, attraversati da piccoli fiumi che ne alleviano l’aridità e nel verde dei boschi e dei prati che si alterna al giallo delle torride estati e al bianco della neve invernale.
Erano tempi in cui si spariva nel nulla se dicevi la parola sbagliata alla persona giusta o la parola giusta alla persona sbagliata. Così un giorno il ministro Mehmet Shehu venne trovato morto in una delle villette del Bloku, la città proibita di Hoxha, forse suicida, forse tradito, forse ammazzato, ma il Partito del Lavoro non sembrò piangere la sua scomparsa e l’ambiguità delle circostanze non preoccupò il dittatore. Il prezzo della lotta da quelle parti è la vita e quella di Mehmet Shehu, evidentemente, aveva un prezzo molto basso.
Per il padre di Besnik fu l’occasione giusta per abbandonare il mondo della politica e tornare alla terra. Sposò una ragazza di Istanbul e lasciò Valona per ritirarsi nella sua proprietà rurale sulla collina. Ma la riforma agraria del presidente Hoxha si abbatté come una tempesta sulla sorte dei piccoli proprietari terrieri e, in nome della collettivizzazione, le aziende diventarono cooperative di Stato.
Si lavorava tutto il giorno per 80 lek, appena 4 chili di pane, il resto lo si prendeva dalla terra, se la terra voleva. Certe annate non produceva nulla e il poco che s’era messo da parte veniva tirato fuori dalle casse, custodito come un gioiello di famiglia, e diviso fra tutti. La miseria è nobiltà da quelle parti. E non solo perché lo dice il principe Antonio de Curtis di Bisanzio che a Valona è ancora adorato come un dio, ma perché un popolo che è sopravvissuto alla miseria ha dato alle cose un valore che si è elevato oltre la materia.
La dittatura di Hoxha non lasciava spazio ad alcuna libertà, che fosse economica o religiosa o culturale e sebbene la famiglia Harizaj all’anagrafe fosse musulmana, Besnik cresceva con l’icona di Lenin, di Stalin, di Marx e con il mito del grande patriota, il condottiero Giorgio Castriota Skanderbeg. Il socialismo di Hoxha era un comunismo nazionale. Il dittatore voleva costruire un regime duro, mirava a creare una nazione unitaria, eliminando tutti i culti pagani, cristiani, musulmani, attraverso una politica fortemente ateista. Realizzare il vero socialismo del mondo, questo sognava giorno e notte il grande Dittatore.
E sono queste le prime facce che si visualizzavano nella mente di Besnik, le immagini che colpivano gli occhi inconsapevoli di un bambino di sei anni che andava dietro alle capre e ai cavalli sulle colline, e scalzo percorreva chilometri sulle strade fangose. A volte dimenticava di essere un piccolo pastore e anche se il padre non gli raccomandava altro che badare a quelle stupide capre, Besnik s’ incantava a guardare le file di formiche enormi che sul terreno secco, dopo l’estate, creavano lunghe linee nere e poi sparivano improvvisamente dentro gallerie misteriose. Si distendeva per terra e seguiva con gli occhi quelle truppe ordinate di soldatini che marciavano composti e silenziosi, con le loro divise tutte uguali, sino a eclissarsi dentro improbabili vulcani conici di terra rossa. Mentre le capre vivevano il loro inconsapevole momento di libertà.
– Non addormentarti Bes, se le capre mangiano i girasoli sono guai per tuo padre, lo sai, lo viene a prendere la polizia –
Le parole della mamma erano rimaste sospese sull’uscio di casa al mattino quando lo aveva salutato, mentre gli infilava nella tasca della camicia il suo cucchiaio rotto.
Tendiamo a dimenticare le raccomandazioni che sentiamo come tentativi di violazioni alla nostra autonomia con la stessa naturalezza con cui le riconosciamo a distanza di tempo, quando i ricordi si condiscono di rimpianti, come se nel frattempo quelle parole, quel timbro e quell’accento avessero scavato una nicchia e si fossero conservate mute per anni in attesa di ritrovare la strada della memoria. Besnik sin da piccolo aveva una costituzionale tendenza alla disobbedienza e così quel giorno, dimenticò le parole della madre, mentre osservava il percorso delle formiche e le capre mangiarono un intero filare di girasoli. Quanti il piccolo Bes non lo ricordò nemmeno mentre il padre lo picchiava forte sulle mani e sulla schiena con il suo stesso bastone ritorto. Lui non era fatto per i numeri e presto lo avrebbe saputo pure il suo maestro di scuola.
Il giorno è troppo lungo, anche per un bambino, quando si vive nel silenzio e nella solitudine di un paesaggio sconfinato, che si apre al di là degli altopiani, oltre le montagne che proteggono, ma che allo stesso tempo isolano, dall’alba al tramonto, dalla nascita alla morte. Un flauto di canna e un cucchiaio rotto servivano ad ingannare il tempo e il muro delle meraviglie era la prima tela da incidere con quei rudimentali strumenti. Lo chiamava così, quel muro di tufo, perché si sorprendeva quando in inverno il ghiaccio si depositava