Maledetto cantante
Di Stefano Tesi
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Un romanzo commovente, sulle seconde possibilità e sul cambiamento, motore necessario per raggiungere la vera felicità.
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Anteprima del libro
Maledetto cantante - Stefano Tesi
sé.
Indice
Introduzione 8
Una regola è una regola 11
Un giorno come gli altri 17
Il lavoro nobilita l'uomo 27
L'incidente 36
L'ospedale 55
Il responso 73
Il giorno dopo 84
L'ultimo saluto 96
La vita va avanti 109
Ti denuncio 128
L'incontro 136
Ai posteri l'ardua sentenza 150
La sorpresa 162
Il biglietto 175
A ognuno le proprie responsabilità 187
Un’ infanzia diversa 201
Ascoltare il cuore 206
Le sorprese non vengono mai da sole 210
Vivere per non morire 220
Tatoo 238
L'attesa 251
Il concerto 255
Omar 284
Nota dell’autore 291
Ringraziamenti 292
Introduzione
Chi si appresterà a leggere queste poche righe di introduzione, forse, si chiederà in che modo un cantante come me, possa avere attinenza al mondo della scrittura. A me piace pensare a un parallelismo tra questi due universi a primo acchito distanti anni luce.
Un romanzo, in realtà, è come un disco. Entrambi sono suddivisi in parti che in letteratura vengono chiamate capitoli, mentre in musica tracce (canzoni). Il risultato finale è il medesimo: donare al lettore o all’ascoltatore emozioni, ricordi e stati d’animo che resteranno per sempre.
Questa è la grande magia che le parole, così come la musica, riescono a trasmettere a colui che è pronto a farsi avvolgere da questa forza capace di annientare spazio e tempo. Ogni storia sarà vissuta in prima persona, frutto di un ricordo o di un qualcosa che soltanto nell’immaginario sarà esistita. Vorrei citare una frase di Nick Hornby " La musica ha un grande potere: ti riporta indietro nel momento stesso in cui ti porta avanti, così che provi, contemporaneamente, nostalgia e speranza ."
Una mia canzone Ora vorrei
è stato il pretesto per la nascita dell’amicizia con Stefano. Mi ha contattato per avere il permesso di utilizzare tale traccia come colonna sonora del suo trailer del precedente romanzo Amore Incondizionato Dal Sangue
. È stato così che le nostre strade, apparentemente lontane, si sono incrociate e allineate, indirizzate verso la medesima meta. Il nostro scopo è quello di far arrivare a più persone possibili i nostri desideri, i nostri sogni, i nostri racconti, io attraverso le mie canzoni, lui attraverso i suoi romanzi. Pur essendo quasi coetanei, quando lo osservo negli occhi, rivedo in lui parte di me: la voglia, la passione, l’impulso di comunicare ciò che il nostro cuore ha da offrire.
Mi sento di consigliare al mio amico Stefano e a chiunque di voi avrà la fortuna di leggere questo romanzo, di non smettere mai di rincorrere i propri sogni e di vivere ogni attimo come se fosse l’ultimo. In fondo, come dice una mia canzone "… la vita è il più bel tavolo da gioco che c’è ."
Omar Lambertini
Una regola è una regola
La sveglia suonò alle 7:00 in punto. Non ero sorpreso: era regolata sempre alla stessa ora da quando ne avevo memoria: né un minuto prima, né un minuto dopo. Mio padre diceva sempre: «La puntualità è il tuo migliore biglietto da visita. La prima impressione è quella che resterà impressa nella mente del prossimo. Ricordalo sempre figliolo.» Come potevo dargli torto?
La prima cosa che feci appena alzato fu bere un bicchiere di spremuta d’arancia. La mia dose di vitamina C a digiuno era un toccasana per il corpo. La preparavo ogni mattina per tutta la famiglia. Pur non entusiaste, le mie donne accettavano questa mia imposizione. In fin dei conti lo facevo per il loro bene. Poi, mentre mia moglie preparava il caffè, mi facevo la barba. La doccia preferivo farla la sera, poco prima di coricarmi, dato che mi rilassava e conciliava il sonno. Una volta tornato in cucina, trovai già le mie figlie alzate, pronte per una prima colazione nutriente. Laura, mia moglie, le aveva svegliate, come tutte le mattine, dolcemente con un bacio. Pur controvoglia, si erano destate senza troppe storie, essendo consapevoli dell’importanza della scuola e del fatto che arrivare puntuali in un posto era un dovere, che anche delle ragazzine avevano l’obbligo di imporsi. In fondo, sapevano come la pensavo.
«Bisogna iniziare da bambini a comportarsi in un certo modo, in maniera da diventare degli adulti modello.» Sottolineavo spesso.
Amavo fare una ricca colazione con fette biscottate, marmellata alle more, yogurt e caffè, naturalmente amaro. Un'alimentazione sana ed equilibrata che avevo cercato di trasmettere anche alle mie figlie. La televisione doveva rimanere in sacrosanto silenzio e nessuno doveva alzarsi prima che tutti avessero terminato. Questa era una cosa su cui non transigevo. La tavola era un momento di aggregazione e di condivisione delle esperienze fatte agli altri componenti della famiglia.
«Spegni il cellulare, Eva. Lo sai che non voglio vederlo neanche appoggiato sulla tavola. Quante volte te lo devo ripetere?» dissi quel giorno, rimproverando mia figlia più grande.
Eva guardò la madre, la quale, senza nemmeno mandare giù il boccone, la fissò di traverso.
«Sono le 7:30. Sbrigatevi ragazze, perché alle 7:35 dobbiamo partire. Odio il ritardo» ricordai loro.
Si lavarono i denti e mi raggiunsero davanti alla porta, non prima di aver salutato la loro mamma.
Usciti di casa, ci incamminammo con la mia auto in direzione della scuola di Angela, la figlia più piccola. La prima campanella suonava alle 8:05. Naturalmente, alle 8:03 eravamo già davanti alla scuola. Salutata Angela, accompagnai anche Eva. Il suo istituto distanziava poche centinaia di metri da quello di Angela e l’orario d’ingresso era posticipato di mezz’ora rispetto a quello della sorella.
«Ciao amore, ti viene a prendere la mamma all’uscita come sempre» le dissi.
«Lo so, babbo. Non c’è bisogno che me lo ricordi tutte le volte» mi redarguì, ma a me piaceva rammentarlo ogni giorno.
Lasciate entrambe le figlie mi diressi in ufficio. Parcheggiai in via Roma, come facevo ogni giorno, fin da quando avevo aperto lo studio commercialista con Paolo. La strada si trovava in un punto strategico, che mi permetteva di eliminare gran parte del traffico all’uscita da lavoro. Molte volte, pur di accaparrarmi il mio posto preferito, avevo dovuto aspettare che un’auto in sosta liberasse un posteggio. Nonostante ciò, mai e sottolineo mai, ero arrivato dopo le 8:43.
Una volta entrato nello studio salutai tutti i miei dipendenti, naturalmente sempre nel medesimo ordine.
«Buongiorno Carla.»
«Buongiorno dottore.»
«Buongiorno Roberto.»
«Buongiorno a lei.»
Molti avrebbero considerato questo comportamento maniacale al limite dell’ossessivo compulsivo, ma era soltanto un modo per dare un ordine a una vita molto intensa. Sistemato nella mia stanza mi divisi tra pratiche di un certo rilievo e appuntamenti con i clienti.
Alle 12:30 uscii dallo studio per recarmi a pranzare al ristorante Da Vito
, un locale tranquillo, che di giorno era frequentato da impiegati, operai e altri lavoratori che avevano la ditta lì vicino. Il locale era sempre pieno. Tavoli con al massimo tre o quattro persone, spesso anche singoli.
Dopo pranzo, rientrai a lavoro e vi restai fino alle 17:30, orario che coincideva spesso con la chiusura dello studio, eccezion fatta per i giorni in cui un cliente necessitava di qualche colloquio straordinario. In quelle occasioni, essendo uno stacanovista, non resistevo all’idea di restare a fare del lavoro straordinario. Tornato a casa alle 18:20, a causa del traffico serale provocato dalla concomitante uscita della maggior parte dei lavoratori, dopo aver salutato mia moglie e le mie figlie, mi sedetti sulla poltrona a leggere il giornale che Laura mi aveva comprato, come ogni mattina.
Le 19:20 erano l’orario di inizio della cena. Quella era l’occasione per raccontarci tutto ciò che era accaduto nella giornata. La scuola, il lavoro e ancora molto altro. Una volta terminata la cena, intorno alle 19:55 circa mi preparai per fare una doccia rigenerante, i miei dieci minuti di goduria pura, che mi avrebbero rinvigorito prima di ricominciare un’altra giornata. Infatti dopo aver dato la buonanotte alle mie figlie, mi coricai intorno alle 21:20. Il giorno seguente sarebbe stato un altro intenso giorno lavorativo.
Un giorno come gli altri
La sveglia suonò alle 7:00 in punto. Non ero sorpreso: era regolata sempre alla stessa ora da quando ne avevo memoria: né un minuto prima, né un minuto dopo. Mio padre diceva sempre: «La puntualità è il tuo migliore biglietto da visita. La prima impressione è quella che resterà impressa nella mente del prossimo. Ricordalo sempre figliolo.» Come potevo dargli torto?
La prima cosa che feci appena alzato fu bere un bicchiere di spremuta d’arancia. La mia dose di vitamina C a digiuno era un toccasana per il corpo.
Quel giorno, però, qualcosa non tornava. Mia moglie si era già alzata, dato che aveva preso un giorno di ferie dal lavoro. Avrebbe dovuto sostenere una visita dal ginecologo che aveva una lista d'attesa lunghissima e disdire l'appuntamento avrebbe significato altri mesi d'attesa.
«Hai già fatto colazione, vedo!» dissi.
«Sì, mi sono alzata presto. Non avevo più voglia di dormire» rispose Laura.
«Facci almeno compagnia a tavola, mentre mangiamo qualcosa anche noi» le chiesi.
«Va bene. Finisco un attimo di sistemare e poi mi siedo.»
Detestavo l'improvvisazione e il non rispetto delle regole. Le mie giornate si susseguivano una dopo l’altra, come un orologio svizzero. Oggi era uguale a ieri e così pure domani. Adoravo questo tipo di organizzazione. Tanti mi consideravano una persona noiosa e non interessante, ma del giudizio della gente a me non era mai importato niente. Anche mia figlia maggiore, Eva, sosteneva che vivevo in modo triste e monotono. Mai un sussulto nella mia esistenza.
Diceva che la mia vita era come un encefalogramma piatto. Ma come avrei potuto fare altrimenti, dato che ero cresciuto con questa mentalità? Mio padre era la mia copia esatta, o meglio, io sono la sua. Era un uomo tutto d'un pezzo, rigido. Non ricordo di averlo mai visto ridere, neanche per sbaglio.
«Figliolo, ricordati le mie parole, ti faranno comodo in futuro. Ridere è solo un modo escogitato dalle persone per fuggire dalla realtà. Nel momento in cui le tue labbra formeranno un sorriso, qualcuno da dietro ti castigherà, rovinando la tua vita. Devi essere sempre guardingo e fidarti soltanto di te stesso e delle regole. Quelle sì che sono importanti. Senza di loro non andrai da nessuna parte.»
«Babbo, ma così i miei amici non vorranno mai giocare con me!» risposi un giorno.
«Se perdi un amico poco male. Vorrà dire che non andava bene per te. Dammi retta e ti troverai bene. Diventerai un uomo di successo come me.»
Ricordo che la sera mi rifugiavo nella mia camera e piangevo di nascosto.
Questi, però, erano soltanto ricordi. Nulla aveva più importanza. Adesso avevo finalmente capito la rilevanza delle parole di mio padre. Forse un bambino non può capire del tutto ciò che un genitore riferisce fino a quando non matura.
«Eva, spegni quel cellulare. Almeno a tavola. Sei sempre con la testa dentro quel telefonino. Lo sai che detesto questo atteggiamento» le ordinai.
«Sì. Agli ordini comandante. Un attimo e lo spengo» mi rispose.
«Vedo che non hai ancora capito. Non ti è bastata la punizione?»
«Va bene, lo tolgo immediatamente.» Poi, dopo aver allontanato il telefonino, mi guardò dritto negli occhi e mi disse: «Babbo, non è che fai un'eccezione per stasera per il concerto? Dai, babbo. Per favore» mi chiese.
«No, Eva. Dovevi pensarci prima. Se io faccio un'eccezione oggi, non capirai la lezione. Lo faccio per il tuo bene, ricorda» le spiegai.
Lei abbassò lo sguardo, dopo essersi voltata verso la madre per un attimo. Poi abbassò la testa e si concentrò a mangiare. Vidi una lacrima cadere sul suo viso, subito celata dai suoi lunghi e lisci capelli. Sembrava quasi non volesse mostrarmi la sua debolezza, oppure darmi quella soddisfazione.
Laura mi guardò un attimo, aprì leggermente la bocca, poi scosse la testa.
«Volevi dirmi qualcosa, Laura?» Le chiesi.
«No. Niente. Niente.»
Forse, visto dall'esterno potevo sembrare uno stronzo, una persona insensibile, ma in realtà la decisione era ben ponderata. Eva doveva capire l'errore che aveva commesso e come, se non attraverso una rinuncia?
Era in punizione da più di una settimana e altrettanti giorni la separavano dal ritorno alla libertà. Niente amiche, niente uscite la sera e niente concerti.
«Siete pronte, ragazze? Sbrigatevi, altrimenti farete tardi. Come ben sapete, purtroppo oggi non possiamo portarvi a scuola» le ragguagliai.
«Sì babbo, siamo pronte» rispose Angela.
«State attente. Confido in te, Eva. Ricordati che tua sorella prende l’autobus per la prima volta. Accompagnala a scuola e assicurati che entri. Non fateci stare in pensiero. In giro c'è brutta gente.»
«Tranquillo papi. È tutto sotto controllo» rispose Eva.
Mentre stavano uscendo le fermai: «Non vi siete dimenticate niente?»
Si guardarono stralunate, controllando lo zaino, la giacchetta e dopo che ebbero fatto un verso strano con la bocca, aggiunsi: «Un bacio a me e alla mamma non lo date?»
La loro bocca si allargò piano piano, formando un sorriso sempre più crescente. Con le braccia allargate corsero verso di noi, facendoci sciogliere il cuore. Questi erano i momenti che ti rendevano felice. Ci baciarono calorosamente facendoci capire l'importanza di essere genitori.
«Ti voglio bene, babbo» mi dissero entrambe quando le loro labbra erano vicine al mio orecchio.
«Anche io vi voglio tantissimo bene, bambine mie» risposi.
«Babbo, ma io ho quindici anni» disse un po' seccata Eva.
«Per me sarai sempre la mia bambina.»
Un sorriso abbozzato mi fece capire che in cuor suo le mie parole avevano fatto breccia.
Uscirono di casa e una parte di me se ne andò con loro. Non ero un tipo che dimostrava tanto affetto, ma le amavo profondamente. Era proprio questo mio grande amore che mi portava a fare scelte che forse per loro potevano essere dolorose, ma utili per il futuro.
Rimanemmo così soli io e mia moglie in attesa di uscire entrambi, pur in direzioni diverse.
Mia moglie era inquieta e mi girava intorno senza parlare.
«Dimmi Laura...Ti conosco troppo bene. So che mi vuoi chiedere qualcosa» proferii, alzandomi dalla sedia di legno.
Mi guardò, sgranò gli occhi, poi dopo aver abbassato lo sguardo, aprì la bocca senza emettere alcuna parola. Dopo aver indietreggiato e appoggiato l'asciughino sul mobile della cucina, si avvicinò.
«Enzo, so che ogni decisione che prendi è per il bene delle ragazze. So come la pensi a riguardo e non ho mai voluto interferire in nessun modo. Ma non credi che Eva abbia già espiato la sua colpa? Non