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Torania 78: Vita quotidiana durante gli anni di piombo
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E-book273 pagine4 ore

Torania 78: Vita quotidiana durante gli anni di piombo

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Info su questo ebook

* nove racconti ambientati in una città italiana, immaginaria nel nome ma reale nei fatti: Torania, appunto;
* i protagonisti e i contenuti sono tipici del clima sociale diffuso, più o meno ovunque in Italia, negli anni '70 del secolo scorso: quelli che ormai tutti definiscono "anni di piombo";
* i modi narrativi sono esteriormente assai diversi da un racconto all'altro: dalla forma del diario, a quella che si potrebbe definire "presa diretta", attraverso gli occhi del protagonista, sull'azione nel suo svolgimento.
* su quel difficile periodo della storia italiana molto si è scritto, ma con intenti giornalistici più che letterari. La ragione di questi racconti risiede nel narrare vicende e personaggi che ne facciano percepire il clima, senza ricostruirne la cronaca: perché quel passato non è passato del tutto.
LinguaItaliano
Data di uscita15 ott 2018
ISBN9788829529285
Torania 78: Vita quotidiana durante gli anni di piombo

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    Anteprima del libro

    Torania 78 - Leo Seniore

    TORANIA

    Intorno al cuore antico di Torania, addossato alle sponde del fiume Tora, la città è cresciuta a dismisura negli ultimi trent’anni. Vasti quartieri residenziali sono sorti al di là del Quadrilatero, disegnato dal corso Indipendenza, dal corso Rinascimento, dalla via della Repubblica e dal corso di Porta Romana, che racchiude il centro storico sulla traccia di vecchie mura diroccate. Allargandosi dapprima a macchia d’olio, si son saldati via via l’uno all’altro: sicché oggi formano un’unica massa urbana che s’estende compatta fino ai grandi Viali Periferici, e continua poi a brandelli lungo la valle e verso le colline che la fiancheggiano.

    E’ stata un’avanzata trionfale e distruttiva che ha travolto ad uno ad uno i villini di campagna costruiti nella zona ai primi del secolo, inghiottito i parchi, gli orti e le sparse fattorie, per far largo alla marea di gente accorsa dalle regioni vicine e lasciar il campo libero alla nuova ricchezza, che ha dato l’abbrivo all’espansione e n’è stata a sua volta moltiplicata. Né sembra aver raggiunto un limite definitivo, ma una pausa d’assestamento provvisorio prima di slanciarsi ancor più lontano, come vogliono augurare anche i nomi imposti a suo tempo ai vari tronchi di quell’interminabile anello d’asfalto ad otto corsie, che sono appunto i Viali Periferici: viale del Progresso, della Scienza e della Tecnica, della Civiltà del XX secolo, delle Nazioni Unite, della Liberazione, della Pace, e così di seguito.

    La fiducia di tutta una generazione nella continuità quasi fatale di quest’espansione è del resto dichiarata ancor più apertamente dall’altezza degli edifici, che aumenta progressivamente man mano che si procede verso l’esterno, fino alla cintura dei Viali Periferici, dove le torri dei grattacieli svettano ad intervalli quasi regolari. E ben oltre quella barriera, giganteschi alveari sono stati progettati aspettando l’arrivo imminente della città, e costruiti tra le case dei villaggi d’un tempo che ora aspirano a diventar sobborghi, perfino in aperta campagna, segnando le mete future di questa marcia sulla quale molti hanno scommesso senz’esitare tutte le loro risorse.

    Né ciò sorprende del tutto: perché nello sterminato suburbio che comincia dopo i Viali Periferici, ribolle il vero serbatoio magmatico dell’esplosione di Torania.

    Qui si stende a perdita d’occhio il regno febbrile della trasformazione e del provvisorio. Dovunque, per i paesi cresciuti in fretta con l’ambizione dei quartieri cittadini, strade devastate dai cingoli, vie cosparse di terriccio caduto dai cassoni ribaltabili degli autocarri, scarpate fangose e terrapieni a casaccio dove hanno lavorato gli escavatori; e poi scheletri di cemento armato ancora nudi, capannoni industriali come gettati in mezzo agli orti polverosi, baracche allineate lungo i binari, depositi d’immondizie fumiganti sparsi sui bordi delle rogge, cimiteri d’automobili, ammassi di ferraglia arrugginita e di legname fradicio tra i campi abbandonati.

    Questa caotica periferia si dipana per chilometri e chilometri lungo il Tora, ora addensandosi, ora sfilacciandosi, secondo le linee direttrici del traffico. Ma già da tempo si va aggregando soprattutto intorno ad alcuni grossi nuclei, che per le loro dimensioni potrebbero definirsi città, ed invece sono poco più che dormitorî dipendenti interamente da Torania: Protoverde e Colleatterrato, a monte; Risaia e Porto, a valle, dove il fiume si biforca, per solcare poi la pianura aperta ed uniforme con due bracci; l’uno dei quali è in realtà un vecchio canale navigabile che si ricongiunge al letto naturale poco prima della foce, e vi galleggia ormai solo qualche chiatta.

    Gli insediamenti invece scemano a poco a poco approssimandosi ai piedi delle colline che formano i fianchi della valle. E prima che il terreno cominci a salire, si ritrova la campagna coltivata, divisa in lunghi campi irrigui di granturco, che sui primi dossi cedono ai frutteti, nereggianti poi su per le pendici fin sotto le cime arrotondate, dove sono arroccati antichi borghi ancora intatti, con la strada maestra che si snoda a spirale fino al palazzotto signorile e le viuzze che ne discendono a raggiera direttamente verso le porte. Ma sui declivi digradanti verso la valle e la pianura si sono moltiplicate le ville immerse nel verde dei parchi e delle piantagioni, perché sono stati scelti come dimora preferita dalle famiglie più ricche di Torania; che hanno recintato accuratamente le loro tenute, sicché le strade che li risalgono e li attraversano in tutti i sensi corrono quasi sempre incassate tra muri di sostegno ed alte siepi impenetrabili.

    Chi s’addentra nella nuova Torania, una fascia profonda dai quattro ai cinque chilometri, quanti ne corrono tra il Quadrilatero ed i Viali della Civiltà, come viene anche chiamata la circonvallazione esterna; se guarda la configurazione disparata dei singoli edifici, ora goffamente modellata sull’area da coprire ora capricciosamente bizzarra, non vi riconosce uno stile architettonico dominante. Eppure potrebbe distinguervi un tratto particolare che, per la sua stessa diffusione proporzionale al prestigio dei quartieri e per la sua presenza costante nei palazzi più lussuosi, dimostra di corrispondere meglio d’ogni altro ad un’ambizione comune a tutti, anche se per molti insoddisfatta.

    Passando infatti dai quartieri più modesti a quelli più eleganti, dove ogni abitante sogna di potersi sistemare un giorno anche al prezzo di dure fatiche, le finestre degli appartamenti diventan sempre più ampie, le balconate più frequenti; i tetti ed i muri sono interrotti da mansarde e da verande, con vetrate che occupano intere pareti; dagli angoli esposti a mezzogiorno, poi, sono stati ricavati solarî e terrazze, pergole e giardinetti pensili, come se i fortunati proprietari cercassero di vivere in qualche modo all’aperto anche quando son costretti a ritirarsi in casa, sopprimendo il diaframma tra gli interni e l’esterno, o addirittura di mettere in pubblico la loro agiatezza, rendendola tanto più invitante e disponibile alla vista altrui, quanto più la sentono sicura ed intangibile.

    Un tal desiderio del resto appare del tutto compiuto negli enormi involucri di vetro, simili a cubi trasparenti e leggeri sorretti da sottili verghe d’acciaio, che costituiscono la maggior parte delle costruzioni nei quartieri amministrativi e commerciali; dove, passeggiando per le vie, si può osservare quel che avviene dentro gli uffici delle banche e delle società finanziarie, dentro le agenzie ed i caffè.

    Da qualche tempo, però, il gusto della gente va mutando. Sulle pendici delle colline cominciano a sorgere ville d’altro genere: insieme alle vetrate che occhieggiano tra gli alberi al sole obliquo del mattino e del tramonto, ora s’intravedono anche pareti di cemento con finestrelle e feritoie, case corazzate come fortini mimetizzati nella vegetazione. Chi poi s’aggira a piedi per le strade che costeggiano i recinti, vagando con lo sguardo attraverso il largo paesaggio della valle fino alle colline del versante opposto, o seguendo lo sciame dei pensieri che la solitudine dei luoghi libera agevolmente, viene ridestato di soprassalto dall’abbaiare cavernoso dei cani, quando s’imbatte negli alti cancelli rinforzati da pesanti lamiere dietro le sbarre, chiudendo al passo ed alla vista le dimore che s’indovinano in fondo ai viali.

    Anche nella pianura e nei quartieri della nuova Torania non mancano i segni d’un mutamento, che neppure il frastuono abituale della vita cittadina riesce ormai a nascondere. Molti palazzoni della periferia sono diventati fatiscenti prima ancora d’integrarsi nella città; altri, rimasti incompiuti, cadono a pezzi in mezzo alla desolazione dei campi incolti, come se qualche circostanza imprevista, inceppando troppo a lungo i meccanismi dell’espansione, avesse fatto fallire i calcoli degli imprenditori. Dentro la cinta dei Viali Periferici, poi, gli abitanti sembrano scoprire un errore nei progetti originari degli architetti, e cominciano a proteggere con robuste inferriate le finestre dei piani inferiori, a chiudere con saracinesche le vetrine delle banche e dei negozi, ad installare nei centri commerciali, e perfino negli appartamenti, sistemi d’allarme sempre più sensibili che di tanto in tanto risvegliano con le loro sirene interi caseggiati nel cuor della notte.

    Solo il centro storico di Torania ha conservato il suo volto durante questi decenni d’euforia. Molti palazzi sono stati invero restaurati, a cominciare da quelli pubblici in piazza della Loggia, o da quelli nobiliari in via delle Terme, via dei Magnati e via del Buon Consiglio, che dalla piazza s’irradiano fino al Quadrilatero; di tanti edifici meno illustri non è rimasta che la facciata, essendo stati sventrati dall’interno per ricavarne appartamenti minuscoli e razionali; le vecchie botteghe artigiane, infine, sono scomparse l’una dopo l’altra, soppiantate dai negozi alla moda. Eppure quei quartieri, frutto di accumulazioni secolari, mantengono una loro identità senza tempo ed esercitano sull’animo del turista lo stesso fascino misterioso che si prova quando si torna ad un luogo abitato durante gli anni dell’infanzia.

    Ma chi v’è cresciuto dentro e ne ha conosciuto la vita d’un tempo, coglie anche in quest’isola, sfiorata e non distrutta dal progresso, un’inquietudine nuova. Le piazze che la sera solevano affollarsi di artigiani, seduti intorno ai tavoli delle osterie a sorseggiare il quarto di vino, si svuotano in un baleno al calar delle saracinesche dei negozi; ed a notte fonda sono invase da bande di giovani sfaccendati che vi tengono rumorosi conciliaboli e poi si disperdono per i vicoli sulle loro potenti motociclette. Lungo il Tora, nelle calde notti estive, le famiglie non aspettano più le ore piccole godendosi sotto i platani il venticello che risale la valle, ma vi scorrono solo automobili a gran velocità e vi saettano roteando i lampeggiatori delle squadre volanti, da quando vi accadono atroci fatti di sangue. Le vie più eleganti, spesso bloccate dai cortei giovanili e sconvolte dalla guerriglia, anche nei giorni di calma son guardate a vista da vigili, gorilla e poliziotti d’ogni specie: e se uno le percorre da cima a fondo, finisce per accorgersi di rimanere per tutto il tragitto entro il raggio d’osservazione di qualche sguardo scrutatore, come nel viale d’un parco, di notte, si passa dal cerchio di luce d’un lampione a quello successivo. A volerle raccogliere, poi, a Torania oggi si ascoltano voci non più udite da molto tempo, che si credevano sepolte per sempre.

    IL DIARIO DI SOFIA

    Domenica, 11 ottobre

    Oggi ho compiuto diciotto anni, e sono ancora vergine. Mentre tutte le mie amiche, chi più chi meno, scopano già da qualche tempo. L'ultima è stata Daniela, che ha cominciato quest'estate con Roberto, e ci sta ancora; la prima invece, Virginia, subito dopo le medie, e forse non ne ricorda neppure il nome.

    Qualche volta ho l'impressione che mi guardino con un misto di compassione e di sospetto, come se fossi una diversa, un po' strana, frigida, inibita e potenzialmente lesbica. Mi sono anche accorta che ormai non mi mettono più a parte di tutte le confidenze che si scambiano tra loro, come se certe cose io non potessi capirle. Non ci sarà davvero qualcosa di anomalo in me? Ho deciso di tenere un diario anche per capirlo. Forse perché sono una Bilancia, che mi fa spaccare il capello in quattro e soppesare sempre il pro e il contro, lasciandomi alla fine nell'incertezza e nell'indecisione. Ma di una cosa sono certa: mi sono stufata di far la verginella.

    Lunedì 12 ottobre

    La nostra classe si è assottigliata negli ultimi tre anni: eravamo ventisei ed ora siamo ridotti a venti. A sentire i professori, quasi tutti matusa, il corso A del Liceo Classico Virgilio non è per tutti. Per forza! Oltre a spellarti quando ti chiamano alla cattedra e alla lavagna, qui non esiste più differenza tra materie con prove scritte e materie solo orali; a parte storia dell'arte, tutti ti fanno scrivere qualcosa: chi li chiama test, chi li chiama esercizi, chi li chiama esposizioni, ma per noi sono compiti in classe e basta, anche quando valgono come voto orale. Sembra che se ne facciano una bandiera: pochi sono all'altezza del loro insegnamento. Hanno eliminato più ragazze che ragazzi, sicché siamo rimaste in otto. Loro sono tutti uomini, a parte la prof di matematica, giacché quella di ginnastica non conta. Anche in questo la sezione A si distingue dalle altre: poche donne vogliono trovarsi a discutere con questi professoroni burbanzosi e barbosi, che neppure la contestazione ha fatto scendere dal loro piedistallo, perché gli studenti del corso A possono contestare tutto, ma non osano contestare i loro professori.

    Quest'anno però c'è stata una sorpresa in III A: è arrivato Cattani, professore di storia e filosofia, in sostituzione di Nicolosi, che non si sa bene se è andato in pensione o se è stato chiamato al ministero. Noi comunque non lo rivedremo, Dio sia lodato. Cattani avrà sì e no trent'anni: è alto, parla piuttosto sofisticato, senza strascicare le parole come Nicolosi, e Mara, che non è una cima, gli fa già gli occhi dolci. Quando entra lui, con una scusa o con l'altra, Mara si fa trovare sempre vicino alla cattedra, per tornarsene poi lentamente al suo banco, ancheggiando nella sua gonna stretta come su una passerella. Sa di avere belle gambe, la stronza, e le sfrutta in maniera sfacciata.

    Lo sanno anche i ragazzi, che la seguono con la coda dell'occhio in tutti i suoi movimenti. Lei fila con Sandro, che quest'anno però non si vede più dinanzi al cancello, dove fino a giugno era una presenza fissa, a contemplarla mentre incede lentamente, come se si muovesse tra le uova d'un paniere, lungo il viale che, all'uscita, tutti percorrono alla svelta. Che abbiano litigato? Noi ragazze abbiamo sgamato subito le sue manovre e ci scambiamo ogni volta occhiate più eloquenti di tutti gli improperi possibili. Oggi Cattani non aveva lezione, ma domani ha le prime due ore, e Mara si farà trovare in piedi dalle parti della cattedra, ci scommetto la testa.

    Martedì 13 ottobre

    Qualche minuto prima della campanella Mara s'è messa a disegnare col gesso sulla lavagna, aspettando Cattani. Ma questa volta il giochino non le è riuscito, perché Giusi, Monica e Virginia hanno bloccato il professore sulla porta, fingendo di discutere tra loro delle categorie kantiane, come se questo pensiero le avesse tenute sveglie per tutta la notte. Così l'hanno accompagnato fino alla cattedra, dove lui s'è seduto continuando a parlare con loro tre e dimenticando perfino di fare l'appello. Pian piano quasi tutta la classe s'è radunata intorno, le ragazze in prima fila, Virginia coi gomiti appoggiati sulla cattedra e le palme sotto il mento, i ragazzi dietro, o meglio addosso, con le braccia sulle loro spalle.

    La testa di Cattani era scomparsa dietro quelle che gli facevano corona, ma dopo un po' emerge il folto ciuffo bruno che gli scende fin sulla fronte. Getta uno sguardo tra i banchi, dove eravamo rimasti in tre: Cinzia, la gatta morta che se ne sta sempre in silenzio e sorride solo al fidanzato; Maurizio, che pensa solo al calcio e stava sbirciando un giornale piegato tra i libri; e io, che mi muovo sempre in ritardo.

    Mi guarda e fa: -- Magari Mancini avrà le idee chiare su questo: c'è una differenza tra le categorie aristoteliche e quelle kantiane?

    Colta alla sprovvista, balbetto: -- Per Kant .... le categorie sono facoltà dell'io...

    -- Cosa intendi per facoltà?

    Resto muta, e lui, rivolto a quelli che gli sono attorno:

    -- Andate tutti al posto. Chiariamo bene la questione, -- e comincia tutto un discorso guardando verso di me, come se fossi l'unica ad ascoltarlo. Io vorrei nascondermi sotto il banco, le mie guance avvampano e non oso guardarmi in giro perché mi sento addosso gli occhi di tutte le altre. Per fortuna dopo un po' interviene Claudio, l'unico che ha letto qualche libro di filosofia e noi perciò lo chiamiamo Cogito:

    -- Ma allora come possiamo essere sicuri che l'idea che ci facciamo delle cose corrisponda alla loro essenza reale?

    Gli occhi di Cattani ora sono tutti per lui, mentre lo invita a riproporre tra qualche giorno quel problema fondamentale. Ha detto proprio così: fondamentale. Cogito si è già conquistato il primo posto nella sua considerazione.

    Sotto lo sguardo di Cattani io ho provato una sensazione strana: le sue parole mi respingevano nell'angolo della mia ignoranza, ma i suoi occhi mi invitavano non so dove.

    Mercoledì 14 ottobre

    Allarme rosso! Questa mattina qualcuno è venuto a curiosare nel mio diario, che avevo nascosto nel cassetto sotto il quaderno di matematica, e l'ho ritrovato sotto le versioni dal greco. Maria? No, lei non apre i cassetti. Quando spolvera il tavolo in camera mia, mi crea un casino tra i fogli sparsi, ma nulla di più. Papà? Nemmeno a pensarci: lui esce prima di me ... e poi ... a lui non verrebbe mai in mente di aprire i cassetti delle donne ... credo che non abbia mai aperto nemmeno un cassetto di mamma. L'unica che può aver fatto una cosa del genere è proprio mamma: magari con le migliori intenzioni, secondo lei. Sento che da un po' di tempo è inquieta per me: certi discorsi, certe raccomandazioni ... se rientro tardi la sera, mi scruta sottecchi finché non mi chiudo in camera. Sono sicura che scruta anche le mie mutandine, quando le mette in lavatrice. Vuole scoprire se ho un ragazzo, come dice lei: cioè, se la sua unica figlia ha cominciato a scopare con qualcuno. Ora lo sa.

    Questo però è un guaio. Sarebbe capace di andare a parlarne con don Giuseppe, perché non sa come affrontare direttamente la questione. E lui magari, la prossima volta che vado a confessarmi, mi farà un predicozzo prendendo alla larga l'argomento ... il valore della verginità, eccetera eccetera; perché sono sicura che da dietro la grata lui mi riconosce. Già ci andavo malvolentieri, e chiudendo subito la porta se con qualche allusione cercava di entrare nel mio intimo; ora non ci andrò proprio più. Così la cara mammina si sarà data la zappa sui piedi, e imparerà a non guardarmi più come una bambina, ma come una donna. Ho diciotto anni, mamma, non sono più una ragazzina! Anche se tu mi ricordi in continuazione che sono minorenne, negli affari di cuore ognuna per la sua strada!

    Quanto a questo, ora me lo porterò sempre dietro. Per fortuna è un taccuino che può stare in qualsiasi borsa.

    Domenica 18 ottobre

    Per la festa dei diciott'anni, Marina ieri ha fatto una scrematura disgustosa nella classe, chissà con quale criterio: eravamo invitate solo in tre, Monica, Virginia ed io; oltre a due ragazzi, Angelo Sacchi e Fabrizio Moretti. C'era però una gran folla a casa sua, tutta gente straricca, si capiva subito dagli abiti e dalle borse. L'enorme salone, dove uno potrebbe girare in bicicletta, era fin troppo pieno, tanto che i due camerieri rischiavano continuamente di rovesciare i vassoi, mentre si aggiravano tra la calca. E pensare che per il mio compleanno io ho invitato la classe e poche altre amiche, con mia madre che faceva gli onori di casa: pizzette, pasticcini, aranciata e coca cola; solo al momento della torta, un paio di bottiglie di spumante! Marina avrà avuto l'impressione d'essere capitata in casa di impiegatucci. In effetti, mio padre non è mica un costruttore!

    Fabrizio era con una ragazza che sembrava una bambina cresciuta in fretta, forse del giro di Marina, giacché la salutavano in molti. Angelo invece ha ripreso a fare il galletto con me, come aveva già cominciato a casa mia, in forma più discreta sotto gli occhi di mia madre, che poi ha voluto sapere tutto di lui. Mi ha monopolizzata per tutta la serata: anche quando ballava con un'altra, non mi perdeva d'occhio, come se io fossi la sua fidanzata ufficiale e lui avesse l'aria di scusarsi per avermi momentaneamente abbandonata, per dovere di cortesia verso qualcuno. La cosa era perfino imbarazzante, ed io ne ero infastidita, anche perché Marina in un paio di occasioni mi ha lanciato un'occhiata d'intesa, come per dirmi: Brava! Era ora! E alla mia replica, sempre ad occhiate: Ma quando mai! aveva assunto un'aria maliziosa che significava: Fingere con me? Ma cosa cerchi di meglio?

    Angelo è un bel biondo palestrato, corteggiato da molte ragazze: così si è montato la testa e crede che debbano cadere tutte ai suoi piedi. In classe l'abbiamo capito tutte che lui è un mordi e fuggi: è stato con due, forse tre, ma nessuna è durata più d'un mese. A ripensarci, è un po' strano che alla festa sia venuto solo; forse aveva saputo che c'ero anch'io e voleva presentarsi libero. Verso le undici poi, al momento della torta, mi ha presa sottobraccio e mi ha trascinata al tavolo della mescita, dove i camerieri stappavano bottiglie di champagne l'una dopo l'altra per il brindisi. Ha preso una coppa anche per me, quindi ha accostato la sua alla mia, fissandomi intensamente negli occhi, per un brindisi intimo tra noi due, prima di quello generale per Marina. Io non ho risposto al suo cin cin! ma, seguendo per una specie di riflesso automatico il suo gesto invitante, ho accostato l'orlo della coppa alle labbra.

    Da quel momento è rimasto sempre con me, ora cingendomi il fianco, ora stringendo la mia spalla e sfiorando con la sua guancia la mia fronte, mentre mi teneva in conversazione: scherzava sui tic di qualche professore; mi faceva notare con una cert'aria di sufficienza qualche particolare, così sfarzoso da sfiorare il cattivo gusto, della festa; mi faceva i complimenti per la semplice tunica azzurro notte che indossavo, dicendo di trovarla molto eccitante perché lasciava indovinare il corpo flessuoso che vi si muoveva dentro, senza fasciarlo procacemente come una guaina anatomica: la puntura di spillo era per Marina evidentemente. Abbiamo anche ballato: prima un paio di rock, poi un lento, durante il quale si è incollato a me, bloccandomi il fondoschiena con la sua destra, per farmi sentire la sua virilità mentre mi costringeva a ruotare il bacino insieme al suo. Mi sentivo dominata dal suo fisico, e questa sensazione, per me del tutto nuova, mi dava una leggera ansia; ma non mi dispiaceva di sentirmi portata in palma di mano, perché mi poneva su un piedistallo agli occhi di tante ragazze, non solo di Monica e Virginia, che si aggiravano per il salone senza suscitare particolari attenzioni tra gli uomini e che avrebbero dato anche ... tutto per trovarsi al mio posto.

    Ma cosa cerchi di meglio? dicevano gli occhi di Marina. "Se non dura, almeno avrai fatto il primo passo, senza quel maledetto bilancino che ogni volta ti blocca; e poi, se non è andata bene alle

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