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La Storia di Monteverde: Dalla preistoria ai giorni nostri
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E-book322 pagine3 ore

La Storia di Monteverde: Dalla preistoria ai giorni nostri

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Info su questo ebook

Monteverde è il dodicesimo quartiere di Roma, conosciuto anchecome Gianicolense, ed è ricco di miti fin dalle sue origini. Dove oggi si aspetta il tram numero 8 diretto in centro, in epoca preistorica si muovevano ippopotami ed elefanti e l'uomo iniziava a lavorare la selce per ottenerne punte affilate. La zona era ricca di cave di tufo e proprio il suo colore verde-giallognolo avrebbe dato origine alla denominazione Monteverde o Mons Aureus, cioè Monte d'Oro, in epoca romana. "La storia di Monteverde" ripercorre i luoghi del quartiere, dalla preistoria ai giorni nostri, e ci racconta dei personaggi, comuni e non, che hanno contribuito a renderlo ciò che è oggi.
LinguaItaliano
Data di uscita29 dic 2020
ISBN9788836260041
La Storia di Monteverde: Dalla preistoria ai giorni nostri

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    Anteprima del libro

    La Storia di Monteverde - Sara Fabrizi

    Prefazione

    "Q uesto quartiere è destinato a un grande avvenire per la sua eccezionale posizione sul Monte Gianicolo, per la sua altitudine e per la vista veramente incantevole che si scopre da quella altura".

    Siamo agli inizi del Novecento quando l’architetto Edmondo Sanjust di Teulada, ingegnere capo del Genio civile di Milano, viene chiamato a redigere un nuovo piano regolatore per la Capitale. Il suo lavoro darà il via alla costruzione vera e propria del quartiere di Monteverde, che si svilupperà su un territorio dove in realtà molti romani già da secoli hanno scelto di abitare. Monteverde e l’area del Gianicolo sono infatti considerati – come lo stesso ingegnere rileva – un’area privilegiata della città. La particolare posizione, la vegetazione, il panorama: tutto questo contribuisce a farne una mèta ambita. Fin dai tempi più remoti e con una straordinaria disseminazione di testimonianze, Monteverde è infatti luogo di storia e di antichissime tradizioni.

    Nel salire verso il Gianicolo o anche attraverso le altre strade che conducono fin dentro al quartiere, potremmo dire che la storia ci circonda e che anzi ci viene letteralmente incontro. Dai resti più antichi che ci parlano della preistoria e dell’epoca romana, questa parte della Capitale è un unico, grande e per certi versi poco conosciuto caposaldo della memoria collettiva. Fin dalla rivalità di Roma con l’etrusca Veio, da queste alture i nostri antenati hanno cercato di governare i tempi correnti vigilando sulle insidie esterne ed interne. Lo sguardo bifronte (Gianicolo da Giano, il dio dai due volti) è appunto quello che dovrebbe permettere di osservare passato e futuro o anche, più concretamente, ciò che avviene in casa (la vista su Roma) e ciò che accade all’esterno (la vista verso il Tirreno).

    Non è un caso che, in virtù della sua particolare posizione-cerniera, in tutte le epoche Monteverde sia stato teatro di battaglie epiche, di contese sanguinose, di vicende che hanno visto passare da qui figure mitiche ed eroiche. Pagine di storia che, in particolare con il Risorgimento, ci hanno tramandato probabilmente alcuni dei momenti più drammatici: basti pensare alle imprese di Garibaldi e dei suoi.

    La Storia di Monteverde dalla preistoria ai giorni nostri, curato da Sara Fabrizi con le foto di Antonio Tiso e il coordinamento editoriale di Simona Dolce, è quindi un appassionante viaggio nel tempo che sorprenderà anche chi ritiene di conoscere già bene questo quartiere e le aree circostanti. Il tempio, la cripta, la catacomba, l’ipogeo e il sepolcro si nascondono dietro porte insospettabili o sotto negozi e abitazioni che fanno parte della nostra geografia abituale. Tutto il quartiere emana questo fascino stratiforme, dove ciò che è visibile spesso cela ricchezze e storie straordinarie. Forse è anche per questo che in ogni epoca qui sono passati, e si sono fermati, donne e uomini i cui nomi ci parlano di arte, letteratura, poesia, cinema. Torquato Tasso, Leopardi, Escher, fino a Pasolini, Bertolucci, per arrivare agli artisti di oggi: tutti accomunati dall’amore per un pezzo di Roma che – assiso sul suo colle – marca comunque una piccola distanza e tiene lo sguardo vigile sull’orizzonte.

    Buona lettura a tutti.

    Luigi Carletti

    CAPITOLO 1

    Telline, orsi e uomini avventurosi

    1.1 Montagne in fondo al mare

    Monteverde: soltanto il nome lascerebbe intuire una passeggiata in salite e discese, lungo le strade di un piccole colle, alla scoperta delle tante meraviglie del quartiere. Ma questa storia inizia in un passato talmente lontano, che il territorio intorno appare del tutto irriconoscibile. Se ci si avventura indietro nel tempo, così indietro da arrivare alla Preistoria, scompare ogni punto di riferimento. Non c’è Villa Pamphili, dove fermarsi a guardare i cigni che attraversano con eleganza il laghetto. Non c’è la via Aurelia, con il traffico dell’ora di punta. Non ci sono Porta San Pancrazio né i palazzi di Donna Olimpia.

    C’è un’unica cosa: l’acqua.

    Circa due milioni di anni fa, nell’epoca del Pleistocene inferiore, il territorio su cui dovrebbe sorgere Roma è completamente sommerso. Un mare poco profondo si estende verso l’interno, in una grande insenatura. Le onde lambiscono una costa che arriva più o meno dove oggi sorge Palombara Sabina, a nord di Tivoli, a ridosso dei monti Lucretili. Proprio in questa zona, sott’acqua, nascono piccole e grandi colonie di datteri di mare. Sono molluschi molto particolari il cui nome scientifico Lithopaga lithopaga dice molto sulle loro abitudini. Per vivere, infatti, scavano le proprie tane nella roccia, contraendosi avanti e dietro. Grazie a delle ghiandole, producono delle secrezioni acide che riescono letteralmente a corrodere e sciogliere il calcare, per poi insinuarsi all’interno. Vivono così, attaccati alle pareti del cunicolo che si sono scavati. Si nutrono del materiale in sospensione nell’acqua, raccolto tramite un piccolo apparato che sono in grado di allungare verso l’esterno.

    Il loro ambiente naturale è questo, la costa. Così, oggi, facendo una passeggiata sui monti, per esempio a Poggio Cesi, si scoprono rocce costellate di minuti fori, al cui interno spesso si trova sabbia bianca o rossastra.

    Tracce dell’antico mare che sommerge il Gianicolo e tutto Monteverde.

    Quando uno dei datteri di mare muore, la sua tana resta vuota e diventa l’habitat perfetto per una serie di altri organismi: ci sono le spugne, i briozoi, piccoli invertebrati acquatici le cui colonie assomigliano a quelle del muschio, i crostacei. Nelle zone dove la corrente fluisce più liberamente, si possono vedere anche i cosiddetti balani, meglio noti come denti di cane. Non sono altro che crostacei, ancora oggi esistenti, che hanno un guscio protetto da un carapace simile a quello dei molluschi. Aderiscono a una base e una volta che si sono fissati, non possono più staccarsi. Sono animali gregari, per questo li si trova ammassati insieme.

    Immaginando di poter navigare in questo grande bacino, guardando verso l’orizzonte si potrebbero persino intravedere delle isolette. Piccoli lembi di terra e roccia dove attraccare. Sarebbe come essere in cima a una montagna di oggi. Queste terre che affiorano in mezzo al mare preistorico, infatti, sono i Monti Cornicolani. Uno di questi è proprio Poggio Cesi, gli altri Monte Patulo e Montecelio. Poco oltre si vede anche il Soratte, in mezzo a quella che oggi è la valle del Tevere.

    Le creature che popolano quest’ambiente sono tantissime. Qui, a Monteverde, sul fondale prolificano anche le telline, con le loro piccolissime conchiglie. I loro resti sono uno di quegli indizi che permettono di ricostruire questo panorama preistorico. Se oggi, infatti, si scende lungo viale dei Colli Portuensi e si svolta per via di Monte Verde, all’altezza di piazza Carlo Alberto Scotti si incrocia una strada dal nome curioso: via di Val Tellina. Non Valtellina, come la regione alpina, ma proprio Val Tellina, come a dire valle della tellina. Infatti, proprio qui, come riporta Nina Quarenghi nel libro Monteverde. Un salotto popolare a Roma (2014), mentre viene tracciata la nuova strada, negli scavi vengono trovati grandi giacimenti di questi piccoli molluschi

    Qualcosa che si può trovare solo dove, un tempo, c’è stato il mare.

    Ma i segni del passato preistorico di Monteverde sono anche più visibili di così. Spesso sfuggono all’attenzione, poiché non se ne conosce la vera natura. L’urbanizzazione ha cancellato tante tracce, eppure qualcosa rimane. Ci si incammina verso la Passeggiata del Gianicolo, per percorrerla tutta quanta, superando il faro argentino (vedi cap. 6) e fermandosi all’altezza del tornante di fronte al Collegio Pio Romeno. Alcuni turisti attendono il passaggio di un autobus, il 115 oppure l’870, che vanno entrambi verso via Paola, dall’altra parte del Tevere. Dietro di loro c’è quello che si sta cercando, un pezzo di Preistoria in mezzo alla città. Tra l’erba si intravede quella che sembra una grande roccia, dalla forma piuttosto strana.

    Guardandola da vicino, si notano dei fori, derivati da attività di erosione, delle parti concave e arrotondate. Si tratta di due placche di arenaria di colore grigiastro, con elementi sabbiosi e anche alcune tracce di conchiglie marine bivalvi. Un tipo di roccia che risale proprio al Pleistocene inferiore, quando le acque ancora non si sono ritirate e questo è un ambiente marino. A segnalarla è Maurizio Lanzini, curatore insieme ai suoi colleghi del volume I geositi del territorio di Roma capitale (2014) edito dalla Sigea, Società italiana di geologia ambientale.

    Grazie a questo volume, ci si spinge anche fino a viale Trastevere, all’altezza del civico 214. Da un lato una palazzina residenziale, dall’altro un meccanico. Nel mezzo un albero che con la sua grande chioma copre la visuale. Ma lassù, oltre i rami, si intuisce il declino di una dorsale di Monteverde, ancora esistente nonostante gli sbancamenti legati alla realizzazione di viale di Trastevere. Basta guardare una cartina storica del 1924 per rendersi conto che qui sopravvive, nascosta dalla vegetazione, una parte dell’antica collina.

    Una collina che mostra di cosa è fatta.

    Qui, infatti, come rilevato nel libro sui geositi di Roma capitale, c’è un affioramento. Nella parte più superficiale si rintracciano sabbie giallastre e grigiastre, parzialmente cementate. Più in profondità, invece, sono presenti delle argille grigie che rappresentano una fase ancora più antica, quella pliocenica, tra cinque e due milioni di anni fa. Sono i residui di un ambiente marino profondo.

    Oggi, però, non è più possibile vederli a occhio nudo. Un muro di sostegno, costruito intorno al Duemila per realizzare una rampa carrabile, li copre del tutto.

    1.2 Un orso al San Camillo

    Intorno a un milione di anni fa, però, l’area della campagna romana comincia a emergere. Lentamente, l’acqua si ritira. I sedimenti che si sono depositati nel corso del tempo vengono sollevati e deformati dalle forze naturali in moto. I movimenti tettonici, gli sconvolgimenti climatici determinano enormi cambiamenti. Qui il mare lascia spazio alla terra. E sulla terra, scaldata dai raggi del sole, si muovono forme di vita mai viste da queste parti.

    L’epoca è ancora quella del Pleistocene, che va da 2,58 milioni di anni fa a 11.700 anni fa.

    Il paesaggio che si vede intorno è un susseguirsi di colline e ampi spazi aperti. In alcuni punti l’acqua ristagna, diventa melma e fango, forma vaste paludi e acquitrini. In quest’epoca remota, la campagna è attraversata dal Paleotevere, l’antenato preistorico del grande fiume di Roma, che si snoda sinuoso, modellando il territorio con la forza della sua corrente. Erode il terreno che incontra lungo il suo corso e trasporta i sedimenti fino alla foce, all’altezza di Ponte Galeria. Ma il sollevarsi della dorsale di Monte Mario, che forma un tutt’uno con il Monte Vaticano e il Gianicolo, rappresenta un problema insormontabile. Un ostacolo che il fiume non può superare. Deve aggirarlo, scavandosi un nuovo letto, faticando per ottenere il proprio spazio in un mondo giovane e selvaggio.

    Un mondo in cui ciascuno tenta di sopravvivere come può.

    L’ambiente va incontro a modifiche ancora più importanti circa seicentomila anni fa. Un’altra forza comincia a modellare questa terra, quella dei vulcani. A sud dell’attuale sito di Roma si sviluppa il grande Vulcano Laziale, nei Colli Albani. Il magma risale dalle profondità della terra e scivola giù lungo i fianchi del monte, travolgendo ogni cosa, bruciando e distruggendo. Cenere e lapilli si spargono, proiettati a distanze incredibili dalla forza delle eruzioni e dal soffio impetuoso del vento. Il velo nero che copre il cielo, il brontolio che si ode in lontananza, il tremito improvviso della terra, sono i segni che annunciano questi improvvisi sconvolgimenti. Di fronte a tutto questo, gli animali tentano di fuggire: si vedono i cervi che corrono via, sulle loro lunghe zampe snelle. Non tutti, però, ce la fanno. Un cucciolo, più debole degli altri, rimane indietro. Oppure un individuo vecchio e malato non fa in tempo a reagire con la prontezza necessaria. La lava li inghiotte, proseguendo nel proprio cammino.

    Ma la vita prosegue. Anzi, fiorisce in un ambiente che diventa una sorta di paradiso terrestre.

    I depositi del vulcano, infatti, rendono il terreno ancora più fertile e disponibile ad accogliere nuove creature. La fauna superstite torna a popolare queste stesse zone così ricche di risorse. Affacciandosi verso l’acqua, tra le pietre rese lisce dalla forza della corrente, si nota un lieve movimento. Se si guarda meglio, stando in silenzio, si riconosce il profilo tozzo di qualche ippopotamo a bagno. Sono esemplari di hippopotamus amphibius, propensi a un tipo di vita acquatica. Non sono molto diversi da quelli che si potrebbero trovare oggi in alcune zone dell’Africa come l’Uganda o il Mozambico. Un tempo, anche una crociera sul Nilo avrebbe dato l’occasione di vederli, immersi nel loro elemento naturale. Oggi sono una specie classificata come vulnerabile, a causa della distruzione degli habitat naturali e del bracconaggio. Esattamente come gli elefanti, infatti, gli ippopotami vengono cacciati per ricavare avorio da rivendere.

    Luoghi di oggi, familiari e conosciuti, rivelano sorprese impreviste.

    Nello stesso punto in cui sorge il San Camillo (vedi cap. 7), ospedale dove ogni giorno lavorano centinaia di persone e si curano migliaia di pazienti, c’è una landa aperta. Alberi altissimi, cespugli, qualche rigagnolo che passa in mezzo all’erba. Il vento scuote i rami delle piante e trasporta odori e suoni. Si percepisce, così, il verso di un grosso animale. Ha il pelo ispido e scuro, gli artigli affilati e un corpo gigantesco: è un orso. Non lontano, probabilmente, ce ne sono degli altri, adulti e cuccioli che seguono i loro genitori fuori dalle tane. Cercano cibo nei dintorni, si muovono a loro agio in un ambiente ricco di fonti di nutrimento.

    Le prove della sua presenza a Monteverde si scoprono sfogliando studi che risalgono al primo Novecento. In quest’epoca, prima che si decida di destinare il terreno alla costruzione dell’azienda ospedaliera, qui c’è una grande vigna: vigna San Carlo. Il nome in parte resta ancora oggi, ricordato da quello della Salita di San Carlo. Secondo quanto riportato nel volume 26 del Bollettino della società geologica italiana del 1908, da questo terreno coltivato a uva viene alla luce la mandibola fossile di un orso. Forse si tratta di un ursus orribilis o ferox, che nel Dizionario classico di storia naturale (1839) viene descritto come il più grande e il più feroce del genere.

    Così anche l’ippopotamo, placidamente immerso nei tanti corsi d’acqua che animano questo territorio, lascia tracce del suo passaggio. Tra le pagine degli studi specialistici, conservati in qualche grande biblioteca, si trova un rapido riferimento al quartiere. È nelle Memorie della pontificia accademia delle scienze. Nuovi Lincei che si legge: L’ippopotamo è indicato, con molti resti di vertebrati, nelle ghiaie siliceo-calcaree a elementi vulcanici presso la Vigna Rossi a Monteverde.

    Difficile dire esattamente in quale punto guardare oggi, per identificare il luogo del ritrovamento.

    1.3 Costola di elefante, dente di rinoceronte

    In mezzo alla grande piana scoscesa di Monteverde si avvicina un altro animale, ancora più grande e rumoroso nei suoi spostamenti. Sotto i suoi passi, la terra rimbomba. Lo annuncia un barrito, il suono inconfondibile che emette con la sua lunga proboscide. A cui rispondono altri suoni uguali, prolungati, la cui eco si spegne tra le foglie degli alberi.

    Un branco di elefanti antichi avanza.

    Sono molto alti e le loro zanne sembrano arrivare fino a terra, incurvandosi soltanto alle estremità. Pare quasi che debbano toccare il suolo. I maschi più anziani si riconoscono proprio da questo dettaglio: hanno zanne di quasi quattro metri, il doppio di un qualunque elefante dei giorni nostri. Si differenziano anche per le zampe, molto più lunghe di quelle degli esemplari contemporanei di elefante africano. Il cranio è molto più piccolo del corpo, stretto e allungato. Hanno anche la fronte sporgente. Sono comparsi in Italia circa ottocentomila anni fa e ci vorranno millenni per arrivare al momento dell’estinzione, che avviene circa quarantamila anni fa, durante l’ultima glaciazione. Si muovono in piccoli branchi, composti da poco più di una decina di esemplari. Nelle foreste che si aprono qui intorno riescono a trovare sempre nuovo nutrimento. Combattono, per difendersi dai tanti predatori che si aggirano alla ricerca di una vittima. Si accoppiano nelle radure. I loro piccoli nascono e crescono, imparando a cavarsela, a sfuggire alla morsa dei leoni, agli agguati delle tigri dai denti a sciabola.

    In alcuni casi, però, è il territorio stesso a decretare se riusciranno a vivere per un altro giorno.

    Spesso, infatti, questi grandi pachidermi si spingono fin dentro gli acquitrini. Hanno bisogno di assorbire i sali minerali, fondamentali per integrare la propria dieta fatta prevalentemente di vegetali. Si vede, allora, uno degli elefanti staccarsi dal gruppo e dirigersi verso la palude più vicina. Cammina piano, facendo oscillare la proboscide. Non ha timore, non vede intorno a sé pericoli da cui difendersi. Così, si immerge nella melma, entrandoci con tutto il corpo. Soltanto ora, mentre il fango gli si incolla alle zampe, poi alle ginocchia e alla pancia, si accorge che qualcosa non va. Cerca di dibattersi, i suoi grandi muscoli si tendono. Ma ogni sforzo è inutile. Il suo stesso peso lo inchioda, lo fa affondare in queste acque stagnanti che sono diventate una trappola mortale. Lo tira verso il basso, lentamente.

    Altrove, stando nascosti tra l’erba, si assiste alle corse dei rinoceronti. Il lungo corno che spicca sul muso li rende inconfondibili. Sembra davvero di trovarsi in Africa, più che nel territorio della futura Roma.

    Eppure già al tempo degli antichi romani, la terra comincia a restituire le ossa di questi grandi animali estinti.

    Addirittura nelle Vite dei Cesari di Svetonio (69 d.C.-122 d.C.) si racconta che è lo stesso Augusto a ideare una sorta di museo della storia naturale. Nella sua villa a Capri, uno dei luoghi preferiti dall’Imperatore, raccoglie resti giganteschi che sembrano appartenere a creature mai viste dagli esseri umani. Vengono chiamate, infatti, ossa dei giganti e armi degli eroi. Nessuno, in quest’epoca, capisce di cosa si tratti realmente.

    Tanto è vero che probabilmente a causa dei fossili di elefante si diffonde la convinzione che siano esistiti esseri chiamati Ciclopi: giganteschi energumeni caratterizzati da un unico occhio in mezzo alla fronte. L’episodio dell’Odissea

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