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Perché briganti?: La vera storia del "brigante" Giuseppe Villella di Motta S. Lucia (CZ)
Perché briganti?: La vera storia del "brigante" Giuseppe Villella di Motta S. Lucia (CZ)
Perché briganti?: La vera storia del "brigante" Giuseppe Villella di Motta S. Lucia (CZ)
E-book218 pagine8 ore

Perché briganti?: La vera storia del "brigante" Giuseppe Villella di Motta S. Lucia (CZ)

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Con questa ricerca storica “Perché Briganti?, gli autori descrivono il fenomeno del brigantaggio in Italia prima dell’Unità e partendo dai periodi più remoti, con particolare riferimento alla Calabria, distinguendo quello ordinario, costituito da organizzazioni malavitose dedite alla grassazione, perpetrate nelle campagne o sulle montagne, ma che più spesso agiva lungo le vie di comunicazione tra i centri abitati ai danni di inermi viandanti, da quelli derivanti da insofferenze sociali e passati per bassi fenomeni di banditismo come è il caso di quello di recente memoria post unitaria e definito dalla letteratura italiana come un “…..ampio fenomeno misto di banditismo e di ribellione politico sociale nelle campagne del Mezzogiorno, dopo l'unificazione italiana che, con l'imposizione di misure amministrative e fiscali di particolare durezza, ivi comprese la completa abolizione dei secolari usi comuni delle terre a tutto vantaggio del latifondo, di grandi dimensioni ma solitamente mal coltivato ed adibito a colture estensive, che diede esca alla propaganda filoborbonica e clericale, ostile al nuovo stato liberale e a sua volta incapace di una politica che non fosse di pura repressione.
LinguaItaliano
EditoreBookBaby
Data di uscita1 apr 2014
ISBN9781483523408
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    Anteprima del libro

    Perché briganti? - Domenico Iannantuoni

    Copyright © 2014

    Proprietà letteraria riservata

    Copertina di MAY-C S.r.l.

    Litografia in copertina di M. Carnevale

    ISBN: 9781483523408

    A tutti coloro che furono chiamatibriganti ma vissero

    invece da eroi e da martiri per difendere i loro territori

    dalla violenta e crudele invasione piemontese

    PREFAZIONE

    Correva l’anno 2009, quando la giunta del comune di Motta Santa Lucia, da me presieduta deliberava per la restituzione dei resti mortali del proprio concittadino, Giuseppe Villella, illegittimamente esposti nel museo antropologico dell’Università di Torino. Vista la resistenza della stessa Università, il comune di Motta Santa Lucia, decise di citare in giudizio l’Università di Torino, al fine di poter dare degna sepoltura al suo concittadino. Il giudice Gustavo Danise del Tribunale di Lamezia Terme emise un’ordinanza di restituzione, che costituì un precedente giurisprudenziale, inedito per l’Italia, accogliendo così le tesi difensive dei legali Anna Caterina Egeo, per il Comitato Nolombroso e dell’avv. Gaetano Giovanna per il comune di Motta Santa Lucia.

    Con uno scarto di molti decenni rispetto alla storia di altri paesi occidentali, l’Italia si scopre proiettata in un presente postcoloniale, popolato di comunità nativa, e impreparata ad affrontare la controversa questione della repatriation dei resti umani. Sottovalutata e, a volte, silenziata. Un precedente sul terreno di ricerca, sulle ossa della discordia, in Oceania e in Francia. Il coro di proteste di associazioni e movimenti neomeridionalisti, contro l’inaugurazione del nuovo allestimento del museo Cesare Lombroso, il 27 novembre del 2009, coglieva di sorpresa i responsabili dell’istituzione museale torinese.

    L’Italia è molto cambiata da quel 1985, quando il cranio del «brigante» Giuseppe Villella fu esposto nella Mole Antonelliana, da marzo a giugno, in occasione della mostra La scienza e la Colpa: 120.000 visitatori e nessuna manifestazione di dissenso. Giuseppe Villella allora non esisteva, se non come inerte reperto di un’improbabile collezione scientifica.

    Il Comitato Tecnico Scientifico No Lombroso è sorto nel maggio 2010 come reazione all’apertura del museo intitolato a Cesare Lombroso, ed ha come fine quello di sottolineare il disvalore scientifico delle teorie criminologiche e di arbitraria devianza sociale, come sostenute da Lombroso. A loro, infatti, hanno fatto seguito derive profondamente discriminatorie, tali da colpire chiunque si scostasse dal dissennato paradigma di «normalità» elaborato dal medico veronese. Cesare Lombroso non merita alcun museo… anzi si dovrebbe giungere alla cancellazione da tutte le strade a lui intitolate! Il medico veronese fu il fondatore di una scienza dimostratasi erronea nei presupposti e nelle congetture, poggiata sulla tesi dell’uomo delinquente nato o atavico, riconoscibile dalla semplice misurazione antropometrica del cranio e dai lineamenti del viso o dalle dimensioni degli arti. Ossia, dell’individuo recante in sé, nella propria struttura fisica, i caratteri degenerativi che lo differenzierebbero dall’uomo normale e socialmente inserito. A tal punto gli studi di fisiognomica e frenologia forense, scientificamente ed eticamente infelici, costituirono presa sulla società del tempo, tanto che ne rimasero gravemente condizionati anche le indagini e i processi penali come nel caso del soldato calabrese di Girifalco, Salvatore Misdea, che fu condannato a morte, su suggerimento di Cesare Lombroso (padre del razzismo e inventore della razza superiore…), nonostante tale pena in Italia fosse stata abolita da tempo. I teoremi lombrosiani hanno rappresentato il fondamento delle dottrine razziste, facendo sì che nel corso dell’Ottocento, nella nostra nazione, prendesse vita la teoria sulle «Due Italie», con il Sud vittima di una pesante discriminazione fomentata dall’idea razzista su basi scientifiche di Lombroso e dei suoi allineati discepoli. Il Comitato Tecnico Scientifico No Lombroso si propone di svolgere la sua attività a difesa dei più alti valori umani, avverso qualsiasi forma di discriminazione, sollecitando un Disegno di Legge che metta al bando la memoria di uomini colpevoli direttamente o indirettamente di delitti connessi con crimini di guerra o di razzismo. Ma chi era Giuseppe Villella, prima di rinascere come simbolo della «riscossa dei terroni»? cerca di spiegarcelo lo storico locale ing. Francesco Antonio Cefalì ed il Presidente del Comitato No Lombroso ing. Domenico Iannantuoni, che dopo anni di ricerca, tentano di chiarire al grande pubblico, attraverso questo volume molti dubbi su fatti, date, episodi salienti della vita di Giuseppe Villella, portando altresì alla luce l’inedita storia del brigantaggio a Motta Santa Lucia, relativamente alla fine del 1800.

    Nei primi due capitoli, gli autori affrontano il fenomeno del brigantaggio, pre e post unitario e nel terzo, la storia del brigantaggio, soprattutto calabrese, alla luce di materiale storico, tenuto volutamente nascosto. A chiederlo per la prima volta, racconta l’autore, fu l’On. Angelo Manna il 4 Marzo del 1991, attraverso un’interpellanza parlamentare alla Camera dei Deputati, sui crimini commessi dai piemontesi durante l’annessione forzata del Meridione all’Italia. E’ un susseguirsi di verità storiche, emerse dopo 100 anni, che farebbero rabbrividire anche il più ostinato seguace della Lega Nord (certamente d’origine Calabrese), che ignora il sangue versato della gente del Sud, i soprusi, le umiliazioni, le violenze sulle nostre donne. Il Sud sotto il Regno Borbonico era "l’unica potenza economica d’Italia. Profonda la definizione di Giustino Fortunato …….l’Unita’ d’Italia è stata purtroppo la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico sano e profittevole. L’Unita’ ci ha perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che in quelle meridionali………

    Grande onore, da primo cittadino del mio paese, da giugno del 2009, provo per il tempo che gli autori hanno voluto dedicare alla ricerca prima ed alla elaborazione del quarto capitolo del libro, dedicato al processo politico del presunto brigantaggio a Motta Santa Lucia prima dell’Unità.

    Gli stessi scoprono, la presenza a Motta Santa Lucia, di una "Associazione segreta, ossia setta, vietata e dichiarata manifesto attentato alla legge", capeggiata da Francesco Saverio Colosimo, con associati di tutta la provincia di Catanzaro.

    Un’immersione nel passato, ancora attraverso le sentenze, interamente trascritte, sui briganti di Motta Santa Lucia. Lasciano col fiato sospeso le descrizioni dello spaccato storico della vita del 1800, in una Calabria inedita, che i libri di scuola non ci hanno mai raccontato. Storie di furti, di lotte per un ideale d’indipendenza, per amor verso la propria terra, ma anche storie d’amore, di vendette per i soprusi a firma dell’odiato straniero conquistatore. Ancora una volta, grazie al prof. Cefali Francesco Antonio e al Presidente del Comitato No Lombroso, il piccolo centro della Valle del Savuto, Motta Santa Lucia, posizionato lungo il tracciato della vecchia Via Popilia, nei cui pressi, dopo oltre 2000 anni rimane sopravvissuto a terremoti e intemperie, il ponte Romano, detto di Annibale.

    Vi consiglio vivamente la lettura del libro, soprattutto per coloro che hanno preferito alla strada dell’emigrante quella di brigante, ma anche a quelli che non hanno mai reciso il cordone ombelicale con le radici calabre e che vogliono conoscere, pagine di storie di una Calabria che i libri ufficiali di scuola non ci hanno mai raccontato, perché la storia è scritta sempre dai vinti e mai dai vincitori.

    Buona lettura.

    Avv. Amedeo Colacino, sindaco pro tempore di Motta Santa Lucia CZ

    …Io l’amo profondamente la mia Calabria, ho dentro di me il suo silenzio, la sua solitudine tragica e solenne. Sento che pure qualcosa dovrà venire fuori di lì: un giorno o l’altro dovrà ritrovare dentro di sé ancora quelle tracce che conserva dell’antica civiltà della Magna Grecia. Io non ho sentimenti di nostalgia verso i luoghi di Calabria e la sua gente. È come se non mi fossi mai mosso dalla nostra terra. Essa è dentro di me come il sangue… .

    SAVERIO STRATI

    CAPITOLO I

    IL BRIGANTAGGIO PRIMA DELL’UNITA’

    Il fenomeno del brigantaggio ha origini remote ed è stato storicamente presente ovunque in Europa. Per quanto riguarda l’Italia, lo si ritrova in tutte le sue aree geografiche, pur con diverse connotazioni. Il brigante, il cosiddetto bandito, in genere viveva di rapine perpetrate nelle campagne o sulle montagne, ma più spesso agiva lungo le vie di comunicazione tra i centri abitati ai danni d’inermi viandanti. Nella letteratura italiana il brigantaggio è invece identificato e definito come un "…..ampio fenomeno misto di banditismo e di ribellione politico sociale nelle campagne del Mezzogiorno, dopo l’unificazione italiana che, con l’imposizione di misure amministrative e fiscali di particolare durezza, ivi comprese la completa abolizione dei secolari usi comuni delle terre a tutto vantaggio del latifondo, di grandi dimensioni ma solitamente mal coltivato ed adibito a colture estensive, che diedero esca alla propaganda filoborbonica e clericale, ostile al nuovo stato liberale e a sua volta incapace di una politica che non fosse di pura repressione. Le bande di briganti, che già costituivano un male endemico di quelle campagne, si ingrossarono rapidamente, raggiungendo le migliaia d’unità e creando episodi di violenza cieca e raccapricciante ma anche all’occupazione temporanea d’interi e popolosi centri fino al rischio di unificarsi in un esercito insurrezionale…. Questa visione parziale del fenomeno è frutto di una sterile propaganda volta alla santificazione del processo d’unificazione italiana, ossia del risorgimento, che ha cristallizzato il fenomeno italiano tra il 1860 ed il 1970. In Italia manca, volutamente, una visione ontologica ed estesa del fenomeno del brigantaggio e/o del banditismo, mentre altrettanto certamente l’identificazione del malaffare" con gli ambienti e le popolazioni delle regioni meridionali è diventato luogo comune fino a creare un pregiudizio da riflesso pavloviano ¹ veramente ridicolo. Diversa sorte si segnala per i briganti d’origine settentrionale, o addirittura d’altri Paesi, dove il riflesso di Pavlov si ribalta e al brigante si associa subito un pensiero positivo. Tra i più famosi briganti, non nostrani, dobbiamo per esempio ricordare Robin Hood, storicamente esistito e divenuto leggenda tanto che nell’immaginario collettivo rappresenta ancora oggi la giustizia del Popolo contro le angherie del Governo, il riscatto del povero verso le classi sfruttatrici e quindi ricche. E’ del tutto evidente che tale dicotomia di pensiero, Nord buono e Sud cattivo, non può che essere frutto di una manipolazione storica e di un condizionamento educativo artatamente congegnato nel tempo con particolare riguardo, in Italia, dal 1860 ai giorni nostri.

    *

    In effetti, s’iniziò a parlare di rivolte, ma non di brigantaggio, già nel periodo dell’antica Roma ² quando a Taranto, intorno al 185 a.C., avvenne un’insurrezione sociale composta perlopiù da pastori, che formarono vere e proprie bande ³. Per risolvere la questione, il pretore Lucio Postumio Tempsano attuò una dura repressione che portò alla condanna di circa 7.000 rivoltosi; alcuni furono giustiziati, altri fuggirono ⁴.

    Anche Lucio Cornelio Silla, nell’81 a.C., prese provvedimenti contro gli allora banditi, chiamati in quel tempo sicari o latrones ⁵ con pene capitali come la crocifissione e l’esposizione alle belve. Nel 35 a.C., Giulio Cesare affidò al pretore Gaio Calvisio Sabino il compito di combattere con decisione la delinquenza che imperversava nel suo impero ⁶. Nel 26 a.C., Ottaviano Augusto combatté le rivolte in Spagna dove agiva Corocotta, un legittimista, mentre Tiberio deportò 4.000 ebrei in Sardegna per combattere i ribelli, per paura che potessero insorgere istigati da rivali politici.

    In età medievale il fenomeno si sviluppò in particolar modo nell’Italia centro settentrionale, dove si formarono bande composte non solo da comuni banditi ma anche da avversari politici o persone agiate cacciate dalla loro residenza, per poi subire la confisca dei loro patrimoni e per sopravvivere furono costretti a darsi alla macchia, aggredendo mercanti e viaggiatori. Nella seconda metà del XIV secolo si registrarono numerose attività di banditismo nel cassinate ad opera di Jacopo Papone di Pignataro e Simeone di San Germano, i quali, con continui saccheggi perseguitarono le popolazioni locali.

    In Toscana scorrazzava, invece, Ghino di Tacco, figlio del nobile Tacco di Ugolino, signore della Tenuta La Fratta di Sinalunga (SI), ghibellino e sostenitore dell’imperatore. Ghino di Tacco, considerato dalle sue vittime un brigante gentiluomo, depredava chiunque. Dalla fine del 1500 agli inizi del 1800 si svilupparono gruppi di fuorilegge, composti principalmente da soldati mercenari sbandati, da contadini ridotti alla fame o da pastori, che dopo avere rubato dei capi di bestiame ai latifondisti si davano alla latitanza. Alle attività illegali e ad ingrossare le file dei banditi ci pensarono anche alcuni preti di campagna, che vivevano in quel tempo di un malcontento e di un malessere molto diffuso nel clero rurale. Nella seconda metà del cinquecento operò, nell’Italia centrale e meridionale, il rivoltoso abruzzese Marco Sciarra o Sciarpa, il quale, con circa un migliaio di uomini e con una serie di scorrerie e di assalti diventò nemico sia degli spagnoli sia dalla Chiesa. Nello stesso periodo troviamo Alfonso Piccolomini, un nobile senese, già capitano del popolo dal 1528 al 1541 grazie a Carlo V, che scelse la strada del banditismo nel Lazio, nelle Marche e nell’Umbria per combattere lo Stato della Chiesa. Nel 1557, papa Paolo IV fece distruggere il paese di Montefortino, vicino Roma, considerato un covo di ribelli e poi sulle macerie fece spargere il sale ⁷.

    Nel 1594 papa Clemente VIII si lamentò col Nunzio di Napoli per il comportamento del Vicerè della sua città che "……mostrandosi favorire i banditi di questo Stato mette nella necessità di continuare nelle gravi spese che si son fatte fin adesso nella loro persecuzione ………………………………….". Alla fine del XVI secolo troviamo in Calabria il rivoltoso Marco Berardi di Mangone, nei pressi di Cosenza, conosciuto anche come Re Marcone, che alla testa di una banda di rivoltosi combatté contro il potere degli spagnoli e di quello ecclesiastico ⁸. Dopo qualche successo militare nei pressi di Crotone, Pedro Afàn de Ribera, vicerè di Napoli, incaricò il marchese di Cerchiara Fabrizio Pignatelli, che a capo di un piccolo esercito ⁹ composto di duecento cavalieri, mille fanti spagnoli e altrettanti cavalleggeri lo sconfisse, ma non lo catturò. Secondo lo scrittore e pubblicista Giuseppe Rovani, nel napoletano, durante i due secoli di dominazione spagnola, i banditi dominavano nelle campagne ed i nobili, per non subire violenze, erano obbligati a farsi proteggere da loro. Papa Clemente VIII, nel 1595, inviò alcune compagnie di cavalleria nei territori di Anagni e di Frosinone dove erano presenti più bande di malavitosi. Nello stesso anno il vicerè di Napoli, il conte Olivarez, ordinò un’azione repressiva contro le bande che infestavano il regno e aggredivano, in agguati nei boschi o nei tratti montuosi delle strade, i viandanti e i corrieri derubandoli e talvolta uccidendoli. Alcune volte rapivano delle persone facoltose per chiederne poi il riscatto. La presenza del banditismo, sempre vigorosa nonostante la repressione a cui era sottoposto, era in parte dovuta all’appoggio che trovava, a turno, dai governi del granducato di Toscana con i de’ Medici, di Roma o di Napoli, a causa dei loro frequenti dissidi. Nel marzo 1645 fu promulgato un indulto generale verso tutti i banditi su cui pendeva una condanna di morte, potenzialmente 6000 su di una popolazione di 2 milioni di abitanti, a condizione del loro arruolamento nella milizia.

    Il 18 luglio 1696, il cardinale Fabrizio Spada, segretario di stato di papa Innocenzo XIII, fu costretto ad emanare un apposito

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