Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Savant
Savant
Savant
E-book951 pagine11 ore

Savant

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Hank Russel e Zach Schmulevitz, due detective della omicidi dirottati per opposti motivi alla Human law enforcement, l'unità della polizia di New York che si occupa di crimini contro gli animali, si imbattono in una indagine che cambierà per sempre il corso delle loro vite. Dall'orrore che si cela dietro la porta della suite 900 del Roosevelt Hotel, alle terre selvagge del Nord Dakota e fino in Texas, si ritroveranno faccia a faccia con un orrore primitivo e possente che pretende di essere ricomposto in un disegno al di là di ogni impaginazione.
LinguaItaliano
Data di uscita8 nov 2018
ISBN9788829546688
Savant

Correlato a Savant

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Savant

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Savant - JON MIRKO

    © 2018 Lupi Editore

    Via Roma 12, 67039 Sulmona (AQ) 

    Tutti i diritti riservati www.lupieditore.it

    ISBN 978-88-99663-49-0

    Finito di stampare nel mese di 

    aprile 2018 presso Universal Book srl - Rende (CS) 

    per conto della casa editrice Lupi Editore 

    SAVANT

    TERRE RARE 

    di

    Jøn Mirko 

    UNO

    Om śānti śānti śāntiḥ

    Non mi spaventa non sapere le cose, 

    perdermi in un universo senza scopo, 

    che è come stanno le cose, 

    per quello che vedo. 

    Non mi spaventa. 

    Forse.

    Richard Feynman 

    LIBRI

    Nel grande gelo erano le otto del mattino, sempre. Aveva dormito poco e male per la tensione. Non lo vedeva da due giorni, ma il momento stava per arrivare. Non doveva sbagliare, niente. Entrò nella biblioteca lentamente, quasi in punta di piedi. Richiuse dietro di sé la porta di noce massiccio, ponendo la massima attenzione affinché lo scatto della serratura producesse il minimo rumore possibile. Ciò nonostante si fermò per quasi un minuto, immobile, ad attendere qualcosa, quasi trattenendo il fiato. Non accadde niente. Si avvicinò all’unica finestra e, dosando la forza, tirò con piccoli strappi discreti il pesante tendaggio di velluto blu, millimetro dopo millimetro, fino a chiuderlo completamente. L’operazione durò a lungo.

    A Lui non piaceva la luce.

    Quando la stanza fu completamente al buio trascorsero altri interminabili minuti. Poi sentì il ronzio elettrico. Si stava avvicinando. La porta della biblioteca si aprì.

    Lui era lì.

    Si accorse che stava sudando. Accese una piccola torcia tascabile, ma aveva dimenticato di dirigerla sul pavimento e, per un attimo, il fascio di luce illuminò la figura immobile davanti alla porta. Spense immediatamente, terrorizzato, attendendo una reazione. Restò immobile al buio per qualche minuto, cercando di placare il tumulto del suo cuore, augurandosi una morte immediata che ponesse fine alla sua vergogna e al flusso insopportabile di sangue e adrenalina che veniva pompato nelle sue vene ogni secondo.

    Attese.

    Sapeva che cercare di spiegare o scusarsi avrebbe solo peggiorato le cose. Era stato stupido. Stupido. Avrebbe dovuto prepararsi prima, ripercorrere tutti i gesti, uno a uno, sistematicamente. Provare e riprovare fino a quando la sua mente e il suo corpo fossero stati una sola cosa, un meccanismo automatico di assoluta perfezione e affidabilità. Così non era stato. Era già successo una volta, si era ripromesso di stare più attento, ma aveva rovinato tutto. Era uno stupido. La volta precedente ci erano voluti due giorni prima che Lui lo richiamasse a sé, adesso non sapeva neppure immaginare il distacco che si era procurato né per quanto tempo lui gli avrebbe negato la sua prossimità.

    Trascorsero alcuni minuti, la stanza era immersa nel silenzio e nell’oscurità, dal fondo della biblioteca giungeva soltanto, ovattato, il rumore del macchinario, un soffio regolare e ritmato, come di una marea frusciante di ossigeno che, poi, improvvisamente, si ritirava.

    Non accadeva nulla. Non sapeva se procedere col suo compito o attendere un rimprovero, un insulto, una punizione.

    Si fece coraggio e riprese da dove si era fermato. Puntò la torcia verso il basso e la accese. Una tenue luce rossastra filtrava tra le sue dita, attese che gli occhi si abituassero a quella vaga luminosità, poi si diresse verso il centro della stanza.

    Sul tavolo era posato un enorme vaso di cristallo trasparente, dentro, migliaia di minutissimi pezzetti di carta, ognuno ripiegato con precisione. Erano quindicimilatrecentodiciotto, lo sapeva, li aveva preparati lui, uno per uno, ritagliando i fogli con una taglierina e scrivendo su ognuno, col normografo, un numero. Aveva suggerito di usare un computer e una stampante per abbreviare il lavoro ma, naturalmente, sbagliava. Lui gli aveva dovuto spiegare che il lavoro manuale era un presupposto attraverso il quale lo spirito si innalzava purificandosi. Gli aveva spiegato dei copisti amanuensi e del principio di devozione. Un fondamento medioevale, una regola importante ormai quasi del tutto perduta. Ovviamente, aveva ragione.

    Puntò la torcia sul vaso, vi introdusse una mano ed estrasse un foglio a caso. Aprì con accuratezza il piccolissimo involucro e lesse cosa vi era scritto, poi lasciò il foglietto aperto sul tavolo.

    Nel caso Lui avesse voluto controllare, più tardi.

    Si diresse verso le librerie, verificò la numerazione, poi fece scorrere la scala di legno sulle antiche guide di ottone, salì e con lo sguardo seguì la luce che scorreva sui dorsi dei libri, sotto ognuno dei quali era fissata una targhetta con un numero inciso. Fermò la luce della torcia su uno dei numeri e sfilò il volume corrispondente dal ripiano. Poi tornò al tavolo. Aprì il libro su una pagina a caso e scelse una parola, più o meno al centro della pagina di destra.

    Poter scegliere la parola era stata una piccola conquista di un paio di anni prima, un premio per un lavoro ben svolto. Ora, forse, ne sarebbe stato privato. Immobile, in piedi, spense la luce e tirò fuori dalla tasca un cronometro. Attese che il suo cuore si placasse, usando la respirazione quadrata che Lui gli aveva generosamente insegnato durante uno dei loro viaggi. Quando fu certo che la tensione non lo avrebbe tradito, improvvisamente, a voce alta, cercando di scandire ogni parola, disse:

    «Libro duemilatrecentosette, pagina ottantatré, riga ventuno, parola sei». Appena finito di recitare i numeri fece scattare il pulsante del cronografo Patek Philippe che portava al polso e rimase in silenzio.

    Il fruscio ritmato del macchinario riempiva la stanza e, come un metronomo ovattato, gestiva l’entrata e l’uscita dell’ossigeno. Tra l’una e l’altra fase, il lievissimo scatto del relais.

    «Laudatur», sibilò, con una spossatezza innaturale, la voce in fondo alla stanza.

    «Esatto», rispose tremando, sopraffatto, gli occhi umidi di lacrime mentre bloccava il cronometro.

    Accese la torcia per controllare il tempo.

    «Otto secondi e quattro decimi!», affermò trionfante, rendendosi immediatamente conto di contaminare la purezza del suo entusiasmo con l’assurda speranza che l’ottimo risultato potesse in qualche modo cancellare l’errore di poco prima.

    La stanza ripiombò nel silenzio assoluto. Uno scatto. Due. La voce sussurrò: «Posso fare meglio di così». Poi, di nuovo, il ronzio elettrico. Lui se ne stava andando.

    Udì la porta della biblioteca richiudersi. Era felice. Nessuna punizione, nessuna perdita. E non sarebbe più successo, no di sicuro. In futuro sarebbe stato davvero attento.

    Decise comunque di bruciarsi il pollice sinistro, per non dimenticare. L’avrebbe fatto più tardi, coi ferri del camino, sarebbe stato un gesto gradito. Una forma di devozione.

    Era sicuro che Lui avrebbe apprezzato. 

    Capitolo 1

    Il Saint Mary Hospital era il simbolo di una frattura del tempo conficcata nel centro di New York.

    L’ala ovest era stata costruita poco più di dieci anni prima e concepita per rappresentare l’infallibilità della scienza, l’oggettività dei numeri, la certezza della diagnosi. Evidentemente, secondo gli architetti che ne avevano curato la ristrutturazione, tutto questo non poteva essere tradotto che con settecentonovantotto specchi esagonali incardinati ordinatamente in strutture affilate e cromate, lanciate ai confini di qualunque geometria in grado di intercettare una luce da riflettere. L’ala ovest del Saint Mary Hospital, infatti, risplendeva sempre.

    Anche quando il cielo era coperto da nubi scure.

    Anche di notte.

    Chiunque salisse la lunga scalinata che dal piazzale esterno conduceva alla sala accettazione veniva quasi schiacciato dall’imponenza delle torri d’alluminio, dalla spavalda certezza di linee senza dubbi di traiettoria. Chiunque, mentre ruminava le cinque o sei domande roventi sul suo futuro da rivolgere al primo camice bianco che avesse incontrato, maturava lentamente, scalino dopo scalino, la convinzione che tutte le certezze della scienza accumulate in cinquecento anni di progresso medico sarebbero state a sua disposizione.

    Se c’era una sola possibilità di salvezza, certamente si trovava lì.

    E subito, si sentiva meglio.

    Per quasi cento metri, parallele al terreno e a varie altezze, le linee cromate dell’ala nuova del Saint Mary calamitavano ogni fotone disperso nella galassia, rilanciandolo verso ulteriori conquiste dell’oscurità finché, senza alcun preavviso, le linee si interrompevano, mutilando ogni promessa di ulteriori faville e lì, quando la luce cessava improvvisamente di rincorrersi e di riflettersi, aveva inizio l’ala est del Saint Mary. L’ala oscura, quella che da centodieci anni accoglieva nel proprio ventre doloroso, in una struttura vagamente vittoriana, le sofferenze di uomini, donne e bambini. L’ospedale vero.

    Niente, se non la prossimità di mura così diverse, poteva raccontare con altrettanta sintesi l’evoluzione del pensiero umano durante l’ultimo secolo. Se l’ala ovest rappresentava il risultato della secolarizzazione del pensiero di un popolo e, quindi, la sua sfida al cielo, l’ala est, con la sua struttura apparentemente esile in piccoli mattoni rossi, cercava di circoscrivere l’impatto della sua stessa esistenza, di limitare l’ingombro del proprio scheletro, per suggerire l’idea che l’implicita misericordia della sua missione niente toglieva alla legittimità degli accidenti, evidentemente meritati, che Dio scagliava spesso e volentieri contro le sue stesse creature.

    Il Saint Mary, infatti, era un ospedale di rigorosa tradizione cattolica.

    L’assicurazione Red Cross era uno dei pochi benefit di una carriera a contatto giornaliero con rischi reali e gli avrebbe consentito facile accesso a un qualunque ospedale della città ma, in genere, quando un poliziotto aveva qualcosa che non andava, era al St. Mary che veniva a farsi curare. E Henry Hank Russell aveva qualcosa che non andava.

    Ne aveva avuto la certezza poco meno di un mese prima, mentre era alla guida di una Pontiac e stava per addentare un souvlaki.

    Era ancora mattina presto e il gusto piccante delle spezie sulla carne d’agnello contrastava col caffè bollente, ma a Hank i dolci non piacevano e Adrastos, sulla 55esima, era un punto di riferimento per chiunque amasse la cucina greca. Era con Williamson, il suo partner da quando il vecchio Greenaway se n’era andato in pensione a pescare salmoni nel New England, sempre che avesse tenuto fede ai suoi propositi. Ma, per quanto ne sapeva Hank, la pesca era solo uno dei tanti hobby condizionali di Frank Greenaway. Così li chiamava: hobby condizionali, cose che gli sarebbe piaciuto fare se non fossero state così complicate, o faticose, o non avessero richiesto così tanto tempo, o denaro, o...

    Insomma, si trattava di hobby ai quali Greenaway amava pensare che si sarebbe dedicato volentieri, ma che di fatto non aveva praticato nemmeno per un istante. Hank lo ricordava così: pieno di entusiasmo e con mille idee in testa da realizzare, quando fosse finalmente giunto il momento. Quando gli raccontava i suoi progetti, Greenaway lo faceva col sorriso beffardo e lo sguardo addestrato di chi racconta per l’ennesima volta una barzelletta ormai logora, e dopo tutto il tempo trascorso insieme, Henry sentiva terribilmente la mancanza del suo vecchio compagno.

    Da allora erano ormai trascorsi tre anni e il suo nuovo partner era diventato Williamson, a cui i genitori avevano dato come nome di battesimo Will, non si capiva se per una forma di umorismo perverso o per l’assoluta mancanza dello stesso. Henry era in macchina con Williamson e stavano tornando alla Centrale dopo aver raccolto una deposizione giù a down- town, quando era successo. Erano fermi al semaforo e Hank aveva appena chiesto a Will di passargli un souvlaki. Togliere il cibo dalle mani di Williamson era sempre un’impresa e Hank stava per insistere prima che il collega spazzolasse via tutto, come al solito. Così, mentre Will era lì con il souvlaki in una mano e la tazza di caffè nell’altra, dalla Centrale avevano passato la richiesta di un 10-30 sulla Delancey angolo Bowery, ad appena due isolati da dove si trovavano. Si erano trovati momentaneamente bloccati nel traffico, a causa di un camion della Kellog’s. La motrice era rossa, con alla guida una donna bionda piena di lentiggini e così, senza alcun motivo, a Hank era sembrato tutto sbagliato.

    Dovrebbe essere un camion di legname, aveva pensato.

    Solo che non c’entrava niente: un camion di legname era quello che aveva investito sua madre qualcosa come un secolo prima, ma d’un tratto Hank non riusciva più a pensare bene, il rosso della motrice sembrava dilagare ovunque, ferendo i suoi occhi con aghi luminosi che spillavano lacrime. Poi, d’improvviso, un odore di erba bagnata, e dietro questo un odore più leggero ma inconfondibile, l’odore di una città che era Wichita Falls, e precisamente Wichita Falls in un pomeriggio di autunno. Come se si potesse entrare in profumeria e chiedere una cosa così, pensò, e poi pensò che sarebbe stato bellissimo, poterlo fare, e pensò anche checcazzosuccede mentre l’odore, che era dolce e sapeva d’infanzia, si spandeva ovunque intorno a lui. Erano trascorsi solo pochi secondi, e Hank era ancora lì, confuso, con la freccia inserita e pronto a svoltare, quando nella testa gli era esplosa la voce di Billy Gritner che gli diceva, anzi gli urlava, di spedirla in orbita, cazzo. Di spedirla in prima base!!! Urlava così forte che Hank pensò che da un momento all’altro avrebbero cominciato a sanguinargli le orecchie.

    Era terrorizzato, al punto che riuscì solo a puntare i piedi sul pedale del freno e a tirare quello a mano, con l’unica preoccupazione di non investire nessuno. Qualcuno da dietro suonò, il semaforo era verde e stavano bloccando il traffico. Hank si aspettava che, così come era cominciata, da un secondo all’altro quella follia sarebbe terminata. Invece era ancora fermo all’incrocio con Billy Gritner a urlargli nelle orecchie e nel naso l’odore di una città in cui non metteva piede da quasi quarant’anni. Tutto il resto, la chiamata, Williamson che cominciava ad agitarsi, le macchine dietro che suonavano, la camionista che si sporgeva dal finestrino a guardare, erano solo rumore di fondo, mille chilometri lontano da lui.

    Tecnicamente, quella che sentiva era la voce di un fantasma.

    Billy era morto quindici anni prima colpito da una trave di acciaio mentre costruiva una banca giù a Wichita, ma quella che Hank sentiva, era la voce di Billy nel furore dei suoi quattordici anni, mentre erano nel campo da baseball dietro la scuola e stavano per dare una lezione memorabile ai ragazzi di Westindon. Nella sua testa, Billy non era affatto morto anzi, era in gran forma anche se l’unica cosa che riusciva a dire era di spedirla in orbita, cazzo, di spedirla in prima base! E nonostante non avesse alcun senso, Billy Gritner urlava così forte che Hank non poteva muoversi, non era in grado di pensare, a malapena poteva tenere gli occhi aperti. «Hank...».

    «Sì, lo so».

    Colpiscila Hank!!

    «È un 10-30, dobbiamo andare». «Sì». «Devi girare qui a sinistra!». «Sì, Will...». Spediscila in prima base!

    «Ti senti bene?».

    «È tutto a posto, ora vado».

    «Hank...».

    Spediscila in orbita! Spediscila in prima base! «Hank...».

    «Cristo santo, Will, aspetta un secondo!». "SPEDISCILA IN PRIMA

    BASE!"

    A Hank sembrava di urlare e invece stava solo sussurrando, si rese conto di essere sul punto di svenire e sentì il panico arrivargli addosso, improvviso e compatto come un muro di mattoni.

    Non poteva svenire.

    Non poteva restare immobile.

    Non poteva continuare un minuto di più a sentire le voci nella testa, come quell’eroina francese del quindicesimo secolo.

    Così, mentre sfilava le chiavi dal quadro e le passava a Will con la vaga idea di prendere tempo, Hank si morse la lingua così forte da farsela sanguinare. Funzionò, il dolore era intenso, Billy continuava a urlare di spedirla in orbita, ma la New York del 2010 aveva appena acquistato qualche punto di consistenza in più sulla Wichita Falls del 1969. Hank pensò che il ricordo quella sera avrebbe fatto più male di adesso, poi si azzannò la lingua di nuovo. Stavolta fece davvero molto male, ma fu ancora meglio perché la voce di Billy si ridusse improvvisamente a un mormorio, mentre Williamson si chinava su di lui per capire cosa ci fosse di sbagliato. Per un attimo Hank ebbe il terrore irrazionale che se si fosse avvicinato abbastanza, Will avrebbe potuto sentire la voce di Billy Gritner uscirgli fuori dalla scatola cranica, come da un paio di cuffie rotte.

    Hank aprì la portiera e si spinse fuori di peso.

    «Guida tu che io faccio il giro».

    Ma non fece il giro.

    Riuscì appena a uscire, che subito fu costretto ad appoggiarsi con la schiena alla macchina, quindi cominciò a scivolare verso il basso mentre la camicia si sollevava sulla lamiera bollente della portiera posteriore, lasciando la pelle scoperta contro il metallo rovente. Da un altrove che si assottigliava a un puntino luminoso come in uno schermo televisivo della sua infanzia, la voce di Billy Gritner ribadì per l’ultima volta il concetto, dicendo che sì, doveva proprio spedirla in prima base, cazzo.

    Poi, il nulla.

    Quello che vide quando riaprì gli occhi era Williamson che guidava e, siccome era semisdraiato sul sedile del passeggero ed erano in movimento a sirene spiegate, significava che si era perso un pezzo della storia. Un pezzo piccolo, fortunatamente.

    «Ti porto in ospedale».

    «Sto meglio».

    «Un cazzo. Ti porto in ospedale, Hank».

    Capì che non sarebbe stato facile, Williamson non era cattivo, ma non reggeva la pressione. Riuscì a tirarsi su e cominciò a infilarsi la camicia nei pantaloni. Nessuno prende sul serio un uomo con la camicia mezza fuori, soprattutto se si tratta di discutere le proprie condizioni di salute.

    «Niente ospedale Will, non è successo niente».

    «Sei svenuto Hank, questo è qualcosa».

    «Solo un colpo di calore».

    Hank cercò di minimizzare, sperando che Will se la bevesse almeno un po’ e che il caldo e la prospettiva di passare metà pomeriggio in ospedale e l’altra metà seduto a riempire scartoffie potessero rendere le sue parole in qualche modo più convincenti, più vere. Ma Williamson non aveva alcuna intenzione di cedere, era impaurito e dietro il senso di responsabilità e il naturale istinto di pararsi il culo, Hank avvertiva una preoccupazione sincera.

    Non aveva scampo.

    «Certo, come no. È la stessa cosa dell’altra volta?». Hank poté solo confermare.

    «Già».

    C’era stata un’altra volta.

    D’altronde, non è sempre così?

    L’ala est del Saint Mary non aveva accettazione. Chi entrava dall’ingresso defilato sulla trentasettesima aveva già fatto il suo bagno di speranza nell’ala moderna, lì era stato spogliato, palpato, rassicurato e infine smistato dagli efficienti terminali in silicio verso chi si sarebbe occupato davvero della sua patologia, quindi sapeva dove andare.

    Hank era stato chiamato.

    Aveva fatto il giro degli accertamenti diagnostici, il pieno di raggi X e marcatori radioattivi, infine aveva verificato quanto fosse difficile rimanere immobile per trenta minuti all’interno di un tubo di plastica, mentre impulsi invisibili, annunciati da rumori inquietanti come di discoteche clandestine, scandagliavano ossa e viscere da cima a fondo.

    Poi, non gli era rimasto che aspettare la telefonata.

    Ogni giorno che trascorreva, celava l’ansia sotto qualche tappeto della sua coscienza: sapeva che tanto più grave fosse stata la patologia, tanto prima lo avrebbero contattato.

    «Henry Russell?», chiese infine una voce di ragazza efficiente.

    «Sì, sono io», pausa.

    L’impiegata all’altro capo del filo indugiò, probabilmente sottolineava il suo nome all’interno di una lista.

    «Margareth Jennings dal Saint Mary Hospital», riprese, «il dottor Jarni

    Singh Mahaputra l’aspetta domani alle ore 16.00 piano terzo, stanza 675, ala est. Confermo?».

    «Sì, certo», disse Hank in un soffio, assolutamente impreparato a memorizzare quella piccola raffica di dati.

    «Come ha detto che si chiama il medi...».

    «Jarni Singh Mahaputra», lo interruppe immediatamente. «Ha una penna? Faccio lo spelling?».

    «No, no. Ho capito, Mahaputra».

    «Jarni Singh Mahaputra, ore 16.00 piano terzo...».

    «Ok. Ho capito». Stavolta la interruppe lui. «Buona giornata», concluse la voce della signorina.

    Una settimana, pensò Hank. Ci avevano messo una settimana. Tre giorni e avrebbe avuto la certezza di essere nei guai fino al collo; dieci e sarebbe stato un paziente di routine, malato ma curabile. Dopo quindici, solo l’ennesimo ipocondriaco del cazzo.

    Ma una settimana, cosa voleva dire una settimana? Nella lotteria mentale a cui Hank aveva giocato praticamente ogni istante da quando lo avevano visitato, una settimana non era semplicemente contemplata.

    Né troppo né troppo poco; era a cavallo della massima indecifrabilità, al centro esatto delle probabilità che corrono tra stappare una bottiglia dandosi del coglione e il dover pensare a chi lasciare il frigorifero e a chi invece la collezione di dischi. Merda, concluse, mentre addestrava i suoi occhi a saltare l’ultimo ostacolo della giornata e a chiudersi lentamente. Senza sonno.

    Alle quattro meno un quarto del giorno dopo fuori pioveva ed erano in tre ad attraversare i lunghi corridoi sovrastati dagli altissimi soffitti a volta dell’ala est del Saint Mary.

    Hank Russell e i suoi due emisferi cerebrali.

    L’emisfero destro era l’infaticabile buontempone che continuava a dargli pacche sulle spalle, a ridere di lui e della sua ansia suggerendogli statistiche su quanto fosse difficile morire alla sua età. L’altro, quello di sinistra, era un direttore di banca, che scuoteva la testa sul suo conto in rosso. Intanto, ogni frase, ogni accenno, determinava la lenta chiusura di un sottile diaframma che tagliava l’aria fuori, lontano da lui, costringendo il suo cuore a una disperata rincorsa pur di mantenere il passo, veloce, e le mani, ferme. Mentre, come un figlio di genitori separati, assisteva perplesso alla discussione e al vano tentativo di entrambi di tirarlo dalla loro parte, Hank continuava a osservare, in alto, lo spesso strato di intonaco sulle volte sovrastanti, apprezzando il tentativo, inutile, di nascondere ai visitatori le inevitabili infiltrazioni di acqua piovana, le mille crepe, le sottili imperfezioni che testimoniavano, ancora una volta, l’ostinazione del Saint Mary di rimanere un edificio vagamente vittoriano, a piccoli mattoni rossi, così come si addice, da sempre, a un luogo di infinito dolore.

    La sala d’aspetto era piena. Sulle poltroncine in plastica azzurra al centro della stanza una quindicina di persone attendeva il proprio turno per accedere a uno degli studi che si aprivano lungo il corridoio, come passeggeri in una sala d’imbarco, in attesa della chiamata per il proprio volo verso casa, o verso il nulla.

    Hank diede il suo nome all’infermiera e attese.

    I suoi compagni di viaggio erano la solita variegata umanità newyorchese, c’erano pochi ragazzi però, e un solo bambino. Giocava con un supereroe deforme, coperto di squame, con uno sguardo omicida e a lui, ovviamente, del tutto sconosciuto. La sua esperienza di supereroi iniziava e finiva con i classici Marvel, ma il mondo, a quanto pare, era andato avanti.

    Hank non sapeva se il bambino fosse un passeggero, o se avesse solo accompagnato la madre all’imbarco. In ogni caso non gli sembrava giusto. Qualunque fosse la meta, il loro non era un viaggio per famiglie, questo era sicuro.

    Mentre filavano verso il Saint Mary, quasi dieci giorni prima, Williamson gli aveva chiesto se fosse stato come la volta precedente. La volta in cui era cominciato tutto.

    Era stato qualche tempo prima, erano al Mullaghan’s a fare il punto sul caso che la stampa aveva ribattezzato Resurrection Joe. Una storia piuttosto bizzarra.

    C’era questo tale, Joe Velasquez, un balordo del Queens, piccolo spacciatore e rapinatore a tempo perso, che era stato coinvolto in una sparatoria durante un tentativo di rapina.

    Era entrato in un Seven-Eleven e aveva cercato di portarsi via l’incasso, solo che il gestore, un immigrato palestinese che aveva trascorso l’infanzia tra guerriglieri Hezbollah da una parte e l’esercito israeliano dall’altra, non era rimasto granché impressionato dalla sua 38, e aveva cacciato da sotto al bancone un fucile a pompa.

    Aveva sparato un colpo in aria, continuava a ripetere agli agenti, solo per spaventare, giurava. Ma a Velasquez, che nonostante la sua attività aveva avuto un’infanzia assai meno pericolosa, aveva ceduto il cuore, e si era accasciato a terra, morto.

    Il bambino stava continuando la sua battaglia aerea, in ginocchio su una sedia alle sue spalle. Hank aveva praticamente l’impianto audio della Industrial Light and Magic a cinque centimetri dall’orecchio sinistro, ma la cosa non gli dava alcun fastidio. A Hank piacevano i bambini. Quando si girò a guardarlo si scambiarono un sorriso d’intesa. Ricordava perfettamente cosa si provava ad avere otto anni. Avrebbe voluto chiedergli almeno il nome di quell’eroe rivoltante e coriaceo, ma oggigiorno qualsiasi adulto che parli con un bambino è un pedofilo, un mazzo di fiori è una molestia sessuale e ogni arabo è un terrorista. Un mondo in piena crisi isterica, di quelle che nei film della sua infanzia si guarivano con due schiaffi e un abbraccio.

    Insomma, Velasquez era stramazzato a terra morto accanto a una catasta di carta igienica in sconto. Solo che sedici ore più tardi, per uno di quei casi singolari che sicuramente sarebbe divenuto oggetto di aneddoti e leggende urbane, Joe Velasquez si era alzato dal suo tavolo presso l’obitorio del St. Peter’s e se n’era andato. Con due apprezzabili conseguenze: le dimissioni immediate dell’addetto alle pulizie, che era quasi svenuto a vedere un cadavere alzarsi dalla barella come uno zombie in un film dell’orrore, e il nomignolo, preso da una canzone dei Cult, che gli sarebbe rimasto appiccicato addosso per il tempo che gli restava da vivere. Che poi, come avrebbero scoperto, non era molto.

    Resurrection Joe era quindi tornato nel Seven-Eleven in cui era stato la sera prima, disarmato. Solo che stavolta a farsi venire un infarto era stato il cassiere, e senza alcun trucco. Joe aveva arraffato il contante e il fucile, concludendo la sua rapina con meno di 24 ore di ritardo sulla sua personale tabella di marcia.

    Il Mullaghan’s ovviamente era un pub e, ovviamente, si trattava di un pub irlandese. Ma essendo un pub irlandese nelle vicinanze di un distretto di polizia di New York, era anche una specie di sede distaccata, un distretto after hour. Il proprietario del Mullaghan’s, un certo Dave Delbono, che dell’Irlanda non sapeva nulla, era invece un vero appassionato di flipper, e nel locale sul retro teneva un Gottlieb Rollerball del ‘72, perfettamente restaurato e amorevolmente mantenuto, praticamente lo Stradivari di chi ama il flipper.

    Chiamarono la madre del ragazzino che si alzò e prese il bimbo per mano. Con Hank si scambiarono un’altra occhiata, ma stavolta il piccolo aveva un’espressione di imbarazzo, forse perché si vedeva costretto a interrompere la sua rappresentazione. Hank ricambiò il mezzo sorriso, trattenendo l’improvviso impulso di dargli un’arruffata ai capelli. Ancora due persone e sarebbe toccato a lui.

    Così quel giorno Hank e Will erano da Mullaghan’s a fare il punto. Il che significa che Williamson si occupava come al solito di rileggere tutto l’incartamento, mentre Hank tentava di battere il record del locale, nonché suo personale, di 1.523.710 punti, stabilito una sera di maggio dell’anno precedente in cui avrebbe potuto battere chiunque, e per farlo smettere di giocare era dovuto intervenire un blackout di quindici minuti. Hank stava giusto avvicinandosi alla boa degli ottocentomila punti, quando aveva sentito quell’odore.

    Non era riuscito ad associarlo a nulla, allora. E neppure era intervenuta la voce stentorea di Billy Gritner a trapanargli le orecchie, tuttavia era stato sufficiente a fargli scordare dove si trovasse, per non parlare di tutto il resto. La palla era infilata nella buca mentre lui, che non riusciva a staccare gli occhi dal tabellone, aveva marciato furiosamente all’indietro fino a sentire qualcosa contro la schiena, poi, appoggiato al muro accanto alla porta del cesso, si era semplicemente lasciato scivolare giù. E lì era rimasto.

    Resurrection Joe si era fatto sparare quella sera stessa da una banda di portoricani davvero poco impressionabili, mentre Hank aveva concluso la sua giornata considerando per la prima volta l’ipotesi che qualcosa si fosse definitivamente rotto dentro di sé.

    Qualcosa di importante.

    L’infermiera chiamò il suo nome. La sala d’aspetto era vuota, ognuno dei suoi compagni di viaggio aveva ritirato il proprio biglietto per destinazioni che non avrebbe mai conosciuto. Era il momento di conoscere la sua.

    Era il momento di partire. 

    Capitolo 2

    Il dottor Jarni Singh Mahaputra era un Sikh. Dal nome, Hank aveva capito che il suo medico sarebbe stato indiano, ma se l’era immaginato come le decine di tassisti che conosceva, minuti, pelle olivastra, gentilissimi. Mahaputra invece era un’apparizione. Alto, imponente, lo aspettava in piedi, a lato della scrivania, con le mani dietro la schiena, la barba bianca e il camice immacolato.

    Sulla testa, un turbante azzurro.

    Non poté fare a meno di pensare come un uomo che avesse scelto di fare il medico subisse l’imposizione di non tagliarsi i capelli per tutta la vita, come pretendeva la sua religione. Probabilmente sotto quell’elegante lembo di seta annodata si celava una treccia lunga almeno un metro. «Detective Henry Russell? Buongiorno, io sono Jarni Singh Mahaputra. Il suo medico», disse lentamente, con voce profonda e guardandolo dritto negli occhi.

    Aveva un medico.

    L’affermazione conteneva qualcosa di ineluttabile, un fatto accertato che presupponeva l’esistenza di una patologia di cui si sarebbe occupato. Mahaputra gli aveva appena comunicato che tra lui e il mondo dei sani si era innalzata una barriera e il suo posto era dalla parte dei perdenti. Quanto la barriera fosse alta lo avrebbe saputo di lì a poco ma intanto, Mahaputra, con quell’annuncio, aveva manifestato la necessità di verificare le sue reazioni e questo significava che, di qualunque cosa si trattasse, non sarebbe stato uno scherzo uscirne fuori.

    Gli occhi del medico erano gocce di petrolio in un cucchiaio di neve gelata, nerissimi, magnetici, pronti a recepire sul volto del suo nuovo paziente ogni minima reazione. Hank non riuscì neppure a rispondere al suo saluto e quando, contemporaneamente a un paterno e luminoso sorriso l’uomo gli porse la mano, consegnò la sua con qualche attimo di ritardo, senza riuscire a imprimere la forza necessaria per adeguarsi a quella stretta poderosa.

    Adesso Mahaputra sapeva.

    Sapeva che Hank avrebbe potuto spezzarsi in due dalla tensione e quindi come gestire i prossimi minuti affinché ciò non accadesse. Era stato abilissimo.

    «Si accomodi», disse indicando con un largo gesto del braccio una delle due sedie poste dinanzi alla scrivania. Poi si portò davanti a uno schedario di metallo, lo aprì e cominciò a cercare tra le cartelle. Nell’attesa Hank fissò lo sguardo su un piccolo pugnale dalla lama ricurva appoggiato sopra una modesta agenda in similpelle.

    «Sa come si chiama?», chiese Mahaputra, prima di sedersi sulla sua poltroncina in plastica rossa.

    Hank si scosse.

    «Si chiama kirpan», rispose, «è il pugnale rituale Sikh, il simbolo della lotta contro l’ingiustizia: Chi lo porta con sé ha scelto di essere un guerriero del bene contro il male».

    Jarni Singh Mahaputra inarcò la schiena all’indietro appoggiandosi allo schienale della sedia e il suo sorriso dilagò sull’ampio volto olivastro come se cercasse di sommergere la fitta boscaglia bianca della sua barba. Gli occhi brillavano.

    «Lei mi stupisce, detective Russell».

    «Hank, da tempo mi chiamano tutti così, amici e nemici».

    «Oh. Va bene, Hank. Com’è che sa tutti i piccoli segreti di un culto semisconosciuto alla maggioranza delle persone? È forse appassionato di storia delle religioni?».

    «No», rispose più seccamente di quanto volesse, «lo so per caso. Il giorno dopo l’11 settembre due studenti Sikh vennero pestati in un locale da una decina di tizi su di giri. Gli agenti intervennero e arrestarono i due Sikh per aggressione».

    «Scommetto che agli altri non vennero prese neppure le generalità», lo interruppe ironicamente Mahaputra.

    «Il 12 settembre 2001 eravamo tutti su di giri», rispose Hank sulla difensiva.

    Il medico annuì senza replicare, ma un fugace guizzo dei suoi occhi tradì lo sforzo che aveva fatto per trattenersi.

    «Durante la perquisizione spuntarono due pugnali», continuò Hank, «così il sergente di turno gridò in faccia a quei ragazzini che li avrebbe fatti ingabbiare per sei o sette anni, prima di eseguire la procedura di espulsione. Il tipo ne sarebbe stato capace. Loro erano frastornati, impauriti, pesti e sporchi di sangue. Avrebbero firmato di tutto pur di uscire dalle grinfie del sergente e farsi medicare. Intervenni. Chiesi all’agente se era stata rispettata la procedura e se sì per quale motivo i due erano in Centrale anziché piantonati al pronto soccorso. A loro chiesi perché nel corso della rissa non avevano estratto le lame per difendersi e così mi spiegarono quello che oggi so sul kirpan. Tutto qui».

    «E come andò a finire?», chiese Mahaputra.

    «Il sergente capì al volo che non aveva incontrato un collega disponibile a chiudere un occhio, così gli ricordai come la Costituzione americana permetta a tutti di esporre liberamente i simboli della propria religione. Propose una notte in gattabuia per acquisire maggiori informazioni sulla rissa nel pub. Un messaggio per farmi capire che aveva mollato l’osso. Alle otto del mattino i due ragazzi erano fuori e io avevo un nemico in più a New York».

    «Ben fatto, lei forse ha risparmiato a due innocenti un destino terribile, sono molti a essere finiti a Guantanamo senza alcuna colpa, ma non mi risulta che la Costituzione americana sancisca i diritti di cui lei parla», disse Mahaputra, piegando leggermente di lato la testa.

    «Neanche a me, ma per quel sergente era oro colato».

    Il medico inarcò nuovamente la schiena all’indietro e rise.

    «Lei è una brava persona», disse fissandolo negli occhi dopo aver appoggiato i gomiti sulla scrivania, «proprio una brava persona», ribadì quasi soprappensiero.

    Quel piccolo momento di teatro era riuscito benissimo, sembravano una coppia di attori ben affiatata, la sceneggiatura era stata brillante e il pubblico, se ci fosse stato, avrebbe applaudito convinto. Erano da qualche secondo in silenzio, temendo entrambi la chiusura ormai prossima del sipario, tacitamente complici nel rinviare ciò che uno non avrebbe voluto dire e l’altro non avrebbe voluto ascoltare.

    Due, tre, quattro secondi ancora.

    Mahaputra cambiò lievemente posizione del corpo e prese fiato. Il suo sorriso cessò quasi di colpo e ciò sembrò sottrarre luce alla stanza intera che, riconsegnata improvvisamente all’algida luminescenza dei neon, pareva più buia di quanto non fosse stata fino a quel momento.

    «Come si sente, Hank?», chiese con improvvisa dolcezza.

    «In perfetta forma, a parte le allucinazioni e i momenti di buio completo».

    «Da quanto tempo ha queste allucinazioni auditive?». «La prima volta un paio di mesi fa».

    «Con che frequenza?».

    «Finora è accaduto solo due volte».

    «Soffre di emicrania?».

    «No».

    «Neppure immediatamente dopo questi episodi?». «No».

    «Ha avuto in questo ultimo periodo problemi di coordinamento muscolare?».

    «No, non direi».

    «Di vista o di udito?».

    «A parte le allucinazioni? No».

    A ogni risposta Mahaputra scriveva qualcosa sopra un grande quaderno dalla copertina nera.

    «Ha avuto malattie di particolare gravità, nell’infanzia o in età adulta?

    Traumi? Incidenti?», riprese senza alzare gli occhi dal suo quaderno. «No. Sempre sano come un pesce».

    «I suoi genitori sono ancora vivi?».

    «Nessuno dei due».

    «Motivi del decesso?».

    «Mio padre infarto, mia madre incidente stradale».

    «È a conoscenza di patologie gravi nella sua famiglia?». «Quale famiglia?».

    Il medico si interruppe e alzò gli occhi. Non disse niente e riprese a scrivere

    «È un’indagine statistica, dottore?», chiese Hank innervosito.

    Mahaputra lo guardò, si alzò dalla sedia e stese un lenzuolo di carta sul lettino.

    «Si distenda, per favore», disse con voce pacata, ma decisa.

    Puntando una sottile lama di luce in ogni pupilla verificò a lungo il riflesso oculare. Poi invitò Hank a sbottonarsi la camicia e tastò lentamente ogni linfonodo del suo collo, senza fare male, nonostante la pressione costante esercitata dalle sue dita.

    «Può alzarsi», disse.

    «Cosa c’è che non va?», chiese Hank, nella speranza che sul volto del medico si riaprisse quell’ampio sorriso tranquillizzante, capace di illuminare la stanza con la sua benevola energia. Ma Jarni Singh Mahaputra non sorrise e l’arduo compito di fare luce in quella giornata buia fu ancora una volta delegato allo sforzo lattiginoso e insufficiente dei neon.

    «Venga, le faccio vedere», disse, dirigendosi verso la parete sulla quale era appeso un diafanoscopio. Vi appose tre lastre e lo accese. Hank scoprì che le immagini del suo cervello a fette erano a colori, nitidissime. Mahaputra si avvicinò alla prima e indicò, al centro dell’encefalo, una macchia scura e opaca, dai contorni netti, grande più o meno come un’albicocca.

    Una grossa albicocca.

    «Questo è il nostro problema», disse, senza spostare lo sguardo dall’immagine.

    Hank fissò l’alone scuro per alcuni secondi prima che qualcosa di gelido e aguzzo rotolasse da chissà dove fin dentro il suo stomaco.

    «Quello è un cancro?», chiese come se non lo riguardasse.

    «Sì, un glioblastoma multiforme, ma è la cosa meno importante da sapere, mi creda», rispose con dolcezza Mahaputra, mentre con il dito seguiva i contorni di quel mostro. Poi si voltò.

    «Vede Hank, il problema di questo tumore, oltre alla sua natura, è nella sua collocazione. Si trova esattamente al centro del suo encefalo. Ed è un evento raro, molto raro».

    «È operabile?».

    «Questa particolare neoplasia ha una percentuale di recidiva vicina al cento per cento nell’arco di dodici, a volte quindici mesi dopo l’asportazione. Nel suo caso, se intervenissi chirurgicamente, potrebbe risvegliarsi senza sapere più come usare una forchetta o, peggio, perdere ogni funzione cerebrale e respirare solo con l’aiuto di una macchina. Mi creda, è inaccessibile. E cresce velocemente».

    Proseguì.

    «Per il momento i suoi disturbi sono dovuti alla pressione intracranica che sta esercitando e, data la massa, è piuttosto insolito che non siano state compromesse quelle aree che ancora le consentono una qualità di vita del tutto normale. Deve prepararsi a tutto, detective Russell. In questi casi, di solito, il quadro clinico tende a deteriorarsi piuttosto rapidamente e potrebbe in un momento qualsiasi perdere l’uso della parola, dell’udito o non riuscire più a camminare. Attualmente, non ci sono cure. Sono desolato, mi creda», concluse, fissando gli occhi del suo paziente.

    Hank cercò di liberarsi dall’iceberg che lo imprigionava, ma non ci riuscì. Andò con lo sguardo al suo cancro, affisso al quadro luminoso e non poté fare a meno di pensare che il suo cervello, in quel preciso momento, stava inibendo milioni di recettori, attivando reti neurali parallele, connettendo sinapsi, azzerando i flussi di adrenalina per rilasciare infine impetuosi fiumi di dopamina e serotonina, affinché la chimica della vita potesse renderlo impassibile all’annuncio della sua condanna a morte.

    «Quanto tempo?».

    Fu l’unica cosa che riuscì a dire.

    «Otto, dieci mesi, forse un anno. È difficile fare previsioni», rispose Mahaputra.

    «Trascorsi la maggior parte su una sedia a rotelle, cieco e sordo», rifletté a voce alta Hank fissando le lastre, perduto in uno sguardo che non riusciva a mettere a fuoco più niente.

    Per qualche istante persino Mahaputra dovette fermarsi a cercare nelle profondità della propria anima una risposta qualunque.

    «In questi casi, la voglia di lottare per vivere anche un solo attimo di più è fondamentale. Nella mia esperienza medica e scientifica sono stato testimone di innumerevoli rinvii a sentenze giudicate inappellabili. Gli esseri umani sono capaci di reazioni inaspettate quando si trovano di fronte all’abisso. Ma solo se c’è la volontà di non arrendersi mai».

    A Hank non occorse cercare, per trovare la sua.

    «Dovrà trovarsi un altro eroe per le sue statistiche, non sono quel tipo di persona, mi dispiace».

    Mahaputra continuò, come se non avesse neppure udito quell’ultima affermazione.

    «Adesso mi ascolti bene. Tra qualche giorno sarà convocato in ospedale per una serie di analisi. Niente di doloroso. Appena ottenuti i risultati, inizieremo la chemioterapia. Il primo ciclo dura quarantadue giorni. Dopo l’assunzione dei farmaci trascorrerà qualche ora nel reparto di Day Hospital e se le sue condizioni, come credo, glielo consentiranno, potrà tornarsene a casa».

    «Mi sembrava avesse detto che non ci sono cure».

    «C’è un nuovo farmaco, il Temodar, specifico per il glioblastoma. In associazione alla radioterapia ha dato buoni risultati, ma nel suo caso è impossibile irraggiare la massa tumorale senza creare ulteriori danni. Quindi, le somministrerò il Temodar unitamente all’Avastin, anche questo è un prodotto di nuova generazione che impedisce la vascolarizzazione del tumore».

    «Può tradurmi la frase ha dato buoni risultati?», chiese Hank, storcendo lievemente il collo.

    Mahaputra si prese qualche secondo prima di rispondere.

    «Un aumento della sopravvivenza di settantasei giorni», fece una pausa, «ma è un dato medio, in alcuni casi si è raggiunta la soglia di tre mesi», concluse, abbassando gli occhi, come se chiedesse implicitamente scusa a nome di tutti gli scienziati del mondo per non aver ottenuto di più.

    Hank si permise un mezzo sorriso prima di rispondere.

    «Quindi, dovrei soffrire le pene dell’inferno quarantadue giorni per restarne settantasei in più su una sedia a rotelle, cieco e sordo. Glielo ho detto, non sono quel tipo di persona».

    «Ci rifletta bene, prima di prendere una decisione».

    «La prima volta che ci ho pensato avevo sette anni e la risposta me la sono data dopo una trentina di secondi. Da allora non ho mai cambiato idea. Ho la sensazione che ci rivedremo presto, dottor Mahaputra, comunque la ringrazio».

    Hank, con uno scatto rapido, si diresse verso la porta. Non vedeva l’ora di uscire da lì. Non vedeva l’ora di restare da solo, per gridare a lungo. «Detective Russell!».

    Hank si voltò. Mahaputra gli stava porgendo il suo kirpan.

    «Se quei due ragazzi che ha salvato da un’ingiustizia fossero qui, glielo donerebbero loro, con immensa gioia, mi creda. Lo porti sempre con sé». «Non credo che per il tipo di battaglia che dovrò affrontare potrà servirmi a qualcosa».

    «Lei è un oscuro combattente del bene contro il male. Se accetta questo pugnale, entra nella Grande Luce e anche Dio lo saprà. E Dio è grande». Il medico socchiuse gli occhi per un attimo.

    «Qualcosa di simile ai cavalieri della tavola rotonda? Ma Merlino non è mai esistito e io non credo in Dio, dottore».

    «L’importante è che Lui creda in lei. Se prende il kirpan con sé, forse qualcosa le verrà concesso». Sembrava serio.

    Hank allungò il braccio con qualche esitazione e, lentamente, apri la mano per ricevere l’oggetto.

    «Se lei lo dà a me, vuol dire che rinuncia alla sua lotta?».

    Il medico sorrise.

    «A casa ne ho un’intera collezione. A presto, detective Russell», concluse Mahaputra, porgendogli la mano enorme.

    Hank la strinse e, uscendo dalla stanza, pensò che la stretta vigorosa del medico e il dono che aveva appena ricevuto facevano entrambi parte di un piccolo rituale, una sorta di patto, un oscuro accordo in virtù del quale avrebbe dovuto sentirsi pronto ad affrontare la sua parte, esattamente come Mahaputra avrebbe fatto la sua.

    Ma non era così.

    Appena girato l’angolo allungò il passo, aveva bisogno di aria, di colori, di luce, di rumori. Doveva uscire da quel luogo al più presto. Ogni volto che incrociava aveva lo sguardo di un arbitro sul ring che scrutava nel suo per capire quanta luce gli fosse rimasta negli occhi dopo l’ultima serie di colpi. Non riusciva a pensare. Ogni immagine, ogni pensiero, si rincorrevano fino a scontrarsi, per poi ricominciare, incoerenti. Non c’era un angolo dove potersi rifugiare, nessun secchio dove sputare denti e disperazione. Nessun gong, per salvarsi a due secondi dal knock out.

    L’ultimo corridoio prima della strada sembrava un oscuro, interminabile budello. La luce del giorno, là in fondo, era un miraggio di normalità e di vita da raggiungere al più presto ma, per quanto si sforzasse di allungare il passo, la meta sembrava irraggiungibile. La sua mano sinistra serrava con forza il pugnale di Mahaputra, quasi fosse l’ultimo appiglio galleggiante, dopo un naufragio.

    Non respirava più.

    Gli ultimi metri li percorse quasi scivolando, alla disperata ricerca di una boccata d’aria. Si fermò, ansimando. Diluviava nonostante fosse giugno e i rami verdi degli alberi sbattevano nella furia inattesa del vento. Si accese una sigaretta sotto l’acqua scrosciante, rimpiangendo di non avere un cappello per non farla inzuppare, risolvendosi a proteggerla con le mani a coppa, come sicuramente avevano fatto tanti fumatori prima di lui, in situazioni altrettanto piovose. Gli venivano in mente Iwo Jima, John Wayne e le orde di eroi forgiati prima che il fumo diventasse osceno, quando ancora buoni e cattivi si riconoscevano dalle divise e l’unico pericolo in una sigaretta era quello di esporti, di notte, al fuoco nemico di un cecchino. Solo che non si sentiva affatto eroico, era sopraffatto dalla paura e cercava di recuperare abbastanza di sé da trascinarsi finalmente altrove. La gente entrava o usciva di corsa, proteggendosi con gli ombrelli o col giornale e, mentre lo incrociava, distoglieva gli occhi, inventandosi un ingiustificato interesse per il marciapiede o per qualche altro particolare insignificante. Era come se indovinassero, nella sua indifferenza per la pioggia che scendeva inzuppandolo, una estraneità che li lasciava sgomenti, una follia contagiosa, una peste senza nome.

    Arrivato a casa non era pronto per quel silenzio. Avrebbe voluto portarsi dentro un po’ di rumore, di pioggia, di vento. Qualcosa che rendesse meno definitive le parole di Mahaputra, qualcosa per passare la notte.

    Accese la televisione tenendo il volume al minimo, prese sigarette e bottiglia, riempì la vasca di acqua bollente e ci si infilò dentro, cercando di capire come affrontare quella cosa. Bevve una lunga sorsata di whisky e chiuse gli occhi dopo aver slacciato il guinzaglio ai suoi pensieri, che incominciarono a rincorrersi come cani in libertà, annusando ogni tanto la

    sua vita in cerca di un posto adatto per pisciarci sopra.

    Ciò che si impara, se si vive abbastanza a lungo, è che la propria disperazione e il proprio dolore, per quanto grandi, non cambiano niente nel mondo: la gente vive, ride, ama, taglia il pesce e litiga esattamente come in ogni altro momento. E la pioggia non smette di cadere, né è meno bagnata.

    È così che vanno le cose, oggi. Ti convincono che la vita eterna sia solo questione di attenzione, del giusto apporto di lipidi, di una dieta adeguata e bilanciata, di non fumare anzi, di non aver mai fumato, di fare la ginnastica giusta, di trovare il proprio programma di allenamento ideale, di evitare conservanti, coloranti e pesticidi, di non indossare capi sbiancati chimicamente, di lavarsi con saponi non saponi naturali, di non alterare il Ph della pelle, di curarsi con rimedi naturali, allopatici oppure omeopatici a seconda del proprio temperamento e della data di nascita, di meditare un adeguato numero di ore e riposarne altrettante, purché lo si faccia in luoghi arredati secondo il feng shui; meglio se in prossimità di corsi d’acqua, dormendo su giacigli in fibra di cocco o in lattice naturale e soprattutto mai, mai su materassi pieni di molle spiraliformi, incanalatrici di energie negative e purché si beva acqua minerale estratta da iceberg precambriani, con un livello di inquinamento prossimo allo zero.

    L’immortalità come strumento di marketing. E alla fine, chi muore, se l’è proprio cercata. Bastava solo un po’ di attenzione.

    Poi, quando la notizia arriva, è impossibile crederci e altrettanto impossibile dubitarne. Così si resta sospesi, come palloni frenati tesi a pattugliare un orizzonte immobile.

    Il fatto è che non siamo pronti ad accettare la nostra morte: non ne abbiamo mai fatto esperienza.

    La migliore metafora della condizione umana è una foto. È la foto di una ragazza, scattata l’11 settembre 2001. La ragazza era nella torre Est e, guardando l’immagine sgranata, si capisce, o si immagina, quali devono essere stati i suoi ultimi pensieri. Si intuisce che deve aver aspettato che il fumo riempisse la stanza dov’era rimasta rinchiusa, impedendole di respirare. Deve aver gridato aiuto e atteso che venissero a prenderla, per decine di interminabili minuti mentre fuori il mondo guardava impazzito e gli uffici venivano divorati dal fuoco, uno dopo l’altro.

    In quella terribile mattina di settembre deve aver pensato a mille modi diversi di uscirne e, infine, deve aver capito che nessuno, davvero nessuno, poteva funzionare. Deve aver sentito il calore aumentare fino a divenire insopportabile, arretrando passo dopo passo verso la finestra distrutta, sentendo sul volto accaldato il vento fresco e implacabile, all’altezza del settantaduesimo piano. Deve aver udito il rombo dell’incendio e le sirene dei mezzi di soccorso, centinaia di metri più in basso, e deve aver gridato ancora che la venissero a prendere, che calassero una fune, una scala, qualcosa, finché il fumo non è diventato un muro bollente, e lei si è tuffata. È così che la si vede in quella foto, i piedi uniti tesi all’ingiù, i capelli in alto, mentre con una mano si tiene ferma la gonna, perché non si alzi a mostrare le gambe, come una tuffatrice della domenica dal trampolino più alto del mondo.

    E guardando quella foto sappiamo che fino all’ultimo istante, fino a un secondo prima dell’impatto, quella ragazza ha pensato che per qualche assurdo motivo, contro ogni probabilità, se la sarebbe cavata.

    La figura, sfocata dalla distanza non permette di capire quanti anni abbia, se sia carina, se porti occhiali oppure no ma tutto, nell’atteggiamento del corpo, nella tensione che esprime, infonde in chi la guarda la certezza che abbia visto la fine correrle incontro a nove metri al secondo, con un fondo di incredulità negli occhi.

    Bang.

    Ecco, quella ragazza siamo noi. Tutti noi. Intenti a fare piani e a scrutare il mondo, inconsapevoli del salto che abbiamo spiccato nel momento stesso della nostra nascita. Ci vuole qualcosa che possa scuoterci, che ci distragga dal luccichio delle cose intorno a noi e riporti il nostro sguardo all’asfalto imminente.

    Qualcosa come un tumore, ad esempio.

    Era passata più di un’ora, l’acqua era diventata fredda e la bottiglia ormai vuota galleggiava tra iceberg di schiuma e pozze d’acqua artica di un azzurro artificiale.

    Senza alcun messaggio al suo interno.

    Era sbronzo e non aveva nessuna delle risposte che gli servivano. Si trasferì sul divano, con le gambe pesanti, meravigliandosi come, nonostante tutto, potesse comunque dormire.

    Fu un sonno senza sogni. 

    Capitolo 3

    Quando Hank si svegliò erano le sette del mattino e aveva dormito quasi dodici ore steso sul divano. Si mise a sedere e allungò una mano verso il cellulare che continuava a bippare fastidioso. Il capo del distretto voleva vederlo alle otto e mezzo.

    Mahaputra aveva inoltrato i suoi referti.

    Improvvisamente si sentiva stanco. Non aveva voglia di alzarsi, non aveva voglia di mangiare, nonostante il suo stomaco brontolasse cupo, non aveva voglia di fare assolutamente niente, se non restare sul divano e rimettersi a dormire. Si alzò, andò in bagno, tornò nudo in cucina e si preparò uova e bacon. Raramente ciò che si vuole e ciò che si deve coincidono. Fece una doccia e si rasò accuratamente prima di indossare i vestiti puliti quindi dovette arrampicarsi su una sedia, per prendere quello che gli serviva. Era un oggetto piccolo, di plastica nera, ma celava un segreto. L’aveva nascosto sui piani più alti della libreria mesi prima, senza avere alcuna idea se gli sarebbe mai servito, e come. Uscì di casa esausto.

    Sarebbe stata una lunga giornata.

    Nell’ufficio di Steven McCormick niente era lasciato al caso. Ogni singolo pezzo di arredamento era stato scelto con cura per trasmettere la medesima, coerente immagine di un luogo elegante ma impersonale, grigio, freddo, asettico come una sala operatoria. La moquette era grigio scuro, la scrivania un lungo piano di vetro nero spesso due centimetri con le gambe di acciaio cromato. I mobili dietro la scrivania erano neri, come nera e acciaio era la libreria. Nell’unico vaso, in un angolo, stavano dei bambù decorativi, anche questi laccati di nero come un’improbabile foresta carbonizzata conficcata in un letto di palline di argilla dentro un enorme vaso di plastica, nera ovviamente.

    A un primo impatto la scrivania sembrava un po’ troppo al centro della stanza, ma non era un caso: McCormick aveva calcolato la distanza in modo che chi si fosse seduto di fronte a lui non avrebbe potuto in alcun modo leggere i titoli dei libri sugli scaffali alle sue spalle.

    L’altezza della comoda poltrona dirigenziale su cui McCormick stava seduto era regolata a sessanta centimetri da terra, le sedie di fronte a lui, in pelle nera come la poltrona, non erano imbottite né regolabili, e la seduta era alta cinquantadue centimetri. Anche questo non era un caso. Si era persino preoccupato di far accorciare leggermente le gambe anteriori delle sedie, un vecchio trucco da sala interrogatori pensato tanti anni prima, per dare una sensazione di instabilità a chi si trovava in quella sgradevole situazione e farlo sentire insicuro, pronto a collaborare. Funzionava ancora benissimo.

    Non c’erano quadri alle pareti, né foto sulla scrivania, né oggetti personali di alcun tipo, in modo che nessuno, osservando l’ufficio, potesse farsi una minima idea su chi fosse la persona che aveva di fronte, sulle sue idee politiche, sui suoi legami familiari, sulle sue preferenze sessuali o su quali fossero i suoi hobby, se pure ne aveva.

    Anche quando parlava, McCormick stava sempre attento a non offrire mai ai suoi interlocutori alcuna informazione. A molti dava fastidio, e a lui andava benissimo così. Steven McCormick era abituato a non lasciare vantaggi ai suoi avversari, e i suoi avversari erano il resto del mondo.

    Il capitano era seduto alla sua scrivania dalle cinque del mattino e stava trascrivendo per l’ennesima volta i punti essenziali dei dossier che aveva di fronte a sé, per impararli a memoria. Aveva in programma una giornata pesante: doveva incontrare il sindaco a pranzo e verificare il bilancio trimestrale nel pomeriggio, ma prima di tutto doveva mandare in congedo il detective Russell, che si era fatto venire un tumore al cervello. Lesse ancora una volta lo stato di servizio di Russell e gli appunti che si era fatto per l’incontro col sindaco. Il bilancio lo aveva studiato la sera prima. Non c’era trucco. Steven McCormick non era nato ricco, non era bello né simpatico, non era particolarmente brillante e la sua vita sociale era prossima allo zero, e certo non sarebbe mai arrivato a occupare quel posto se non avesse imparato, fin da bambino, ad alzarsi prima degli altri e a fare i compiti. Semplicemente studiava, chiuso nel suo ufficio adesso, nella sua stanza ai tempi del college, ogni dettaglio della sua giornata, ogni frase, ogni discorso, finché non si fosse sentito pronto a uscire e a dominare il suo mondo.

    E se avesse continuato a fare i suoi compiti senza lasciare vantaggi ai suoi avversari, avrebbe presto lasciato quella occupazione e preso il volo nei cieli della politica.

    Ancora un paio d’anni al massimo.

    Guardò l’orologio, ripassò ancora una volta la sua agenda, ciò che avrebbe detto, ogni singola strategia, poi prese tutti i suoi appunti e le biro che aveva usato per scriverli, raccolse i dossier sparpagliati sulla scrivania, aprì uno degli sportelli del mobile nero alle sue spalle e ficcò tutto lì dentro, insieme al sacchetto di carta della colazione e alla tazza del caffè. Avrebbe portato via tutto la sera, nella sua ventiquattrore. Il cestino sotto la sua scrivania era immacolato, nuovo come il giorno in cui l’aveva comprato. Sarebbe rimasto così per sempre.

    Aprì un altro sportello del mobile e da una risma di carta da fotocopie prese un singolo foglio, lo posò al centro della scrivania ora sgombra e, al suo fianco, appoggiò una Montblanc a sfera. Diede un’ultima occhiata per sincerarsi che fosse tutto a posto, poi finalmente aprì le veneziane che isolavano il suo ufficio dal resto della Centrale.

    Erano le otto del mattino, la sua giornata poteva iniziare.

    Il detective Russell entrò nel suo ufficio tambureggiando con le dita sulla porta e chiedendo permesso, alle nove in punto. Non aveva atteso la risposta ed era entrato senza salutare.

    A McCormick non piacque.

    Certo, Russell stava male e senz’altro immaginava perfettamente come si sarebbe concluso l’incontro, tuttavia, finché non fosse uscito da quella stanza, era ancora un poliziotto e non intendeva lasciare a un suo sottoposto simili libertà.

    «Si accomodi, detective Russell», disse, facendo trasparire nel tono la sua disapprovazione, pur mitigata da quelle circostanze straordinarie. Indicò una delle sedie.

    Hank si diresse verso l’altra sedia, la girò e si sedette a cavalcioni, incrociò le braccia sopra lo schienale e vi appoggiò il mento.

    «Eccoci qua», disse, «voleva vedermi?».

    Non andava per niente bene. McCormick si era aspettato di trovare un avversario docile, ormai battuto dalla malattia e consapevole delle conseguenze cui sarebbe andato incontro e invece, a quanto pareva, Russell aveva intenzione di metterla giù dura. Nessun problema, pensò, Russell poteva fare lo sbruffone, se preferiva, ma avrebbe comunque lasciato distintivo e pistola sulla sua scrivania, prima di uscire da quella stanza. McCormick trasse un profondo respiro, sorrise, allargò le braccia e cominciò. «Detective Russell, il suo stato di servizio è encomiabile, lasci che glielo dica, encomiabile». L’ultima parola quasi la sillabò. «Se tutti al distretto avessero le sue capacità, la sua dedizione al servizio, noi poveri dirigenti avremmo ben poco da fare, davvero».

    Hank piegò la testa di lato, sapeva che non c’era modo di evitare quel discorsetto imparato a memoria, era solo curioso di vedere quanto sarebbe stato lungo e dettagliato, quanto impegno McCormick avesse deciso di mettere per liquidare la sua personale pratica, quanto valessero i suoi quasi trent’anni di servizio per un animale politico così attento e meticoloso. «Non c’è bisogno che le ricordi i suoi successi,

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1