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I segreti di Westhill House
I segreti di Westhill House
I segreti di Westhill House
E-book392 pagine5 ore

I segreti di Westhill House

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Info su questo ebook

Un grande thriller

Autrice del bestseller La ex moglie

Quando ho posato per la prima volta gli occhi su Westhill House, collocata in quella posizione mozzafiato a strapiombo sul mare, ho capito che io e jack avremmo potuto vivere lì per sempre. Ero certa che con un po’ d’impegno sarei riuscita a riportarla all’antico splendore. E ristrutturando la casa avrei potuto aggiustare anche le cose tra me e Jack. Lui, però, è troppo preso dal suo lavoro… Se non fosse per Lori sarei già crollata. È venuta qui in cerca d’aiuto e di un posto sicuro in cui rifugiarsi, ma adesso sono io ad avere bisogno di lei. Mi dà una mano e mi tiene compagnia e insieme, poco alla volta, stiamo scoprendo i segreti di Westhill House. Come i disegni infantili coperti dalla carta da parati o gli appunti nascosti sotto le assi del pavimento. Ho il sospetto che Lori sappia molto più di quello che dice… La domanda è: perché?

Un thriller in vetta alle classifiche

Era la casa dei suoi sogni 
Finché questi non si sono trasformati in incubi

Hanno scritto di La ex moglie:
«Nel mare magnum dei thriller, bisogna pescare bene. Ecco un romanzo da leggere, arrivato in vetta alle classifiche.»
Il Venerdì di Repubblica

«Cupo ed enigmatico, tiene con il fiato sospeso fino al finale, che lascia a bocca aperta.»

Jess Ryder
Ha lavorato per anni come sceneggiatrice e la sua passione è guardare serie TV poliziesche. Ha pubblicato numerosi libri di successo, molti dei quali per bambini e adolescenti, ma la sua vera passione sono i thriller. La Newton Compton ha pubblicato La ex moglie e I segreti di Westhill House.
LinguaItaliano
Data di uscita4 dic 2019
ISBN9788822740380
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    Anteprima del libro

    I segreti di Westhill House - Jess Ryder

    Prologo

    Il cielo notturno era un campo di battaglia, folgorante per le collisioni di colori e fiamme. Le esplosioni crepitanti continuavano a farle sobbalzare il cuore. Le girava così tanto la testa che pensò che potesse scagliarsi nello spazio e scoppiare in un milione di pezzi scintillanti. Era una candela romana, un petardo, una fontana sfavillante di pioggia dorata.

    L’aria era pregna di fumo, quel tipo sulfureo che si sente solo durante la Notte dei Falò, quello che filtra nei vestiti e si attacca ai capelli per giorni. L’odore le evocava ricordi d’infanzia: quando i vicini si ritrovavano nei loro giardini sul retro e lei scriveva il suo nome con le stelle filanti, pestando i piedi sul terreno per riportare in vita le dita. Le ricordava salsicce bruciate, cipolle fritte e ketchup. I papà che portavano con sé scatole di latta e scatenavano spettacoli pirotecnici fiacchi: girandole che non giravano, razzi che scoppiettavano e poi cadevano nel cespuglio di rose. Erano tempi semplici e innocenti, pensò lei. Ma adesso l’odore della polvere da sparo sarebbe stato per sempre associato a quella notte straordinaria.

    Il terreno era morbido dopo giorni di pioggia. Si diresse verso la fine del giardino, l’erba alta bagnata le lambiva le caviglie, il fango le inzuppava la suola delle pantofole. Era strano che non riuscisse a sentire il freddo. Aveva il respiro accelerato e corto: il bambino era così grande che lei non riusciva a riempire i polmoni. Si appoggiò a un paletto della staccionata. Il nascituro diede un calcio, premendo il piede contro la parete dell’utero.

    Bang, swoosh, ffsss, wiiiiii… Il cielo era in fiamme. Scintille calde tremolavano attorno a lei, illuminando la sua sagoma mentre camminava intorno al mucchio di compost, testando il terreno. Si accovacciò, lasciando che l’orlo della vestaglia sfiorasse il terreno umido, e raccolse qualche foglia morta, che la pioggia aveva trasformato in pacciame.

    Sì, era il posto giusto. Nessuno era presente per assistere; erano tutti al parco. Avrebbero guardato il gran finale, si sarebbero fatti qualche altro giro sulle giostre e tra le bancarelle, poi si sarebbero dispersi lentamente, fermandosi a prendere le patatine o gli ultimi ordini. Una volta tornati a casa, sarebbero andati spediti a letto. Sarebbe potuta restare lì tutta la notte e non un’anima se ne sarebbe accorta.

    Era una notte che lui aveva preannunciato, di cui era stata avvertita circa mille volte. L’ultimo attacco che stranamente lei voleva avesse luogo, ma solo perché non poteva più sopportare la tensione di non sapere quando sarebbe arrivato.

    La paura che provava nei suoi confronti era costante, un tatuaggio su una parte del corpo che solo lui aveva mai visto. Nonostante i lividi, le bruciature e i segni dei morsi fossero sbiaditi, non sarebbero mai andati via del tutto. Per lui il suo corpo era un’opera in divenire. «Un giorno ti darò il colpo di grazia», diceva spesso, e non c’era motivo di dubitarne.

    Un forte urlo trafisse l’aria. La donna alzò lo sguardo e vide un enorme razzo che sfrecciava verso il cielo. Il fuoco d’artificio trattenne il respiro per un momento, poi esplose, schizzando il cielo con gocce di fuoco rosso sangue.

    Il nuovo essere dentro di lei – sperava fosse una femminuccia – si tirò le ginocchia al petto.

    «Sono solo i botti, stupidino», bisbigliò lei, accarezzandosi la pancia tesa. «Non devi avere paura. Siamo al sicuro ora».

    Capitolo uno

    Stella

    Oggi

    Mi rannicchio sotto la coperta e fisso il mare. Questa è la mia stanza preferita: una piccola torretta angolare arroccata in cima alla casa. Dalla finestra a golfo circolare si può ammirare il sole che si sposta da est a ovest. Sono così in alto, posso guardare direttamente l’acqua e ignorare tutti i segni dell’esistenza umana nel mezzo: le doppie linee gialle, la pensilina dell’autobus, la zona verde disseminata di panchine, i tetti delle cabine sistemate a zig-zag sulla spiaggia. Posso fare finta di essere in mezzo alla natura, circondata solo da fango, mare e cielo.

    O meglio, potrei se il muratore non facesse tutto questo fracasso. Mi copro le orecchie in un inutile tentativo di attutire il rumore di tutti quei colpi. Va avanti dalla mattina, non v’è modo di sfuggirgli, nemmeno quassù. È dentro la mia testa, a martellare contro le pareti del mio cervello.

    Questa piccola stanza nascosta sotto la grondaia è il punto più caldo della casa. Salgo fin qui ogni mattina, dopo che Jack è uscito per andare al lavoro, per osservare la marea avanzare e ritirarsi. A quanto pare, non riesco a stare lontana da quel panorama. Anche quando il mare è mosso e c’è una tempesta in arrivo, sembra comunque una vista pacifica rispetto a quello che sta succedendo di sotto.

    Un frastuono di seghe, trapani, martelli, tonfi, cose che vengono distrutte e fatte a pezzi; la casa è un cantiere di demolizione, ma, a differenza del nostro muratore, alla fine della giornata noi non torniamo a casa. Da settimane siamo accampati in uno dei salotti al piano di sotto, con una caldaia inaffidabile e soltanto una doccia elettrica che gocciola. Fa così freddo che la sera non sopporto di togliermi i vestiti.

    Gennaio è uno stupido periodo dell’anno per iniziare i lavori edili, ma non abbiamo avuto scelta. Ci sono voluti sei mesi per perfezionare l’acquisto della casa, perché il proprietario era un ente di beneficenza e gli amministratori hanno dovuto votare per ogni minima decisione. Poi non riuscivamo a trovare un muratore che fosse pronto a fare il lavoro per un prezzo che ci potevamo permettere. Alla fine, ho affisso un annuncio sulla bacheca dello spaccio locale e, per fortuna, Alan ha risposto. È un tipo a posto, ma è un factotum, quasi sessantenne, e non è l’operaio più veloce del pianeta.

    Prima di trasferirci, ho creato delle tavole di stile per ogni stanza, con tabelle cromatiche e ritagli di tessuto, campioni di carta da parati, immagini di tappeti e impianti di illuminazione ricavate da riviste. Sapevo con esattezza come volevo che fosse ogni spazio, quali mobili avremmo comprato e dove li avremmo posizionati. Ma dal nostro arrivo, il mio entusiasmo è scemato. Faccio fatica a immaginare i monolocali malridotti al primo piano trasformati in quattro camere da letto di dimensioni decenti. Più tempo trascorro nella tetra cucina anni Settanta, più mi è difficile visualizzare l’ampliamento luminoso e arioso che abbiamo intenzione di realizzare, con splendidi lucernari e porte a due ante.

    Un gabbiano atterra sul tetto appena fuori dalla finestra, le sue piume oleose si increspano nel freddo. Tengo il mio sguardo fisso sull’orizzonte slavato e provo a ricatturare l’emozione che ho provato la prima volta che abbiamo visto la casa. Era giugno, uno dei giorni più caldi dell’anno. Il sole splendeva, il cielo era di un bel blu fiordaliso e la Manica scintillava come il Mediterraneo.

    Non eravamo mai stati a Nevansey prima; sapevamo solo che era a pochi chilometri dall’elegante Whitstable con i suoi ristoranti di ostriche, gallerie d’arte e negozi vintage, e che le case erano molto più economiche. Abbiamo dato un’occhiata al molo sgangherato con i suoi chioschi di souvenir, la gigantesca giostra gonfiabile a forma di castello, e abbiamo capito il perché. La cittadina sarà anche stata una piacevole località balneare una volta, ma aveva ormai superato da un bel pezzo la data di scadenza.

    Jack voleva fare dietrofront e tornare alla stazione ferroviaria, ma avevamo un appuntamento con l’agente immobiliare della proprietà e pensavo che sarebbe stato scortese non presentarsi. Avevo anche una strana sensazione segreta che, nonostante la zona non promettente, quella sarebbe stata la casa.

    Ci siamo allontanati dalle sale giochi pacchiane e avviati per la strada del lungomare dall’altisonante nome di Promenade. Con quella calura estenuante, mi sentivo disidratata e rimpiangevo la bottiglia di birra che avevo bevuto con il mio fish and chips. Mentre risalivamo la collina, mi facevo aria con i documenti informativi della casa. Abbiamo superato diversi bungalow noiosi e mi sono domandata dove potesse essere Westhill House. Poi abbiamo imboccato una curva e tutt’a un tratto era di fronte a noi, meravigliosamente isolata su un ampio terreno d’angolo.

    È stato amore a prima vista. Per me, almeno… non altrettanto per Jack. La casa sembrava persino più grande che nelle foto online. A doppia facciata, si ergeva fino a tre livelli. Otto camere da letto, quattro saloni al piano di sotto, una cantina, una veranda e un ampio giardino incolto. In necessità di una totale ristrutturazione, ma con il potenziale illimitato di trasformarsi in una splendida casa di famiglia, o almeno così dichiarava l’agenzia immobiliare. Siamo rimasti meravigliati, notando in silenzio la muratura in pietra crepata e le cornici marcescenti delle finestre, le tegole rotte intasate di muschio, le telecamere di sicurezza che penzolavano dalle pareti e la centralina di allarme arrugginita sopra la porta d’ingresso. Striature arancioni correvano lungo la sudicia facciata bianca come lacrime sul viso di un bambino.

    «È perfetta», ho detto.

    Jack ha sbuffato con sprezzo. «Il panorama è fantastico, te lo concedo, ma la casa cade a pezzi. Si papperà ogni centesimo della tua eredità».

    «Non mi interessa», ho sussurrato. «È quello che avrebbero voluto per me».

    Sono quasi le due, ancora nessun segno del furgone delle consegne. Dovrei andare in cucina e prepararmi il pranzo, ma Alan sta facendo così tanto rumore che non sentirò mai bussare alla porta. Con lo stomaco che gorgoglia per la fame, lascio riluttante la mia alta torre di guardia e scendo al primo piano.

    Come al solito, Alan ha la radio a tutto volume, sintonizzata permanentemente sul passato. Canta, colpendo a tempo con il suo martello da fabbro. Faccio capolino dalla porta appena in tempo per vedere un tramezzo schiantarsi sul pavimento. Blocchi di intonaco si disperdono ovunque e una nuvola di polvere grigio-rosa sale nell’aria, facendomi tossire.

    «Non entrare!», grida l’uomo sovrastando la musica. «È pericoloso. Il resto potrebbe cadere da un momento all’altro».

    «Sto preparando il tè, ne vuoi anche tu?».

    Alan fa un gran sorriso. «Non dico mai di no a un buon tè. Grazie, cara».

    Lasciandolo ai suoi lavori di demolizione, scendo di un altro piano verso la cucina, facendo una smorfia come sempre alla vista dei vecchi fornelli unti, il rivestimento di pino laccato e le piastrelle marroni aranciate. Metto su la teiera e faccio per prendere la scatola del tè quando sento il rumore di un veicolo che si immette nel vialetto.

    Un freddo getto di aria di mare mi schiaffeggia in pieno viso appena spalanco la porta. Sui ciottoli incrinati è parcheggiato un furgone di medie dimensioni, su cui campeggia la scritta rosa

    SOGNI D’ORO

    in un font elaborato. Il conducente scende e viene verso di me.

    «È questa Westhill House?». Annuisco con entusiasmo. Un secondo tizio esce e apre gli sportelli posteriori. «Un giroletto matrimoniale e un materasso in memory foam. Lo vuole montato, vero?»

    «Sì, grazie. Al momento dormiamo al piano di sotto, quindi potete portarli qui, per favore». Sollevano il materasso e mi seguono nella nostra camera da letto di fortuna.

    I loro sguardi guizzano sul disordine e mi sento arrossire per l’imbarazzo. Scatoloni sono impilati alle pareti e i nostri vestiti sono appesi a ganci come discutibili opere d’arte. Un cartone della pizza di ieri sera è rimasto abbandonato sulla scrivania; i cavi elettrici scorrono pericolosamente sul pavimento. Il materasso gonfiabile su cui ultimamente dormiamo è sfatto, e i panni sporchi sono ammucchiati in un angolo. Avrei dovuto riordinare prima che arrivassero, immagino… non che abbia mobili in cui riporre le cose.

    Mentre gli uomini montano il giroletto, mi ritiro in cucina per finire di preparare il tè. Spero che questo tiri Jack su di morale, penso. È dal nostro litigio di qualche sera fa che tiene il broncio. Una di quelle discussioni rapide e maligne che è spuntata dal nulla, alimentata dalla stanchezza e dall’alcol.

    «Sono stufo di vivere così», ha dichiarato lui. «Il materasso gonfiabile mi sta spezzando la schiena, non faccio una doccia vera e propria da settimane, e se sarò costretto a mangiare un altro piatto pronto, giuro che mi ammazzo».

    «Che dovrei dire io? Tu almeno passi la giornata in un ufficio all’avanguardia… io sono bloccata in questa stanza».

    «Hai deciso tu di comprare questa casa».

    «È stata una decisione comune!».

    «No che non lo è stata. Erano i tuoi soldi, non potevo fermarti».

    «Già, i miei soldi perché i miei genitori sono morti», ho detto, poi sono scoppiata a piangere.

    Averla vinta usando la loro morte mi ha fatto venire i sensi di colpa. Il giorno dopo, ho guidato fino a uno dei grandi negozi nel centro commerciale appena fuori città e ho comprato il miglior giroletto e il materasso più comodo che avevano. È una sorpresa. Si potrebbero persino definire delle scuse.

    Stasera mi farò forza e pulirò il piano cottura, poi per una volta cucinerò un pasto vero e proprio. Sono solo spaghetti al ragù, ma ho comprato del parmigiano fresco e una bottiglia di Chianti decente. Stasera sarà un nuovo inizio. Cibo vero, vino vero, letto vero. Forse faremo anche del sesso vero, tanto per cambiare.

    Cinque ore dopo, il mio cuore sobbalza quando sento la chiave di Jack che gira nella serratura. Precipitandomi allo specchio, controllo il rossetto e mi sistemo i capelli. Ho abbandonato il mio solito maglione largo e i jeans e ho indossato un vestito nero attillato. Porto un paio di orecchini scintillanti che Jack mi ha comprato per il compleanno.

    «Ciao! Sono a casa!», si annuncia.

    Lancio una rapida occhiata intorno alla stanza. Le lenzuola pulite sono sul nuovo letto, i lumini da notte tremolano sulla mensola del caminetto, la bottiglia di vino è in trepidante attesa sulla scrivania che stiamo usando come tavolo da pranzo. L’atmosfera è quasi romantica, in un modo sciatto e bohémien.

    Jack entra, aprendosi la cerniera della giacca. «Oddio! Cos’è tutto questo?», dice con un sorriso a trentadue denti.

    «Ho deciso che quando è troppo è troppo. È un matrimoniale, più grande del letto alla francese che avevamo al vecchio appartamento».

    «Già, lo vedo». Si siede e rimbalza su e giù sul materasso. «Non troppo duro, non troppo morbido. Hai scelto bene, Stella».

    «Sono felicissima che tu sia soddisfatto. So che volevamo aspettare il completamento della nuova camera da letto, ma…».

    «No, no, hai fatto la cosa giusta». Si stravacca sul letto a gambe e braccia divaricate e annusa l’aria. «Ma sbaglio o sento profumo di cibo?».

    Scappo in cucina per prendere le pietanze mentre Jack apre il Chianti e versa due bicchieri abbondanti.

    «Tattaratà!». Ritorno spavalda con i piatti fumanti di spaghetti. «Non è proprio MasterChef, lo so, ma almeno è cibo vero».

    «Qualsiasi cosa è meglio della merda che abbiamo mangiato ultimamente», dice lui, poi aggiunge: «Cioè, sono sicuro che sarà delizioso».

    La pasta e la bottiglia di vino sembrano servire allo scopo, e poco dopo ci accoccoliamo insieme sul nostro nuovo letto a guardare un film, dando inizio nel frattempo a qualche disinvolto preliminare amoroso. La sua mano scivola lungo l’apertura frontale del mio vestito e sotto il reggiseno. Sento il capezzolo diventare turgido e mi abbandono a lui, accarezzandogli delicatamente la nuca. È passato così tanto tempo da quando abbiamo fatto l’amore che quasi ci siamo dimenticati come si fa. Lo fisso nei suoi occhi castano scuro e gli riservo un sorriso malizioso. Jack mi fa un lento cenno d’intesa e chiude il computer portatile.

    Poi tutto prende velocità e ci strappiamo gli abiti di dosso e ci dimeniamo, baciando tutto ciò a cui possiamo arrivare con la bocca.

    «Ti amo», sussurro. «Mi dispiace che sia tutto così caotico… pensi che sia stato un errore comprare la ca…».

    «Sta’ zitta», replica lui dolcemente, aprendomi le gambe. «Non voglio pensarci adesso. Tutto quello che voglio sei tu». Lo attiro a me, stringendo le mani sui suoi glutei piccoli e stretti mentre ci muoviamo insieme.

    All’improvviso sento un forte rumore sordo. Sussulto nervosa. «Che è stato?»

    «Mmm… non è nulla. Baciami».

    «No, ascolta! C’è qualcuno alla porta».

    «Chi se ne frega?».

    Tump, tump, tump. Sembra che stiano martellando con il pugno.

    «Chi pensi che sia? Che facciamo?».

    Jack solleva la testa. «Ignoralo».

    I colpi continuano e diventano più forti, più insistenti.

    «Forse è Alan. Potrebbe essersi scordato qualcosa».

    «Se è così, può aspettare fino a domani».

    «Non può essere Alan, ha una chiave». Tump, tump. Non mollano. Mi districo da sotto di lui e afferro la vestaglia.

    «Non rispondere. Sarà un fattorino che ha sbagliato indirizzo».

    Tump, tump, tump.

    «Non a quest’ora. Sembra davvero urgente. Forse è la polizia».

    «Perché dovrebbe essere la polizia?», dice, mettendosi a sedere. «È assurdo».

    Ma so che i colpi non si fermeranno finché non risponderò. Corro a piedi nudi nel corridoio ghiacciato, legando rapidamente la cintura della vestaglia.

    «Chi è?», urlo. Una sagoma scura preme contro il vetro rinforzato dalla rete metallica.

    «Vi prego, fatemi entrare! Vi prego!». Una voce femminile.

    Mi chino e grido attraverso la cassetta delle lettere. «Chi sei? Cosa vuoi?»

    «Ho bisogno di aiuto!».

    Jack emerge, un asciugamano intorno alla vita. «Che succede?»

    «C’è una donna là fuori. Dice che ha bisogno di aiuto».

    «Che cosa? Potrebbe essere una truffa, Stella. Non rispondere».

    Ma tutto ciò a cui riesco a pensare sono mamma e papà, il ricordo di loro che giacciono sanguinanti sulla strada nella notte buia e piovosa. Forse hanno chiesto aiuto, ma non è arrivato nessuno. Se il conducente si fosse fermato, se un passante avesse assistito all’incidente e avesse chiamato un’ambulanza, oggi potrebbero essere ancora vivi. E non mi porterei sulle spalle tutto il senso di colpa. E magari questa è un’occasione per fare ammenda per la cosa terribile che ho fatto.

    Senza pensarci due volte, spalanco la porta d’ingresso.

    Capitolo due

    Stella

    Oggi

    La donna barcolla in avanti per qualche passo, poi cade di testa nel corridoio, sbattendo forte contro le fredde piastrelle e rotolandosi sul fianco. Per un secondo resta completamente immobile; non si sente altro che il suo respiro affannoso. Jack e io la fissiamo.

    «Ma che…?», mormora lui.

    La sconosciuta ha dei brutti lividi sul viso, il labbro gonfio e del sangue che le gocciola dall’angolo della bocca. Ci sono strisce di sangue secco sul davanti della sua felpa, i pantaloni della tuta sono cenciosi e macchiati e indossa delle pantofole. Niente cappotto, niente calzini. Stringe al petto una borsetta marrone. Dietro di lei sulla soglia c’è una piccola valigia nera, delle dimensioni che userei per un week-end fuori.

    «Che è successo?». Mi accovaccio accanto a lei.

    «La porta», dice attraverso le labbra gonfie.

    «Cosa? C’è qualcuno là fuori? Jack… chiudila, per l’amor di Dio! È terrorizzata».

    Jack va alla porta ed esce fuori, sbirciando nell’oscurità. «Non vedo nessuno». Ritorna dentro, sposta la valigia nel corridoio e chiude la porta. «Ti hanno rapinata?». Lei scuote la testa.

    «Non ti preoccupare», dico con gentilezza. «Ci prenderemo cura di te». Alzo lo sguardo su Jack. «Dovremmo chiamare la polizia? Un’ambulanza?»

    «No! Niente polizia!». La donna scuote la testa furiosamente. «Niente ambulanza».

    «Ma sei stata aggredita».

    «No! Hanno detto che andava bene… niente polizia…».

    «Chi ha detto che andava bene? Il bastardo che ha fatto questo?»

    «No! No… telefono… al telefono».

    «Scusa, non capisco».

    «Chi sei?», chiede Jack, indugiando a pochi passi di distanza. «Perché sei qui?»

    «Non preoccupiamoci di questo adesso. C’è un kit di pronto soccorso in uno degli scatoloni», dico. «Vedi se riesci a trovarlo».

    Non si muove. «Ma non sappiamo nulla…».

    «Ora non ha importanza. È ferita. Trova della pomata antisettica, dei cerotti, qualsiasi cosa. Metti su un bollitore, ci serve dell’acqua calda».

    «Dovremmo chiamare la polizia».

    «Lei non vuole. Ti prego, pensa solo a trovare il kit di pronto soccorso. E mettiti qualcosa addosso». Si gira sbuffando e scompare nel salotto.

    Torno alla donna. «Riesci a stare seduta?». Lei annuisce. «Lascia che ti aiuti». La tiro su con cautela. «Io sono Stella. Come ti chiami?»

    «Lori», borbotta. «Grazie». Muove rigidamente la testa, guardandosi intorno con un’espressione perplessa.

    «Sei sicura di non voler andare al pronto soccorso?»

    «No. Cioè, sì, sono sicura… non mi serve l’ospedale. Niente polizia».

    «Ma sei stata aggredita, Lori. Devi denunciarlo. Com’è successo? È stato un estraneo oppure lo conoscevi?».

    Stringe forte gli occhi. «Qui è Westhill House, giusto?»

    «Sì…», rispondo con circospezione.

    «Accogliete chiunque, niente domande, niente polizia a meno che non la chiediamo noi. Non voltate le spalle a nessuno, è quello che hanno detto».

    «Chi l’ha detto?»

    «Il telefono amico».

    «Cosa? Mi dispiace tantissimo, penso che ci sia stato un errore».

    «No, nessun errore», dice lei con fermezza. «È Westhill House. Il rifugio».

    «Un rifugio?»

    «Sì! Cioè, per le donne maltrattate». In automatico mi vengono in mente i posti letto, gli spazi comuni al piano di sotto, le telecamere, gli allarmi, il vetro di sicurezza su tutte le porte esterne.

    «Be’, ehm, forse, non lo so, forse una volta era un rifugio, ma non lo è più, non lo è da molto tempo. Adesso è una casa privata. Mi dispiace davvero tanto, ma ti hanno dato informazioni sbagliate…».

    Mi afferra il braccio. «Ti prego, cara, ti prego, non mandarmi via! Non ho nessun altro posto dove andare, sono scappata per mettermi in salvo. Adesso lui sarà là fuori a cercarmi. Se mi trova, sono certa che mi ucciderà. Per favore, ti imploro, lasciami restare».

    Mi gira la testa per i tanti pensieri contraddittori. Ho appena lasciato entrare una perfetta sconosciuta in casa mia; devo essere pazza. Come faccio a sapere che sta dicendo la verità? Ma poi guardo i lividi sul viso, il labbro gonfio sanguinante…

    «Prima andiamo a darci una ripulita», dico, sollevandola in piedi con delicatezza. La guido in salotto e la faccio sedere sul bordo del nostro nuovo letto, dove pochi istanti fa eravamo in preda a un appassionato amplesso. Lo sguardo della donna vaga sulla scena rivelatrice. I resti della nostra cena romantica sono ancora sul tavolo, le candele tremolanti si sono bruciate fino a diventare moccoli, i nostri bicchieri di vino vuoti sono macchiati di rosso rubino. I miei vestiti sono sul pavimento dove Jack li ha lanciati dopo avermeli strappati di dosso. Il nostro dimenarsi ha sgualcito le lenzuola.

    «Scusa per il disordine», dico, nascondendo alla svelta il reggiseno e le mutande sotto il letto a forza di calci. La vestaglia sottile nasconde a malapena la mia nudità, e i piedi scalzi mi si stanno congelando. «Ci siamo accampati qui mentre sistemiamo la casa».

    «Oh, giusto». Tiene le gambe strette e impugna la borsetta come se contenesse tutta la sua vita.

    Jack, ora di nuovo in jeans e camicia, mi porta il kit di pronto soccorso e apro un pacchetto di salviette antisettiche. Lori sussulta mentre cerco di pulirle il sangue secco dal viso. «Scusa. C’è un taglietto sullo zigomo e l’interno della bocca sembra sanguinare».

    «Mi ha colpito e mi sono morsa la guancia».

    «Dovresti farti visitare in ospedale», dice Jack, indugiando dietro di me.

    La donna scuote la testa. «Nah, andrà tutto bene… mi è successo di peggio».

    «Ecco qua, meglio di così non posso fare». Metto un cerotto sul taglio. Lori alza lo sguardo e mi fa un debole sorriso.

    «Grazie, sei un angelo. Non so cosa avrei fatto se non avessi aperto la porta».

    Jack la sta fissando, il naso arricciato per il disgusto. «Chi ti ha fatto questo?»

    «Mio marito», risponde lei sottovoce.

    «Cristo… Perché?»

    «Non parliamone adesso», dico, lanciandogli un’occhiata. «È scappata, è questo che conta». Rivolgendomi a Lori, aggiungo: «Sei stata incredibilmente coraggiosa».

    «Oh, non lo so». Abbassa lo sguardo sulle sporche pantofole rosa. «Devo sembrarvi un disastro totale. Non ho messo neanche le scarpe». I suoi spenti occhi grigi si riempiono di lacrime e lei se le asciuga con la manica. «Ma almeno sono viva, eh? Per un soffio».

    Segue una pausa. «Vuoi un bicchiere d’acqua? O un po’ di tè?»

    «Tè, per favore, se lo prepari».

    «Penso che una bella tazza serva a tutti». Lancio uno sguardo eloquente a Jack e lui mi fa cenno che vuole parlarmi. «Torno subito», dico, seguendolo fuori dalla stanza.

    Andiamo in cucina e lui si chiude la porta alle spalle, con il volto corrugato per l’irritazione.

    «Lo so cosa stai pensando», bisbiglia, «ma non può rimanere».

    «Perché no?»

    «Perché no! Non sappiamo chi sia, o perché sia qui…».

    «Ce l’ha appena detto. Si chiama Lori; suo marito l’ha picchiata, così è fuggita».

    «Come facciamo a sapere che sta dicendo la verità?».

    Riempio la teiera e la metto a bollire, sperando che il gorgoglio sovrasti la nostra conversazione. «Guarda com’è messa! Non possiamo mandarla via. Suo marito potrebbe averla seguita. Potrebbe essere là fuori adesso, ad aspettarla. E se la uccidesse per strada? Non ci perdoneremmo mai».

    «Se è là fuori, dovremmo chiamare la polizia. Lasciare che siano loro a risolvere la situazione».

    «Non vuole che vengano coinvolti».

    «Che stupidaggine. E perché mai?»

    «Non lo so, Jack, deve avere le sue ragioni. Forse non si fida di loro».

    Lui sbuffa, incapace di capire. «Be’, forse io non mi fido di lei. Cioè, perché venire qui? Perché scegliere noi?»

    «A quanto pare, questa casa era un rifugio». Mi fissa con sguardo assente. «Sai, per le vittime di abusi domestici. Il loro indirizzo viene tenuto segreto».

    «Oh. Giusto…». Ci pensa per qualche secondo. «Se è un segreto, come mai lo conosceva?»

    «Ha chiamato un telefono amico e le è stato dato questo indirizzo».

    «Quale telefono amico?»

    «Non lo so. Le hanno detto di venire qui e che si sarebbero presi cura di lei… hanno sbagliato loro, non è stata colpa sua».

    Jack prende fiato. «Okay, okay, la storia ha un minimo di senso, immagino. Ma non è più un rifugio, no?». Mi rivolge uno sguardo intenso.

    Metto le bustine di tè in tre tazze e verso l’acqua bollente. «È mezzanotte; è ferita, spaventata, sotto shock. Non possiamo sbatterla fuori adesso. Possiamo sistemarla sul materassino gonfiabile con un sacco a pelo nell’altra stanza». Passo accanto a Jack per raggiungere il frigo e tirare fuori il latte. «Non è un gran problema».

    «Sì, invece… è un problema enorme», dice, nero di rabbia. «Non sappiamo nulla di lei».

    «È solo per stanotte. La aiuterò a trovare un rifugio vero domattina». Prendo due tazze. «Sii gentile, Jack. Ti prego, fallo per me». Lo lascio in cucina con il suo broncio infuriato e torno dalla nostra ospite.

    «Ci vuoi lo zucchero?», chiedo quando entro nella sala, sperando con tutto il cuore che non ci abbia sentito.

    «No, va bene, basta sia bello caldo». Le passo una tazza e lei la culla contro la sua maglia macchiata di sangue. «Mi dispiace davvero per aver fatto irruzione in questo modo. Mi hanno detto al telefono che potevo semplicemente presentarmi, nessuno mi avrebbe fatto delle domande».

    «Non preoccuparti, non è colpa tua, ti hanno informata male».

    «Lo so, ma ci sto malissimo…». Fa una pausa, guardando con ansia verso la porta. «Ho la sensazione che tuo marito non sia molto contento che io sia qui».

    «In realtà, non è mio marito, ma è a posto… va tutto bene, vogliamo aiutarti tutti e due. Abbiamo un materassino gonfiabile dove puoi dormire stanotte. Ti sistemerò nell’altra stanza. È un po’ un cantiere, temo».

    «Qualsiasi cosa è meglio che vivere per strada. Sei un tesoro, grazie».

    «Per favore, non continuare a ringraziarmi, va tutto bene. Cerca di riposare un po’ e risolveremo tutto quanto al mattino».

    È quasi l’una quando ci mettiamo a letto. Nell’oscurità, ascolto il respiro pesante di Jack e rifletto su Lori nella stanza dall’altra parte del corridoio. È crollata per la stanchezza o anche lei è ancora sveglia? Sarei sorpresa se riuscisse a dormire dopo quello che ha passato stanotte.

    Mi giro su un lato, ascoltando i rumori della casa. È come se si fosse svegliata dopo un lungo sonno, e si stesse stropicciando gli occhi e allungando gli arti. La sento respirare dolcemente, le assi del pavimento scricchiolano come vecchie ossa, i tubi arrugginiti gorgogliano e tossiscono. Quante donne hanno bussato alla sua porta, maltrattate e ferite, alla disperata ricerca di aiuto? Potrebbero essere state centinaia, persino migliaia.

    Jack è

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