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Recit'Arte: Approfondimento sulla tecnica recitativa dal metodo Stanislavskij all'Actors Studio
Recit'Arte: Approfondimento sulla tecnica recitativa dal metodo Stanislavskij all'Actors Studio
Recit'Arte: Approfondimento sulla tecnica recitativa dal metodo Stanislavskij all'Actors Studio
E-book157 pagine1 ora

Recit'Arte: Approfondimento sulla tecnica recitativa dal metodo Stanislavskij all'Actors Studio

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Info su questo ebook

Il metodo Stanislavskij è preso come testo fondamentale per chi voglia intraprendere la carriera teatrale.
Lee Strasberg ha adattato questo metodo per il cinema.
In Italia si pensa che l'attore teatrale non possa recitare anche al cinema. 
Con questo libro tentiamo di dimostrare che i due metodi sono compatibili, perché le emozioni provate sono le stesse solo che nel teatro vanno espresse con una voce più amplificata e nel cinema, considerati i mezzi moderni di amplificazione dei suoni, basta sussurrare.

Gaetano Rampin:  Diploma triennale alla Scuola di Teatro (divenuta poi DAMS) dell'Università di Padova, dove in seguito si laureerà in Lettere.  Negli anni '60 torna nella Scuola di Teatro come insegnante di fonetica e mimo, affiancando figure di primo piano della scena europea quali: Jerzy Grotowski, Marcel Marceau e Rafael Alberti. Nel 1970 con Costantino de Luca è tra i fondatori del-la “Scuola Regionale di Teatro” dove insegna reci-tazione con Arnoldo Foà. Nell'ambito delle “Gior-nate Ruzantiane” organizzate dal Comune e dall'Università di Padova, debutta come regista nell'opera “Fiorina di Ruzante in casa Cornaro”. Dal 2002 al 2007 è stato consigliere di ammini-strazione del “Teatro Stabile del Veneto Carlo Goldoni". Dagli anni 90 collabora con il Comune di Padova, in qualità di animatore culturale. Nel 2005 ha pubblicato "Il Teatro dell'Università di Padova dal 1963 al 1971". È Cavaliere Ufficiale della Repubblica Italiana.
LinguaItaliano
Data di uscita20 feb 2019
ISBN9788832522389
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    Anteprima del libro

    Recit'Arte - Gaetano Rampin

    Welles

    Introduzione

    Discorso sul metodo

    Insegnare a recitare [1] è impossibile poiché è come pretendere di insegnare a vivere. Tuttavia, esaminando i modi o le regole cui ubbidisce la nostra psiche per il bisogno che abbiamo di adeguarci o di rappresentarci ideali superiori, ci accorgiamo che la recitazione (non quella da palcoscenico, da macchina da presa o da telecamera) è connaturata in noi. Nella rappresentazione teatrale e nelle altre arti dello spettacolo quella che noi chiamiamo recitazione non è che uno sfogo collettivo, una specie di codificazione socialmente rilevante di questo bisogno. In essa gli attori giocano insieme al pubblico a raccontare storie, non importa quanto fantastiche, come se accadessero in quel momento. Lo fanno non per se stessi, ma per chi sta in platea, facendo apparire vero e naturale quello che vero e naturale non è, salvo che in qualche caso particolare.

    È evidente che per sembrare veri gli attori devono possedere un bagaglio tecnico (sia fisico sia psicologico) che permetta loro di sostenere il ruolo loro assegnato.

    Questo tipo particolare di tecnica psicofisica è la recitazione propriamente detta.

    Quindi se vogliamo insegnare questo tipo di recitazione, cioè quella che serve allo spettacolo propriamente detto, essendo la recita un processo che deve sembrare naturale, dobbiamo insegnarla attraverso metodi il più possibile naturali, simili a quelli con cui il bambino, da uno a tre anni, apprende la lingua madre.

    Più l’allievo attore si lascerà andare come un bambino, disposto ad apprendere gli scatti e le modalità recitative, più, a maturazione avvenuta, diventerà naturale. In altre parole con questo metodo noi intendiamo fare in modo che l’allievo si abitui a far emergere dalla memoria, più che le parole contenute nelle frasi del testo, le intenzioni o meglio i pensieri e le emozioni che quelle parole o quelle frasi dell’autore hanno generato.

    Quando un bambino impara le parole con le quali riesce a comunicare i suoi bisogni e si accorge che quelle parole, o gruppo di parole dette in quel determinato modo, rendono facile la soddisfazione dei suoi bisogni le ripeterà ogni volta che ne avrà la necessità. Avendo provato che, ripetendo continuamente un determinato suono, viene ogni volta gratificato, legherà quel suono a quella soddisfazione che andrà a rinforzarsi nel tempo creando un riflesso condizionato. Naturalmente questo s’intreccerà con altri riflessi condizionati legati ad altri suoni e parole e formerà connessioni e intrecci che si legheranno tra loro. Il tutto si organizzerà poi in associazioni via via più intrecciate, atte a formare, in toto o in parte riflessi condizionati superiori. In questo modo si evocheranno immagini complesse, cariche di emozioni, che a loro volta solleciteranno altre immagini secondo ritmi e concatenazioni conseguenti.

    Nel linguaggio è fondamentale lo svolgersi del pensiero nel tempo. In altre parole il pensiero, dopo l’intuizione iniziale, va precisandosi fin tanto che pronunziamo (o pensiamo) la successione delle parole e delle frasi. Ciò è così intimamente intrecciato nella nostra mente che è difficile dire se nasce prima la parola o prima il pensiero che questa parola ha generato, tanto che di conseguenza è perfettamente legittimo chiedersi se riusciremmo a pensare senza parole.

    Continuare quest’analisi ci porterebbe lontano, anche perché l’argomento è così complesso che, anche volendolo esporre per sommi capi, ci porterebbe fuori tema, lontano da quello che stiamo trattando.

    Parlando quindi della recitazione professionale, con il suo conseguente bagaglio tecnico, è lecito affermare che a teatro l’unica cosa reale che abbiamo sono le parole o le azioni fornite dall’autore. Se vogliamo attualizzarle, se vogliamo rappresentare in qualche modo la realtà che queste parole vogliono dire, bisogna che l’attore si sforzi di inventarsi non solo le emozioni e i conseguenti pensieri che quelle parole hanno generato, ma anche sentirli nella successione e nei tempi necessari per far rinascere in se stesso, nella sua psiche, emozioni simili. Solo così le parole dell’autore appariranno come reinventate dall’attore. Insomma ogni dialogo, ogni scena, scritti dall’autore con uno scopo logico, nascono inevitabilmente con il loro groviglio di emozioni e queste, mentre i discorsi o le discussioni si svolgono, ne creano a loro volta delle altre che devono trovare rispondenza dell’animo dell’attore. Senza questo processo intellettivo, che deve diventare automatico, l’attore non può ritrasmettere le emozioni con le pause e i toni recitativi appropriati, atti a ricreare negli spettatori i ritmi e le emozioni stesse.

    Se i ritmi con cui si ricreano e si svolgono le emozioni non sono esatti non è possibile che il pubblico abbia l’illusione che la recitazione che percepisce sia veritiera. In sostanza quello che l’attore dà al pubblico non è solo il concatenarsi logico della storia, ma anche l’emozionalità, il clima, la sensibilità, gli approfondimenti e la fantasia delle sue scelte. Se lo spettatore vuole gustare qualsiasi testo leggendolo, dovrà farsi tutte queste fatiche da solo, poiché è naturalmente impossibile accogliere a livello cosciente qualsiasi idea o avvenimento senza ricrearli con le emozioni, le pause, i ritmi corrispondenti. Per essere veritiera la recitazione deve essere naturale, quindi essa è qualcosa di connaturato alla vita. Tutti siamo un po’ attori, anche se non da palcoscenico, poiché il pensiero espresso nel quotidiano con la parola è reale e deve esserlo quindi anche nella realtà inventata. Possiamo dire quindi, senza parlare di menzogna che, ogni volta che noi ideiamo qualcosa di fantastico e ne facciamo partecipi gli altri, recitiamo.

    L’attore più perfetto è, a nostro modo di vedere, quello che non recita per nulla, ma che trasmette in maniera più o meno piacevole, più o meno artistica, il pensiero che ha in mente. Che il pensiero sia proprio dell’attore o sia trasferito da un testo, è cosa secondaria. In ultima analisi, senza considerare gli apporti tecnici (dizione, mimo, voce ecc.) il miglior attore, secondo questa concezione, è quello che non recita per nulla, ma proietta nella realtà ideale dell’opera i modi, gli stili che appartengono ai vari movimenti della sua epoca e che sono una conseguenza entro cui può e deve spaziare l’arte.

    [1] Il teatro ha in comune con il gioco principi e regole, se non la forma stessa. Il termine italiano, invece, pone l’accento sulla finzione, sulla ripetizione del gesto o della parola (recitare = citare due volte). In molte altre lingue, invece, il termine recitare coincide con il verbo giocare. In francese si utilizza il verbo jouer , in inglese to play , in russo NRPaTb (si pronuncia igra’t) in tedesco spielen , in ungherese jàtszik, in spagnolo juego .

    Prima parte

    Prima parte

    Madre lingua e centro del linguaggio

    Dopo un primo anno di età la mente dell’uomo prende rapidamente il sopravvento su quella di tutti gli altri animali.

    È ancora materia controversa sapere se i suoni emessi dagli animali possano rappresentare un linguaggio confrontabile con quello umano. L’uomo ha la facoltà di esprimere non solo bisogni, ma anche desideri ed emozioni, astrazioni complesse e quindi pensieri (senza per questo negare che gli animali siano incapaci di pensare).

    Come si organizza la lingua madre nel cervello dell’uomo è in gran parte da scoprire, quello che è certo è che nel cervello si formano, in punti precisi, dei centri primari di trasmissione del linguaggio. Questi punti sono talmente specifici da differenziarsi a seconda che le parole siano concepite in forma parlata o scritta e se addirittura siano vocali o consonanti.

    Sul caso di distruzione in parte di tali punti i soggetti colpiti sanno leggere, ma non riescono a scrivere, oppure sanno pronunziare le vocali, ma non riescono a proferire le consonanti (o viceversa).

    Considerando la cosa per analogia si presume quindi che nei centri della scrittura e del linguaggio si organizzino probabilmente delle sequenze di riflessi condizionati, in maniera precisa e in successione temporale. In un primo momento le emozioni destano, come reazione, il bisogno e la volontà di concretizzazione d’idee che evocano parole o gruppi di parole atte a chiarificarle. A loro volta, il ritmo e la successione con cui queste operazioni si concretizzano nella mente, influenzano emotivamente la successione in una variazione continua che dà la misura dell’unità psicologica.

    Si trascura qui volutamente tutta la parte delle discipline psicologiche che fa riferimento alla gestalt [1].

    Per quanto riguarda noi, la forma base può essere considerata come primo impulso alla formazione dei condizionamenti. Questa maniera di comunicare appartiene solo all’uomo che non solo si esprime con gli atteggiamenti e i gesti (primo sistema di segnalazione che ha in comune con gli animali), ma anche con la parola (secondo sistema di segnalazione).

    È rilevante il fatto che emozioni violente sono comunicate dall’uomo come dagli animali quasi solo con gli atteggiamenti: la collera e lo shock cancellano le parole dal cervello.

    Ne consegue che, per sorgere nella nostra mente, il linguaggio ha bisogno di ritmi adeguati perché i ritmi estremi tendono ad annullarlo. In altre parole esiste un ritmo per la collera (più o meno serrato a seconda della profondità e della violenza della stessa), un ritmo per la serenità, uno per la gioia, uno per il dolore, ecc.

    Anche l’impegno mentale e la profondità del pensiero hanno un ritmo. Il ritmo per esempio con cui ci apprestiamo a fare una serenata è completamente diverso da quello che ci vuole per risolvere un problema matematico. Questo perché lo svolgersi del nostro pensiero è condizionato nel tempo dalle ideazioni precedenti. Nella sua maniera d’essere e di comunicare, quindi, l’uomo è costretto a tradurre i propri impulsi prima in pensieri e poi in gesti e parole.

    Nell’evoluzione dell’individuo, anche nelle specie a noi più vicine, il gioco costituisce la parte principale dello sviluppo. E la maniera con cui il cucciolo

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