Formia in Giallo. 6 racconti ambientati a Formia
Di AA.VV.
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Info su questo ebook
Include i racconti: L’indagine del giovane Caio di Antonio De Meo; Nitrobacter Hormianus di Francesco Chiappari; Frammenti di ricordi di Carmela Paone; Problemi di toponomastica di Maria Rosaria Perna; Ritorno di Silvana di Palma e Titti Corrado; Sulle strade del mondo di Maurizio Matrullo.
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Formia in Giallo. 6 racconti ambientati a Formia - AA.VV.
Turismo
L’indagine del giovane Caio
di Antonio De Meo
Caio passeggiava spensierato negli ambienti del maestoso Ninfeo¹, fatto innalzare dal defunto padre Lucio² in onore della dea Diana. L’ambulacro esterno, che collegava gli otto ambienti che si dipartivano dall’ampia sala centrale a pianta ottagonale, ospitava statue di divinità, di personaggi del mito e della storia romana, recente e lontana, e infine di alcuni membri della sua gloriosa famiglia. Questa, proprietaria da generazioni di enormi possedimenti nella città di Formiae, era ormai diventata per una sorta di passaggio osmotico il simbolo stesso della città. Loro erano Formiae.
Quegli ambienti, nonostante Caio li frequentasse ormai da anni, sapevano donargli sempre le emozioni della prima volta. Suo padre aveva costruito quell’immenso edificio anche per stupire l’ospite, ma Caio preferiva fruirne in privato, rigorosamente da solo. Così anche quel giorno, mentre il disco del sole aveva cominciato da poco a declinare, si aggirava tra statue, mosaici e affreschi. La sua mente, tuttavia, era rivolta ad altro.
Stava ancora riflettendo sulle parole pronunciate al mattino, nel Foro, da Caio Arrio, notabile della città. Era cittadino romano da generazioni, ben prima di quasi tutti i suoi concittadini; un privilegio della sua famiglia, gli Arrii³, di cui andava oltremodo orgoglioso. Talvolta i suoi atteggiamenti erano un po’ petulanti e saccenti – tipico in fondo di tante persone del luogo – e avevano infastidito più volte anche Cicerone⁴, così si diceva.
Arrio, nel suo lungo discorso, gli aveva detto che le guerre civili⁵ non erano ancora finite. Frase un po’ enigmatica, che aveva lasciato nello stupore Caio, cresciuto nella Pax Augustea⁶ di cui aveva sempre assaporato i benefici.
Il notaio sosteneva che negli animi di alcuni nostalgici di Bruto e Catone covasse ancora un recondito desiderio: quello di rivedere l’auctoritas⁷ pienamente restituita al Senato e al Popolo, senza quella pagliacciata – a loro dire – della restitutio⁸ di Augusto. Già in passato Caio aveva sentito simili affermazioni, ma non aveva dato loro eccessiva importanza, anche perché il tempo aveva levigato quelle nostalgie tra la popolazione, sempre più persuasa dai vantaggi della pace interna che durava ormai da molti anni. Azio e le guerre civili erano davvero un lontano ricordo, che lui e tanti altri avevano sentito raccontare ma non avevano vissuto, perché troppo piccoli o non ancora nati.
Caio si era poi congedato dall’illustre concittadino, dandogli appuntamento nel Foro per i giorni successivi. Sicuramente si sarebbero incontrati, considerando che Arrio ne era un frequentatore abituale.
Caio tornò con la mente agli ambulacri del maestoso Ninfeo, proprio mentre si trovava davanti alla statua di Cesare. Caio Giulio Cesare, di cui portava il praenomen⁹ per precisa scelta del padre, suo intimo amico. Cesare, che alle guerre civili aveva dato un nuovo impulso, ma senza volerlo. Almeno così raccontava suo padre Lucio, che addossava la maggior parte della responsabilità a Pompeo e al suo seguito, ostili a Cesare e colpevoli di aver rifiutato le sue proposte di riconciliazione. Ma ormai erano recriminazioni che appartenevano al passato, come suo padre, morto da anni. Il futuro era un altro: era iniziata una nuova età di pace e di prosperità, un saeculum aureum¹⁰.
La passeggiata nel frattempo era proseguita negli ambienti esterni della sua sontuosa dimora: sorgeva su un promontorio, rivolta verso il mare, ed era inebriata dai profumi del bosco circostante e della distesa marina che scintillava lì, a pochi passi.
Caio percorse tutto il lungo portico, che terminava con la grande cisterna. Da lì, passando dalla scala secondaria usata per lo più dagli schiavi, si recò al livello inferiore della villa, ancora più vicino al mare, nei pressi del triclinio. Lo superò, imboccando il sentiero¹¹ che conduceva fino alla piscina¹².
Nel corso delle sue lunghe passeggiate pensierose, quasi quotidiane, Caio gradiva non essere accompagnato. Il personale sapeva, ben istruito da Fabullo, l’intendente della villa. Caio era dunque solo quando fu preso dal desiderio di recarsi quasi in riva al mare, fermandosi sulle rocce che lo guardavano dall’alto. Pensava ancora alle parole di Arrio, alle guerre di Cesare, alle immense ricchezze accumulate da suo padre nei modi che tutti conoscevano, poi sperperate, poi di nuovo accumulate.
Era costume dei Romani diventare ricchi in tal modo, ma Lucio, dicevano, aveva superato i limiti del decoro, mettendo in imbarazzo persino il potente Cesare. Al termine della guerra civile tra Cesare e Pompeo, poi, Lucio aveva faticato a identificarsi in quella nuova Roma, in quel nuovo mondo: aveva dunque scelto di ritirarsi a vita privata, vivendo delle rendite delle sue proprietà e delle ricchezze investite nelle attività delle compagnie dei publicani¹³.
Trascorreva la sua vita tra la famosa domus sul Celio¹⁴ e le proprietà suburbane ed extraurbane, tra cui Formiae occupava un posto particolare. Ma non aveva fatto in tempo a salutare il nuovo corso iniziato con la battaglia di Azio; la morte lo aveva colto prima, all’improvviso, nel sonno.
La brezza dolce del mare accarezzava i capelli di Caio e il gorgoglio delle acque che levigavano la distesa di ciottoli davanti alla villa rompeva il silenzio della natura. Anche le voci degli schiavi erano lontane. Nel silenzio un solo sibilo impercettibile, almeno alle orecchie di Caio.
Fu un istante. Caio si portò istintivamente la mano al collo e perse l’equilibrio, cadendo tra le rocce. Poi più nulla.
Licisco, mosso forse dal Fato, percorreva il sentiero con la cesta del pesce tra le mani. Appena pescato dalla piscina, era destinato a impreziosire la mensa del giovane dominus¹⁵: murene e pesci di scoglio, che solo pochi minuti prima guizzavano ancora nell’acqua placida dell’allevamento ricavato in un’insenatura naturale. Camminava solerte, Licisco, lungo quel sentiero che ormai avrebbe potuto percorrere anche ad occhi chiusi, quando vide una macchia bianca sulla sua sinistra, in basso.
La tunica del dominus! Il dominus!
«Domine!» fu il grido disperato che lanciò. Corse subito verso la villa in cerca di aiuto, ma non fu necessario arrivarci, poiché il suo grido aveva richiamato l’attenzione degli schiavi e di Fabullo e li aveva indotti a precipitarsi verso di lui.
«Il dominus, il dominus!» balbettò Licisco.
«Il dominus cosa? Cosa è accaduto?» gridò Fabullo. Licisco continuava a balbettare e non seppe far altro che indicare il punto in cui doveva giacere il corpo del padrone.
Fabullo corse in quella direzione. Notò un lembo di tunica impigliato allo sperone di una roccia. Si avvicinò e scorse il corpo del padrone, disteso nel fondo di quella buca stretta, profonda più di dieci piedi. «Domine, domine!» gli urlò, ma non ebbe alcuna risposta.
Facendo leva sulle pareti verticali con mani e piedi, si calò fino a raggiungere il corpo esanime. Il capo era sanguinante e gli arti presentavano diverse escoriazioni. Non sembravano esserci fratture. Vide che il bordo della tunica era strappato e capì allora che Caio doveva essere caduto, e che la tunica, impigliandosi, aveva attutito l’impatto con le rocce, che altrimenti sarebbe stato più rovinoso.
Impartì gli ordini agli schiavi: alcuni restarono sul bordo della cavità, altri si calarono a mezz’altezza, e insieme, con ogni premura possibile, tirarono su il padrone. Respirava, ma era incosciente. Fabullo fece preparare un bagno caldo; poi, aiutato dagli schiavi, lo portò all’interno della villa. Il battito era debole ma regolare. La ferita sul capo sanguinava, ma non sembrava troppo grave; il resto non era nulla di cui preoccuparsi. Lo sguardo tuttavia era assente, né Caio sembrava dare alcun segno di ripresa. Un improvviso malore? Avrebbe dovuto già rinvenire. No, doveva essere altro, probabilmente più grave.
Uno schiavo si era lanciato a cavallo in direzione del centro della città, in cui abitava il medico. Con una buona cavalcata non avrebbero impiegato molto a tornare. Fabullo era incerto sul da farsi: Caio era ancora incosciente, i bagni caldi e freddi a cui l’aveva sottoposto non avevano sortito effetto alcuno.
Uno schiavo notò un segno sul suo collo: un piccolo foro. «Collum, collum!» indicò. Date le sue origini galliche e il recente ingresso nella familia¹⁶, il suo latino era ancora incerto. Guardò quindi Fabullo dritto negli occhi e con la mano mimò il gesto di una freccia che colpiva il collo – sebbene con ogni probabilità non si trattava di una freccia, ma di un piccolo dardo, perché la ferita era troppo piccola.
Fabullo lasciò Caio e con quello schiavo tornò nel luogo in cui il dominus era caduto. Guardarono a terra, ma non videro nulla. Poi lo schiavo si calò nella buca e trovò qualcosa, una piccola asta di legno. La prese con il lembo della veste, risalì e gliela mostrò: era un piccolo dardo, talmente piccolo che non poteva esser stato scagliato con un arco.
«Venenum» disse poi, senza mostrare alcun dubbio. Quel piccolo dardo era avvelenato e il veleno era entrato nel corpo di Caio.
Si diressero alla villa, da Caio. Fabullo mandò a chiamare Vindorige, schiavo di vecchia data, giunto nella familia prima che Caio nascesse, e gli chiese di fungere da intermediario con lo schiavo che balbettava il latino ma che non aveva affatto dimenticato il celtico¹⁷. Vindorige, dal canto suo, non parlava più la sua lingua originaria da quasi trent’anni, ma questo non gli impedì di affrontare il compito che gli era stato assegnato.
Parlavano due dialetti diversi perché i Galli erano divisi in tribù con idiomi distinti, non tali però da impedire la reciproca comprensione. Lo schiavo era della tribù degli Arverni, nel sud della Gallia. Aveva visto la guerra contro Cesare¹⁸, anche se non vi aveva partecipato perché era troppo piccolo, allora. Ma aveva visto combattere suo padre, ottimo arciere, e lo aveva visto intingere le frecce in un veleno letale. A volte lo aveva anche aiutato.
Di quel veleno aveva riconosciuto il colore, l’odore e le conseguenze nei sintomi che Caio mostrava. Ne era sicuro. Continuava a ripetere il nome della pianta, ma nella sua lingua. Se nessuno ne avesse capito il corrispettivo latino, il tentativo sarebbe stato vano.
Nel frattempo era giunto Lucio, il medico. Visitò subito il corpo di Caio, che aveva ripreso un barlume di coscienza, troppo fievole però per poter rispondere a delle domande. Poi chiese di avere tutte le informazioni che potessero essere utili.
Vindorige gli riferì quanto comunicatogli dallo schiavo. Il Fato volle che Lucio fosse un medico con una lunga esperienza e che conoscesse i principali veleni; sebbene non ne avesse visto, di tutti, gli effetti sugli uomini, sapeva quali fossero i sintomi e i rimedi. Le reazioni di Caio erano comuni a diversi veleni, ma essendo il Gallo un Arverno, il veleno doveva essere tipico delle sue parti. Appena seppe che in passato era stato utilizzato per avvelenare le frecce, giunse all’unica conclusione possibile: l’aconitum¹⁹, il veleno delle Alpi.
Non c’era tempo da perdere: il corpo di Caio doveva liberarsi di quel veleno. Lucio provò tutti i rimedi di cui era a conoscenza e fece immergere il corpo nell’acqua calda, poi volle parlare da solo con Fabullo. Il rischio era serio: Caio avrebbe potuto non farcela. Pertanto bisognava prepararsi all’eventualità.
Ma il Fato volle altro. Caio superò la fase critica e nel giro di una settimana si riprese quasi del tutto. Nel frattempo, la notizia dell’avvelenamento si era diffusa in tutta Formiae. Gli avvelenamenti non erano certo una rarità, ma lui era sempre il figlio del grande Mamurra: l’accaduto non poteva non generare clamore.
Appena il giovane fu in grado di ricevere visite, Arrio giunse nella sua villa. Caio era ancora un po’ debole, pertanto lo ricevette adagiato su un comodo letto.
«Ave²⁰, giovane Caio!»
«Ave a te, nobile Arrio!»
Dopo poche battute, Caio propose un bagno corroborante nel suo balneum²¹. Arrio accettò con piacere. Contrariamente alle consuetudini, si limitarono al bagno nel solo calidarium, la cui temperatura era molto gradevole, tale da trasformarlo quasi in un tepidarium. Il corpo di Caio non poteva essere sottoposto a eccessive sollecitazioni, almeno erano queste le premure di Fabullo, e Caio, sorridendo, aveva accettato l’imposizione.
A sentire di tali premure, Arrio sorrise di buon gusto. «Nobile