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Commodo. Cesare Erculeo
Commodo. Cesare Erculeo
Commodo. Cesare Erculeo
E-book387 pagine4 ore

Commodo. Cesare Erculeo

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Info su questo ebook

169 d.C. - L'imperatore Marco Aurelio è angosciato dalle continue rivolte dei popoli barbari al confine
Danubiano e dalla peste che sta decimando la popolazione imperiale. A entrambe le situazioni sembra non
esserci soluzione, ma egli trova conforto in un'incrollabile certezza. Ha un erede al trono.
Questi è il suo ultimo figlio superstite, Commodo, che ha proclamato Cesare tre anni prima.
Scegliendo di dare vita a una vera e propria dinastia, Marco spera di poter regnare un giorno assieme al figlio,
facendone il bastone della propria vecchiaia oltre che un collega col quale lavorare in concordia.
Ma non sarà così. E non solo perchè la malattia lo porterà via prima che ciò possa accadere.
Commodo, ancora bambino, ha già compreso il potere e la sua posizione. E ha fatto una promessa a sé stesso.
Divenire tutto, fuorché la copia di suo padre.
LinguaItaliano
Data di uscita18 gen 2020
ISBN9788835361015
Commodo. Cesare Erculeo

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    Anteprima del libro

    Commodo. Cesare Erculeo - Patrizio Corda

    Corda

    COMMODO

    CESARE ERCULEO

    Patrizio Corda

    A mia sorella

    I

    Il sogno

    Roma, Gennaio 161 d.C.

    Anche nel sonno, Faustina si teneva il ventre.

    Non poteva evitare di farlo. Con quel gesto protettivo intendeva tenere lontano dal proprio grembo lo spettro della morte che già aveva colpito inesorabile la prole sua e del marito Marco Aurelio. Mai avrebbe potuto dimenticare la scomparsa di Tito Elio Antonio, Adriano e Domizia Faustina, i figli che aveva dovuto seppellire.

    Da allora, ogni gravidanza era stata vissuta più con terrore che con gioia, nella paura che la tragedia potesse ripetersi.

    Erano stati giorni segnati da emozioni contrastanti.

    Suo padre, l’augusto Antonino Pio, era ormai prossimo a esalare l’ultimo respiro, accommiatandosi da un impero che sotto di lui era fiorito grazie ad anni di pace e prosperità. D’altra parte, proprio Marco Aurelio avrebbe ereditato quella porpora assieme a Lucio Vero.

    Si prospettava un governo equamente diviso tra i due, che Antonino aveva voluto adottare anzitempo dando l’ennesima prova del buon senso che da sempre l’aveva contraddistinto.

    Suo marito avrebbe retto l’impero, succedendo al padre morente.

    Non era possibile per Faustina capire se ciò fosse maggiormente ragione di dolore o di felicità.

    Dicendo addio al padre, avrebbe salutato l’ascesa del suo consorte.

    In aggiunta, nell’arco di pochi mesi avrebbero dato il benvenuto alla creatura che già viveva in lei.

    Ma quel sonno agitato portò in dote a Faustina una visione.

    Contorcendosi tra le lenzuola, sprofondò nell’oscurità lasciando che la mente vagasse dando vita ai suoi pensieri più reconditi.

    Si scoprì così a scrutare sé stessa, come se fosse riuscita a distaccarsi dal proprio corpo.

    Ma non c’era nulla che non andasse in lei. Era esattamente come si era sempre vista. Minuta, dal viso dolce e mansueto, i capelli biondi che ben si sposavano con la sua carnagione rosea.

    Il ventre era gonfio e dilatato, ben più di quanto ricordasse.

    Anche in quella visione onirica, teneva le mani ben salde attorno ad esso assecondando il proprio istinto materno.

    Concentrandosi, realizzò che si stava avvicinando sempre più alla sua stessa proiezione, quasi luminosa mentre era avvolta dall’oscurità più nera.

    Senza volerlo la sua attenzione si concentrò ancora su quel ventre così ampio, più voluminoso rispetto alle altre gravidanze.

    Cosa voleva dire?

    Non riuscendo a trovare una risposta, e ben sapendo che quella non era che la manifestazione delle sue fantasie, lasciò che le tenebre avvolgessero anche lei fino a che un’altra immagine non si palesò ai suoi occhi stupiti.

    Due serpenti si muovevano in uno spazio incredibilmente angusto che limitava le loro evoluzioni. Le loro pelli verdastre si sfioravano, brevi lucori si spandevano ovunque partendo dalle squame.

    Le due creature erano avvinghiate l’una all’altra e sembravano quasi combattere per la supremazia in quell’ambiente ristretto e opprimente.

    Ebbe un’intuizione.

    Che si trattasse del suo stesso grembo?

    Se così fosse stato, allora avrebbe voluto dire che non aspettava un solo figlio ma bensì due. Ecco il perché di quella pancia spropositata.

    Privata della parola, Faustina continuò a osservare la scena.

    Uno dei due serpenti col tempo riuscì a ritagliarsi sempre più spazio, lottando con una foga che l’altro non aveva. Le sue spire si strinsero attorno al gemello, sottomettendolo del tutto.

    Lo vide spalancare le fauci, esibendo denti acuminati che stillavano veleno denso e una lingua biforcuta.

    La sua morsa, lenta e inarrestabile, finì per immobilizzare completamente il suo pari che le parve presto rassegnato a perdere quella lotta per la sopravvivenza.

    Eppure, non morì.

    La situazione rimase invariata per un tempo indefinito.

    Turbata, Faustina si chiese se ciò significasse che pur dando vita a due figli, uno sarebbe morto.

    L’ennesima ferita sul suo core già provato.

    Rifuggendo quella vista e quei suoi timori, cercò di dimenarsi così da poter sfuggire alla paura che la stava paralizzando.

    E alla fine vi riuscì.

    Si issò a fatica, ritrovandosi nella stanza da letto. Era madida di sudore, e tutt’attorno non era possibile che udire il suo respiro affannoso mentre cercava di acquietare il battito accelerato.

    Istintivamente, si portò per l’ennesima volta la mano al ventre.

    Chissà che dentro di questo non fosse veramente in corso la battaglia a cui aveva assistito.

    II

    Porpora infausta

    Lanuvio, 31 Agosto 161 d.C.

    Faustina sorrise.

    Non c’era ragione per non farlo: tutto era andato per il meglio. Cercò con lo sguardo Marco Aurelio, che le sembrò più regale del solito con la sua porpora d’imperatore indosso.

    Per una volta la lunga barba castana, adagiata sul suo viso smunto e pallido, non gli dava l’aria di un filosofo poco avvezzo alle cose materiali. Si sorrisero a vicenda, ma quasi con timidezza.

    Le loro vite sarebbero state per sempre segnate dalle morti dei figli che avevano perso in età tenerissima, ma quel giorno non avrebbero concesso a nessun pensiero triste di soggiogarli.

    Alla fine, il sogno che aveva fatto si era rivelato premonitore.

    Aveva dato alla luce due maschi, ma con la differenza che entrambi erano nati senza alcun problema. Erano meravigliosi, in carne e già con qualche capello biondo sul capo.

    Tito Aurelio Fulvio Antonino, e Lucio Elio Aurelio Commodo.

    Erano questi i loro nomi, e grazie ad essi, pensò Faustina, finalmente la felicità sarebbe tornata nella loro famiglia dopo lunghissimi momenti bui.

    Sentì la mano fredda di Marco sfiorare la sua mentre continuavano a contemplare il riposo pacifico dei due piccoli.

    «Sono certa che tu abbia consultato gli astrologi» disse Marco con la sua voce profonda ma gentile.

    Faustina, ancora dolorante, si tenne a lui e annuì.

    «Sentivo che era necessario farlo» gli rispose con gli occhi umidi mentre terribili ricordi riaffioravano. «Abbiamo sofferto fin troppo. Volevo accertarmi che le loro esistenze iniziassero sotto i migliori auspici. E così è stato».

    Non volendo turbarla, Marco Aurelio tacque.

    Conosceva il peso delle parole, e non poteva certo sminuire il pensiero della moglie. Avevano un disperato bisogno di serenità, e in fondo era convinto quanto lei che avessero un conto in sospeso con gli Dei. Dopo tutte quelle tragedie, era ragionevole che Faustina ricorresse a qualsiasi mezzo pur di evitarne delle altre.

    «Sono meravigliosi» sussurrò lei, commossa.

    Marco la strinse a sé.

    «Come vedi, le tue preoccupazioni erano infondate».

    Senza volerlo, quella sua affermazione fece ricordare a Faustina del sogno che aveva fatto mesi prima e del quale gli aveva parlato.

    Si specchiarono l’uno negli occhi dell’altra.

    «Io dovevo essere sicura» ribatté lei con una fermezza che era raro sentire nella sua voce morbida.

    «Lo so».

    Rimasero nuovamente in silenzio, anche per non risvegliare i due neonati che dopo il parto erano immediatamente sprofondati in un sonno placido e tranquillo.

    Senza scostarsi da lei, Marco rifletté.

    I dolori della vita avevano reso la sua consorte timorosa e attenta a qualsiasi segnale, al punto da dare credito a quello che probabilmente era stato solo un incubo. Certo, l’immagine dei due serpenti nel grembo materno era forte ed evocativa, ma era altrettanto vero che il fatto che fossero realmente nati due gemelli era probabilmente solo una coincidenza.

    Eppure, in quel momento dovette ammettere a sé stesso che anche lui aveva cercato dei segnali, alla vigilia del parto.

    E proprio quel giorno ne aveva trovato uno assai poco confortante, pur odiandosi per il fatto di dargli un’importanza che sicuramente non aveva.

    I suoi eredi erano nati in un giorno noto a molti.

    Un giorno in cui proprio un imperatore era nato.

    E sarebbe stato un segno positivo e nel quale sperare, se solo i suoi figli avessero condiviso il giorno di nascita con uno dei peggiori Cesari della storia.

    Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico, l’uomo passato alla storia come Caligola.

    III

    Con occhi di bambino

    Roma, Maggio 165 d.C.

    Perché sua madre piangeva?

    In quella stanza ombrosa, Commodo risplendeva. Era ancora un bambino ma aveva già un fisico naturalmente elegante, un volto dolce e raffinato e capelli biondissimi. I suoi occhi grandi cercarono risposte in quell’ambiente disadorno.

    Faustina aveva il viso, solitamente sereno, contratto in una smorfia che gli parve orribile mentre cercava di trattenere le lacrime.

    Cullava quasi ossessivamente il più giovane dei suoi figli, il piccolo Marco Annio Vennio, quasi a volerlo distrarre da ciò che stava accadendo attorno a loro.

    Senza capire il perché di quel suo comportamento, Commodo continuò a guardarsi attorno. Le sue sorelle maggiori, Lucilla, Fadilla e Annia erano sedute l’una vicina all’altra.

    Non si parlavano.

    Tenevano gli sguardi fissi a terra, contrite e silenziose come chiunque avesse incontrato in quel giorno così strano.

    E dire che fuori c’era un sole meraviglioso, al calore del quale Commodo avrebbe tanto voluto giocare.

    Invece era stato condotto da un gruppo di ancelle in quella stanza, senza neanche sentirsi dire una parola.

    Libero di fare ciò che voleva, mosse qualche passo verso il piano sul quale era adagiato il suo gemello, Tito.

    Un mugolio straziante di Faustina gli fece temere di aver fatto qualcosa di sbagliato, ma poi la vide andare a rannicchiarsi in un angolo dandogli le spalle.

    Là dov’era anche suo padre Marco Aurelio.

    Si fermò a scrutarlo.

    Non l’aveva mai visto sorridere di gioia, perennemente assorbito dai doveri del suo ruolo di imperatore.

    Commodo sentiva di volergli bene. D’altronde, era l’uomo che l’aveva messo al mondo. Ciò nonostante, ogni qual volta aveva espresso il desiderio di spendere del tempo con lui si era sentito dire che l’augusto era intento a risolvere un problema urgente.

    Inizialmente aveva sofferto, manifestando le proprie frustrazioni nei modi puerili giustificati dalla sua tenera età. Ma col tempo aveva finito quasi per essere indifferente alla cosa.

    La corte imperiale era piena di servi il cui lavoro era proprio passare le giornate appresso a lui, e lentamente si era accontentato di rendere costoro i suoi amici.

    Diverso invece era stato il rapporto con sua madre.

    Ma Faustina sembrava non avere occhi per lui, quel mattino.

    Pensava solamente a prendersi cura di Marco, anch’egli troppo piccolo per capire quello che succedeva.

    E di tanto in tanto lanciava delle occhiate a Tito per poi mordersi le labbra e cercare conforto tra le braccia di Marco, che sembrava il più perso tra loro con i suoi occhi vacui e il colorito terreo.

    Allora, Commodo tornò proprio da Tito.

    Gli sfiorò il braccio, e si soffermò sul suo pallore così insolito.

    Le sue labbra, che erano sempre state di un rosa acceso, erano adesso violacee.

    Giaceva composto, con gli occhi chiusi.

    Stava dormendo?

    E se così era, allora perché erano tutti così disperati?

    Per quale ragione l’intera famiglia si era riunita lì se il suo gemello stava solamente riposando?

    Ingenuamente, Commodo accarezzò il volto di Tito.

    Lo sentì gelido, come una lastra di marmo.

    Ma l’estate era quasi alle porte!

    Come faceva ad essere così freddo?

    In quel momento sentì di avere addosso uno sguardo: voltandosi, si specchiò negli occhi di suo padre.

    Marco Aurelio non gli disse nulla. Rimase immobile a fissarlo con un’aria dispiaciuta e forse anche stanca, quasi fosse stato conscio che provare a spiegargli l’accaduto sarebbe stato del tutto vano.

    La stessa percezione, Commodo l’ebbe osservando le sorelle che subito si voltarono altrove per non stabilire un contatto visivo.

    Lo stavano evitando.

    Ma perché?

    Forse c’era qualcosa di pericoloso, lì tra loro, che non volevano rivelargli? Lo stavano proteggendo, allora?

    L’incapacità di darsi una spiegazione lo irritò incredibilmente, portandolo a stringere i piccoli pugni senza saper bene che altro fare. L’avevano voluto lì con tutte le loro forze per poi lasciarlo da solo a cercare di capire il motivo di tanto dolore.

    Forse, se Tito si fosse svegliato avrebbero potuto provare a scoprire insieme quel mistero.

    Istintivamente, la scena di cui faceva parte gli parve misera.

    I pianti sommessi che rompevano il silenzio gli ricordarono le suppliche che i poveri e gli appestati levavano al cielo quando camminava per le strade di Roma.

    Era inconcepibile che ciò accadesse nella sua famiglia, la più nobile e potente di tutto l’impero. Almeno, così gli avevano detto.

    Si voltò nuovamente verso Tito.

    Dormiva ancora.

    Anche lui lo stava lasciando da solo, a combattere con quei dubbi.

    Stanco di pensare a vuoto, Commodo sedette per terra incrociando le gambe e perdendosi a fissare il pavimento in marmo.

    Era freddo. Proprio come la pelle di Tito.

    Rivolse un ultimo, deluso sguardo alla propria famiglia.

    Nessuno parlava. Ciascuno di loro era immerso in una realtà a sé, fatta di tristezza e lamenti soffocati.

    E quella scena fece crescere in lui la convinzione che la famiglia imperiale vivesse in realtà un’esistenza davvero miserabile.

    IV

    Domande

    Roma, Febbraio 166 d.C.

    «Non intendi proprio ascoltarmi, oggi».

    La voce profonda e stizzita del precettore ebbe l’effetto di risvegliare Commodo, che si voltò stranito verso di lui come se avesse dormito per tutto il tempo. In realtà, la sua mente non aveva fatto altro che vagare durante la lezione.

    Oltre la finestra era la primavera che si preparava a sbocciare.

    Gli alberi erano ancora in gran parte spogli, ma già i canti degli uccelli riempivano l’aria, portati alle sue orecchie da un vento freddo ma non paralizzante come nei mesi precedenti.

    Gli piaceva il sole d’inverno: rendeva più accettabili le basse temperature e aveva il potere di risvegliare le persone, rendendole nuovamente attive e sorridenti.

    Si era perso così a pensare a tutto quello che avrebbe potuto fare in una giornata così bella. Il modo migliore per dimenticare il fatto che invece avrebbe passato l’ennesima mattinata a studiare, anziché spendere le sue energie nel modo che lui riteneva più proficuo. Agendo, muovendosi. Vivendo appieno.

    Le folte sopracciglia bianche del maestro resero la sua espressione ancora più severa.

    Non sapendo come giustificarsi, Commodo chinò il capo.

    «Chiedo scusa».

    «Scusarsi non è sufficiente. Quelle che mi stai dicendo non sono che parole, figliolo. È importante invece prendere coscienza di ciò che si dice, e darne prova con i fatti».

    Non gli piaceva quell’uomo. Si beava troppo della sua abilità oratoria, e lo sommergeva di termini che non comprendeva.

    E sì che faceva del suo meglio per stargli appresso!

    Era forse colpa sua se sentiva il bisogno di essere impegnato in attività diverse? Peccava forse di superbia a pensare che lo studio non facesse per lui, e che fosse meglio darsi ad atti pratici?

    La sola cosa che lo affascinava era l’arte, e per fortuna Roma ne era piena. Ma se sprecava le giornate in inutili esercizi di memoria, che tempo avrebbe mai avuto per contemplare le meraviglie che rendevano l’Urbe il centro del mondo?

    «Sono un po’ distratto oggi» ammise cercando un tono accomodante per evitare altri rimproveri.

    «Lo vedo bene. E lascia che ti dica una cosa, Lucio».

    Commodo strinse le labbra.

    Odiava essere chiamato Lucio.

    «Ciò che stanno facendo i tuoi genitori è prepararti al futuro, perché grandi responsabilità ti saranno date. Dovresti dimostrare la tua gratitudine verso di loro concentrandoti sullo studio, perché è grazie ad esso se un domani comprenderai il mondo. I futili svaghi degli altri ragazzi non possono confarsi a chi, come te, è nato nella porpora».

    Quell’accenno al fatto di essere figlio dell’imperatore infastidì Commodo meno del solito. Il più delle volte aveva reagito male a simili affermazioni, cercando di ribadire ciò che sentiva dentro di sé. Ovvero il fatto di essere solamente un bambino.

    Ma quella volta, forse incuriosito, decise di affrontare l’argomento.

    «E cosa saprò fare se continuerò ad applicarmi?»

    «Ti sei mai chiesto perché il nostro impero è in pace ed è prospero?» gli chiese di rimando il precettore, alzandosi.

    Colto di sorpresa, fece spallucce.

    «Tuo padre, l’augusto Marco Aurelio, è un uomo che ha a lungo studiato e che si è sempre interessato delle discipline più svariate. Questo l’ha reso l’eccellente imperatore che è oggi. Infatti, egli è capace di comandare delle truppe e ideare strategie militari, ma anche di ragionare da politico. Inoltre il suo buon senso, che fu anche dote del suo defunto padre Antonino Pio, gli ha dato modo di poter esercitare il potere in ambito civile con moderazione ed estrema efficacia. E tutto questo grazie agli anni spesi a studiare. Capirai dunque che hai un esempio molto vicino a te al quale guardare».

    Immaginarsi come suo padre mise Commodo a disagio. Tutti avevano sempre magnificato le sue gesta più di quelle dell’altro reggente Lucio Vero, che Antonino aveva scelto per affiancargli nell’esercizio del potere. Eppure lui nell’intimità della loro dimora aveva sempre visto un uomo apparentemente triste, quasi limitato dalla porpora che vestiva. Raramente aveva scorto un sorriso sul suo volto provato dalla fatica, e non era certo che ciò fosse solo a causa delle morti – ora lo sapeva – di numerosi tra i figli che aveva avuto prima di lui.

    C’era un qualcosa in Marco Aurelio che gli faceva credere che questi fosse fortemente insoddisfatto in quelle vesti, anche se tutto l’impero lo adorava e la realtà complimentava il suo buon governo.

    Ma il popolo conosceva l’imperatore, non suo padre.

    Solo lui aveva potuto vedere certe cose.

    Le parole uscirono dalla sua bocca senza che lo volesse.

    «Ma se l’augusto è un reggente così impeccabile e degno di lode, allora perché è così triste? Può sentirsi avvilito chi tiene il mondo nel proprio palmo?»

    Quella domanda improvvisa lasciò di sasso il precettore, che si voltò di scatto verso di lui con la bocca socchiusa.

    Commodo lo guardò confuso.

    Sapeva di aver detto troppo, ma non era certo di cosa in particolare. D’altronde, quell’uomo aveva il compito di educarlo.

    Rispondergli non sarebbe dovuto essere complicato.

    Ma il vecchio tacque.

    Commodo si rese conto di averlo messo in una posizione spiacevole, in cui qualsiasi cosa avesse detto gli si sarebbe potuta ritorcere contro. Ma capì anche dell’altro.

    Dalla reazione che aveva suscitato il suo quesito, realizzò di aver compreso già molte cose su suo padre.

    V

    Segno celeste

    Roma, 12 Ottobre 166 d.C.

    Marco Aurelio rimase in silenzio a guardare come si comportavano Commodo e Marco Annio Vero davanti alla folla festante che li acclamava.

    Erano palesemente spaesati.

    Rimanendo l’uno vicino all’altro si guardavano attorno in cerca di risposte, con gli occhi spalancati per cogliere ogni singolo dettaglio di quella giornata uggiosa ma che segnava la loro ascesa.

    Perché quella non era solo la celebrazione del trionfo di Lucio Vero, finalmente tornato dalla lunga campagna contro i Parti.

    Quel giorno i suoi figli venivano ufficialmente elevati al rango di Cesare, e pertanto entravano a tutti gli effetti nella linea di successione. Quando lui sarebbe morto, il potere sarebbe automaticamente passato a loro.

    Provò a reprimere la delusione.

    Sapeva bene che ciò non era quel che Antonino Pio avrebbe voluto. Egli era stato un fermo sostenitore dell’elezione per merito e non per eredità, un sistema che poteva facilmente portare degli incapaci o peggio ancora dei folli alla porpora.

    Era già successo diverse volte, sempre con risultati disastrosi.

    Proprio per evitarlo si era deciso di vertere sull’adozione a posteriori della persona ritenuta più degna da parte dell’imperatore in carica. Ma nonostante questo, Marco Aurelio non aveva avuto la pazienza di attendere che qualcuno di così speciale facesse la propria comparsa.

    Sentendosi roso dal dubbio sulla bontà di quel che aveva fatto, si voltò verso Faustina in cerca della sua approvazione.

    E la trovò.

    Circondata dalle sue amate figlie, la moglie mosse timidamente il capo in sua direzione, guardandolo con tenerezza.

    Lei sapeva perché alla fine si era deciso a fare una scelta del genere, andando persino contro al proprio buon senso.

    Quello era il risultato dei drammi che avevano vissuto assieme, delle morti che ancora non riuscivano a superare e che solo per bontà divina non avevano distrutto la loro famiglia.

    Nessun genitore poteva rimanere lo stesso dopo aver seppellito un figlio. Figurarsi dopo averne persi diversi, non ultimo il povero Tito. Marco Aurelio chiuse gli occhi, ripensando ai volti di quei bambini innocenti ai quali era stata tolta persino la possibilità di vivere un’infanzia felice.

    Lui e Faustina avevano discusso a lungo al riguardo.

    Tenendosi le mani e affogando la tristezza in lunghi pianti avevano ringraziato gli Dei per la loro prole superstite, pregando perché chi era rimasto con loro potesse continuare a vivere.

    E proprio il fatto che Commodo e Marco Annio Vero stessero crescendo sotto i loro occhi aveva convinto l’imperatore che, a fronte di tutte le morti patite, quello fosse un cenno divino.

    Doveva esserci un motivo se loro erano sopravvissuti, mentre gli altri piccoli li avevano lasciati.

    Dapprima aveva scacciato quell’idea, vergognandosene.

    Era un uomo d’intelletto, e il popolo aveva esattamente quell’idea di lui. L’imperatore filosofo, il solo capace di governare con la ragione e la razionalità ancor prima che con la forza.

    Si era sentito debole nel cedere a simili persuasioni.

    Ma col tempo, ammirando in silenzio il fiorire di quei due bambini vivaci e meravigliosi, non aveva potuto far altro che arrendersi.

    Sì, un grande destino li attendeva.

    Le sciagure che avevano flagellato il loro focolare non avevano avuto alcun effetto sui suoi eredi maschi, e ciò non poteva essere una coincidenza.

    Gli Dei erano con loro, e stavano cercando di far capire a lui che era giunto il tempo che prendessero coscienza del motivo per il quale erano venuti al mondo.

    Succedergli, e dividere il potere così come lui stava facendo con Lucio Vero. L’altro augusto non aveva minimamente obiettato sulla cosa. Conoscendo i dolori di Marco e Faustina, si era limitato ad acconsentire blandamente, forse più concentrato sul bagno di folla che l’avrebbe riaccolto una volta tornato nell’Urbe.

    Così era dunque stato.

    Commodo e il fratello minore, con quell’elezione, diventavano a tutti gli effetti membri di quella che era ora una dinastia.

    La dinastia di Marco Aurelio.

    Mentre il popolo gridava i loro nomi, ricoprendo i bambini di benedizioni e lodandone le doti, Marco fece alcuni passi indietro quasi a voler lasciare loro tutto quell’affetto perché ne godessero.

    Aveva altro a cui pensare.

    La sua scelta si sarebbe rivelata giusta?

    Non era stata forse la debolezza a dettare quel suo gesto?

    A lungo aveva riflettuto e analizzato il modo in cui il pensiero umano veniva plasmato dalle credenze e dal peso degli affetti.

    Si era sforzato di raggiungere, anche per il ruolo che ricopriva, uno stato mentale di assoluta superiorità e distacco verso ogni cosa attorno a sé. Ma era stata tutta un’illusione.

    E ciò che aveva fatto, dando un’immane responsabilità a quei due piccoli innocenti, ne era la prova.

    Il dolore l’aveva traviato e segnato per sempre.

    Non era possibile, neanche per il più intelligente degli uomini, sfuggire alla propria parte irrazionale e rinnegare le paure che albergavano in essa.

    Una su tutte.

    La paura di sopravvivere a tutti i propri figli senza vederli splendere, per poi morire completamente solo.

    VI

    Fantasie

    Roma, 12 Ottobre 166 d.C.

    Suo fratello era estasiato. Continuava a voltarsi, ora da una parte, ora dall’altra salutando con la mano le migliaia di persone radunatesi sotto di loro per salutarli

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