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Calocaerus. L'augusto dei Ciprioti
Calocaerus. L'augusto dei Ciprioti
Calocaerus. L'augusto dei Ciprioti
E-book455 pagine5 ore

Calocaerus. L'augusto dei Ciprioti

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Info su questo ebook

330 d.C. - In una Cipro che assiste ai primi cambiamenti portati dall'ascesa di Costantino  
il giovane Calocaerus, figlio di un veterano mutilato e avverso a Roma, sceglie di entrare nell'esercito
per sfuggire alla miseria. La sua decisione gli costerà il ripudio della famiglia, e quando il suo benefattore
Crispo, figlio dell'augusto, morirà a causa di una delazione, Calocaerus prenderà coscienza del proprio errore.
Prostrato dai soprusi del dux Giulio Costanzo e auspicando un ritorno al passato, egli cercherà la libertà
fuggendo sulle vette del Monte Olimpo. Lì, compirà un'inaspettata trasformazione.
Da semplice disertore, complice anche l'introduzione a un antico culto, diverrà la guida di una storica
ribellione. Accarezzando così il sogno di restaurare la cultura Ellenica in luogo della supremazia Romana.
LinguaItaliano
Data di uscita17 gen 2021
ISBN9791220251037
Calocaerus. L'augusto dei Ciprioti

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    Anteprima del libro

    Calocaerus. L'augusto dei Ciprioti - Patrizio Corda

    Corda

    CALOCAERUS

    L’AUGUSTO DEI CIPRIOTI

    Patrizio Corda

    A mia madre

    I

    La promessa di Diocleziano

    Mesopotamia Orientale, Novembre 299 d.C.

    Galerio, finalmente, si era allontanato per ritirarsi nel proprio carro. La sua assenza ebbe l’effetto di sollevare il morale di quasi tutti i soldati, e le fatiche di quella marcia per lande aride e desolate sembrarono immediatamente affievolirsi. La leggerezza di quel momento fu talmente densa e coinvolgente da spingere il giovane Costantino a scendere da cavallo, per proseguire a piedi e mischiarsi ai propri sottoposti.

    Per quanto si sentisse orgoglioso del titolo di tribuno recentemente ottenuto, non era ancora il momento di mostrare eccessiva alterigia. La sua ferrea determinazione, che traspariva anche dai tratti decisi e pronunciati del viso, era talvolta smorzata da una sporadica umiltà. Riavviandosi i capelli scuri e più lunghi del solito, decise di ascoltare quella parte di sé e mescolarsi agli uomini duri, segnati da anni di battaglie, con i quali aveva trascorso gli ultimi mesi.

    La sua sagoma imponente si fece largo tra le fila dei legionari, suscitando un rispetto inusuale per un giovane uomo di appena venticinque anni. Guardandosi attorno con i grandi occhi fiammeggianti, fece in modo di rendere nota la propria presenza.

    Sentì presto di essere a sua volta osservato, finché quella sensazione divenne talmente impellente da obbligarlo a voltarsi nella direzione da cui proveniva quella forza oscura.

    Trovò al suo fianco la sagoma, esile e curva per il peso del proprio bagaglio, dell’uomo che gli era stato assegnato come attendente.

    Aggrottando la fronte, Costantino cercò di ricordarne il nome.

    Indugiò sul suo volto seccato dal sole freddo dell’autunno Mesopotamico, nel quale campeggiavano due occhi giganteschi e sporgenti. Il poveretto era quasi piegato in due dal gravoso fardello, con i capelli scarmigliati e appiccicati alla fronte ampia.

    Malgrado si reggesse a fatica sulle gambe scheletriche, egli l’aveva raggiunto immediatamente imponendosi uno sforzo ancora maggiore. Si guardarono intensamente per qualche istante.

    Costantino rimuginò, mentre provava a rammentare come si chiamasse. Come chi tenta di risalire un pendio roccioso a mani nude, s’inerpicò verso l’ignoto affidandosi a sillabe, inflessioni, qualsiasi suono che potesse risultargli familiare.

    La risposta ai suoi quesiti giunse improvvisa, quasi da sé, con un tono a metà tra l’ovvietà e approssimazione.

    «…tutto bene, Dimitrios?»

    L’attendente sfoggiò un ampio sorriso, inasprito dalla dentatura perfetta ma ingiallita come le pagine d’un libro dimenticato.

    Annuendo, lo affiancò e proseguirono assieme per diversi minuti, senza parlare. Il silenzio, rotto solo dagli echi dei passi perfettamente coordinati, rendeva ancora più nitida la persuasione di essere bloccati in una dimensione indefinita, dove spazio e tempo si erano dissolti. Il paesaggio, infatti, era sempre lo stesso.

    Altipiani privi di vegetazione sorgevano all’orizzonte, ora alla destra, ora alla sinistra. Era tutt’al più possibile imbattersi in qualche arbusto rinsecchito, le cui radici si rifiutavano di separarsi dal suolo. Refoli di vento tiepido battevano la piana orfana di un percorso tracciato, sollevando una sabbia che faceva bruciare gli occhi. Quelle scene si erano protratte per giorni, dopo l’ultima e insoddisfacente schermaglia. Sembrava quasi che quella guerra contro i Sasanidi, che l’impero stava stravincendo, fosse destinata a un epilogo in tono minore.

    Non di certo l’impresa alla quale tutti sognavano di associare il proprio nome. Ma Costantino, rinfrancato dal periodo trascorso assieme all’augusto Diocleziano, si confortò.

    La pazienza, sul piano collettivo ma anche personale, era una virtù il cui valore non doveva mai essere dimenticato.

    Vi sarebbero state altre occasioni per celebrare degnamente.

    Nelle sue orecchie rimbombarono i saluti dei legionari, alcuni addirittura gridati. Ad attirare la sua attenzione, però, fu il fatto di non essere il destinatario di quelle manifestazioni d’affetto.

    Tutti si rivolgevano a Dimitrios, con espressioni gioviali e intrise di quell’affetto cameratesco che era normale si generasse in un gruppo di valorosi a strettissimo contatto da mesi.

    Adagiando una mano sul suo dorso stracarico, gli intimò di fermarsi. Dimitrios lo guardò quasi spaventato.

    «Possano gli Dei darti un erede maschio!» abbaiò sguaiato l’ennesimo soldato, per poi sorpassarli di buona lena.

    Senza aver neppure parlato, Costantino capì il motivo di tanta positività attorno a quell’uomo insignificante.

    «…dunque sarai padre, amico mio?» gli chiese finalmente, con il timbro impostato che aveva imparato a far suo.

    «Sì, tribuno» rispose Dimitrios schermendosi. «Ho ricevuto la missiva dalla mia adorata moglie Danae proprio ieri. Nel suo ventre, è la vita che nascendo ci renderà una famiglia».

    «Sono felice per te».

    In realtà, Costantino non aveva provato la minima commozione.

    Era però necessario mostrarsi vicino agli uomini, disposto condividere la loro quotidianità, persino essere di supporto per loro e aiutarli a rimanere saldi nella mente e nello spirito.

    Giovane com’era, doveva fare tutto il possibile per conquistare la loro fiducia e stima, così da garantirsi una lunga carriera.

    D’altronde, persino Giulio Cesare aveva fatto lo stesso, e non a caso i suoi soldati erano stati pronti a morire per lui anche nelle situazioni più disperate.

    «Hai idea di quando tua moglie darà alla luce il nascituro?»

    Dimitrios incassò la testa tra le spalle, guardando a terra e continuando a sorridere.

    «Non saprei, tribuno. Pare sia questione di settimane. Quel che è certo, però, è che non appena avrò la buona novella mi recherò immediatamente nella mia terra natale. L’isola di Cipro».

    Sulle prime, Costantino non si curò troppo di quanto aveva udito.

    Poi, però, colse il vero significato di quelle parole.

    Per quanto dedito fosse, in quel momento, a servirlo, Dimitrios avrebbe presto cambiato priorità, scordandosi del proprio ruolo e interessandosi unicamente alla famiglia.

    Un’attitudine che non era ammissibile nell’esercito, almeno secondo le sue convinzioni.

    Se bastava una gravidanza a far perdere la concentrazione a un legionario, come avrebbero potuto pensare di tener testa al nemico?

    Convinto com’era che nulla potesse essere più importante dell’impero, Costantino arrivò addirittura a infastidirsi.

    Da penoso e degno di compassione, Dimitrios gli parve improvvisamente un ingrato. Non realizzava forse l’onore che gli era stato conferito, potendo servire Roma Immortale?

    Fu immediatamente tentato di redarguirlo. Ma un semplice rimprovero avrebbe avuto un effetto effimero, e l’attendente se ne sarebbe scordato già il mattino seguente.

    Col pensiero, ritornò al suo soggiorno presso Diocleziano, e a ciò che questi gli aveva detto. Ancor prima che la disponibilità, era necessario far propria un’altra dote per essere un eccellente generale. Saper tenere in pugno gli uomini, mentalmente ancor prima che fisicamente. Cosa tutt’altro che facile.

    Espirando dal naso pronunciato, Costantino si fermò.

    Poi guardò Dimitrios negli occhi, con rinnovata severità.

    E mise in pratica quel prezioso insegnamento.

    « …sempre che la campagna termini » disse laconico.

    Dimitrios lo guardò attonito, poi sconsolato, infine con palese colpevolezza. Temendo di essersi mostrato poco ligio al dovere, tacque e iniziò a tormentarsi davanti alla prospettiva di non poter fare ritorno a casa per molto tempo ancora.

    Quella reazione confermò a Costantino che da lì in poi, egli sarebbe penduto dalle sue labbra. Ma soprattutto, gioì immensamente per aver provato a sé stesso di saper già manovrare i suoi sottoposti.

    Diocleziano ne sarebbe stato entusiasta.

    E come egli gli aveva detto prima che partisse per l’Oriente, se fosse riuscito a padroneggiare il proprio talento innato per il comando, il suo futuro sarebbe stato costellato di trionfi e onori.

    Esattamente ciò che Costantino desiderava per sé.

    Più di ogni altra cosa.

    II

    Aldilà del mare

    Larnaca, Dicembre 299 d.C.

    Quando il tremore che la scuoteva da capo a piedi da diverse ore si fu affievolito, Danae tese le braccia verso la nutrice con sguardo implorante. La vecchia donna, che aveva assistito a quella scena migliaia di volte nella sua vita, annuì e con un sorriso comprensivo andò a prendere il piccolo, che era piombato in un sonno profondo poco dopo esser venuto al mondo.

    Respirando a fatica, per la stanchezza ma anche per la commozione, la giovane donna strinse a sé quel fagotto tiepido, minuscolo eppure animato da un’energia immensa.

    Quella di una vita appena sbocciata.

    Tra le lacrime, cercò di guardarlo meglio.

    Il volto era rotondo e pasciuto, di una pelle rosea che qua e là ancora avvampava. Sul capo era già possibile scorgere qualche capello corvino, dello stesso colore dei suoi.

    Il bambino ignorava di essere tra le braccia della madre, pacificamente immerso in quel meritato riposo.

    A Danae venne quasi da invidiarlo.

    La prima infanzia era infatti, per lei, il periodo più dolce e fortunato dell’esistenza, in cui era impossibile essere ghermiti dalla malvagità umana, né si aveva sufficiente coscienza per realizzare quanto di orribile e sbagliato vi fosse al mondo.

    Guerre, omicidi, complotti, bramosia di potere e ricchezze: niente di tutto questo era visibile agli occhi innocenti di un bambino, e così sarebbe stato per diversi anni ancora.

    Con un gemito, richiamò ancora la nutrice, per poi rendersi conto di non riuscire a formare una frase di senso compiuto.

    Era troppa l’emozione, nonché la stanchezza che gravava sempre più sul suo corpo che andava svuotandosi di ogni vigore, quasi fosse sul punto di svanire nell’etere.

    Fu a malapena in grado di mimare il gesto della scrittura, e alla donna ciò fu sufficiente per capire cosa le fosse stato chiesto.

    «Sì, figliola. La lettera è già stata scritta, e presto partirà per raggiungere il tuo sposo. Ovunque egli sia».

    Sollevata da quella rassicurazione, Danae lasciò andare la testa sul cuscino sbrindellato, immagazzinando quanta più aria possibile nei suoi polmoni sfiancati dallo sforzo precedente.

    In quella missiva, non era solo l’annuncio di un parto avvenuto senza particolari complicazioni, ma anche il sesso del nascituro.

    Un maschio, come Dimitrios s’era augurato prima di partire per servire l’impero, lasciandola sola ad affrontare il travaglio.

    Rispettando la sua volontà, lei aveva deciso di chiamarlo come già avevano concordato. Calocaerus.

    A prima vista, il piccolo era sano come un pesce, anche se non era dato sapere a chi assomigliasse maggiormente.

    Tutto ciò che Danae sperava, era che quella maledetta guerra contro i Sasanidi finisse quanto prima, cosicché il marito potesse tornare a Cipro e aiutarla a reggere quella famiglia.

    La speranza di entrambi, era che Dimitrios ritornasse a Cipro non solo vivo e vegeto, ma anche gratificato da un compenso proporzionato al sacrificio richiestogli.

    Solo con quella piccola, grande fortuna sarebbero riusciti a condurre un’esistenza degna di tale nome, scampando alla lacerante povertà che aveva contraddistinto le loro esistenze.

    Figli di umilissimi contadini, con un misero fazzoletto di terra come unico possedimento, s’erano ripromessi di investire quel denaro in un terreno più ampio, dove stabilirsi e vivere di ciò che la natura avrebbe offerto loro.

    In quel modo, Calocaerus sarebbe cresciuto serenamente, conducendo una vita sana e lontana dagli stenti che loro, invece, avevano dovuto conoscere.

    Sentendo che le forze la stavano abbandonando, Danae emise un altro verso, questa volta più simile a un rantolo. Allarmata, la nutrice si avviò caracollante verso di lei, ma fu subito rassicurata dal sorriso della giovane.

    Intuendo cosa stesse per accadere, prese il neonato dalle sue braccia e lo depose nuovamente dove aveva riposato prima.

    Poi, con uno slancio di affetto materno, accarezzò quel volto pallido e ancora imperlato di sudore.

    «Speriamo…che lui riceva la lettera. E che torni…il prima possibile» mormorò Danae, socchiudendo gli occhi.

    «Non dubitare. Sarà qui prima che te ne renda conto. E adesso riposa: il tuo corpo ha bisogno di un poco di sollievo».

    Quasi soggiacendo a quell’ordine enunciato dolcemente, Danae scivolò tra le tenebre.

    Non prima, però, di aver rivolto un’ultima preghiera agli Dei.

    Affinché quella fosse l’ultima campagna della breve carriera del compagno, così da poter iniziare una nuova vita insieme.

    Dedicandosi unicamente a proteggere la nuova vita che li avrebbe legati sino ai loro ultimi giorni.

    III

    I sovrani del domani

    Nisibi, Dicembre 299 d.C.

    Avrebbe dovuto festeggiare quel successo straordinario, se non con l’entusiasmo altrui, perlomeno partecipando alle celebrazioni che avevano coinvolto l’intero esercito.

    Diocleziano riconobbe che quella sarebbe stata la cosa più giusta da fare, mentre portava nuovamente la bocca alla coppa di vino quasi vuota. Ne osservò il fondo con indifferenza, forse anche disillusione. Poi si guardò attorno, posando gli occhi sulle pareti disadorne di quelle stanze riservate alla sua persona.

    Era solo. Completamente solo, mentre gli echi dei cori e delle ovazioni penetravano le mura che lo isolavano.

    D’altronde, egli stesso aveva richiesto che fosse così.

    E non tanto a causa della sua personalità, schiva di natura e inasprita negli anni dal pragmatismo richiesto dal ruolo di augusto. La vera ragione di quella sua astensione era un’altra.

    Era stanco, terribilmente stanco.

    Dopo una lunghissima campagna, costellata di episodi bellici ma anche di diverse, estenuanti pause, l’impero era finalmente riuscito a piegare la resistenza Sasanide.

    Proprio in quella città, a Nisibi, il re di Persia Narsete aveva abbandonato qualsiasi proposito di resistenza, accettando di firmare una pace che sapeva, in realtà, di sconfitta.

    Le trattative per arrivare a quel risultato erano state quasi più estenuanti dei viaggi e dei combattimenti, anche se mai Diocleziano aveva dubitato della buona riuscita del progetto.

    Quell’accordo prometteva di essere rispettato per diversi anni, almeno fino a che i Sasanidi avrebbero conservato la cocente memoria delle disfatte patite per mano Romana.

    Eppure, la stanchezza era riuscita a prevalere anche sull’immensa soddisfazione per quanto ottenuto.

    Nessuno, si disse, poteva comprendere le sue ragioni.

    Solo lui aveva una chiara percezione di quanto avesse dovuto fare, per riportare l’impero ad avere una parvenza di stabilità.

    Aveva dovuto combattere strenuamente, da solo, e poi assumersi il rischio di cambiare i connotati della realtà che aveva conosciuto, convincendo il mondo Romano ad accettare una nuova struttura politica. Quella tetrarchia che era la sua invenzione più grande, basata su una ripartizione dei poteri che ai suoi occhi era parsa l’unica soluzione per reggere un impero tanto vasto.

    Si trattava però di una forma di governo che andava continuamente assistita e controllata, proprio come un figlio che muove i primi, incerti passi nel mondo.

    I due augusti avevano il compito di essere un supporto per i due Cesari, affinché al momento dell’abdicazione costoro potessero ricoprire degnamente il loro nuovo ruolo.

    Anche questo, Diocleziano aveva provveduto a delineare con largo anticipo. Lui, assieme a Massimiano, dovevano gettare le basi per i futuri regni augustei di Costanzo Cloro e Galerio.

    Entrambi parevano pronti, anche e soprattutto dopo il trionfo contro i Sasanidi, in cui proprio Galerio aveva dato prova di maturità ed equilibrio.

    Cosa che aveva portato Diocleziano a riconsiderare, appunto, la prospettiva di un ritiro imminente.

    Non amava l’Oriente. In quell’aria afosa al mattino, e di un’umidità pungente alla sera, sembrava fluttuare un qualcosa di pericoloso, come la fragranza di una donna affascinante ma ambiziosa.

    Temeva la mollezza di quelle genti, e l’influenza che costoro avrebbero potuto esercitare sui suoi più fidati collaboratori.

    Sin dagli albori della campagna, aveva fatto il possibile per ricordare a tutti le insidie di quelle terre, che avevano corrotto persino un grande come Alessandro Magno, fiaccandone la rettitudine e il giudizio.

    Fosse stato per lui, avrebbe coordinato il tutto dalla sua residenza a Spalato, luogo a lui caro, e nel quale sperava di tornare quanto prima. Ma le distanze non l’avevano reso possibile.

    A cinquantacinque anni, era ancora un uomo vigoroso, il cui corpo sembrava addirittura capace di sostenerlo nell’esercizio fisico.

    Era la mente ad essere logorata, pervasa da una nebbia latrice di crescente disinteresse verso ciò che aveva creato dal nulla.

    Il caos che aveva stravolto l’impero, prima della sua elevazione, non era più. Il futuro sembrava roseo, in mano ai Cesari scelti da lui e Massimiano. Perché, allora, insistere nel tenere per mano quel figlio già cresciuto e stabile sulle sue gambe?

    Il rischio era quello, con la vecchiaia, di divenire testardo e suscettibile, cedendo alle lusinghe dell’ego e rifiutandosi di cedere il passo pur di venire ancora accreditato come unico fautore di quel sistema tanto efficiente.

    Scuotendo il capo, si disse che era quello il momento di fare un passo indietro. Altrimenti, avrebbe potuto rovinare tutto.

    Costanzo Cloro e Galerio meritavano totale fiducia, ben più di quanta ne avessero ricevuta negli anni precedenti.

    Nei loro animi, Diocleziano non scorgeva alcuna brama, se non quella di rendere ulteriore gloria all’impero.

    Il solo augurio era che questi, una volta augusti, designassero dei successori altrettanto virtuosi.

    Si ripromise di non mettere bocca in quelle questioni, una volta ritiratosi. Ma pensò ciò con una nota di colpevolezza, conscio di averlo, in fondo, già fatto.

    Perché aveva già ricordato a Costanzo Cloro quanto valido fosse il figlio, per poi volerlo addirittura con sé prima della campagna Sasanide. Spinto da una strana attrazione, Diocleziano si era voluto assicurare che quel giovane acquisisse consapevolezza delle proprie doti. Le stesse che lui, in gioventù, aveva coltivato.

    Avrebbe lasciato il resto al tempo, e alla volontà divina.

    Se Costantino era destinato a regnare, tuttavia, lui ne sarebbe stato immensamente felice.

    In quel ragazzo, Diocleziano rivedeva sempre di più sé stesso.

    Ma anche l’avvenire di un impero che desiderava vivesse il più a lungo possibile. Affinché gli sforzi di una vita intera, la sua, non fossero crudelmente vanificati.

    IV

    Virtù perniciosa

    Antiochia, Gennaio 300 d.C.

    Dimitrios continuò ad aggirarsi per le tende che tempestavano l’accampamento fuori dalla città, cercando di rimettere una parvenza di ordine nei suoi pensieri. Troppo difficile, tuttavia, mantenere la tranquillità dopo i fatti sconvolgenti dei giorni precedenti. Dopo il trionfo sui Sasanidi, conclusosi con una fruttuosa pace per l’impero, erano stati indetti dei sacrifici come ringraziamento agli Dei per la loro benevolenza. Ciò che era successo, però, aveva gettato un’ombra su quell’impresa.

    Una volta sacrificate le bestie, infatti, gli aruspici non erano riusciti a decifrarne le viscere. Sotto gli sguardi attoniti di Diocleziano, Galerio e tutti i soldati, avevano accusato i Cristiani facenti parte dell’esercito e della corte di aver interferito tramite l’osservanza del loro culto, indispettendo gli Dei. Sconvolti, gli augusti avevano ordinato un sacrificio purificatorio collettivo, sancendo dei controlli al fine di stanare i profani.

    In molti erano stati scoperti a pregare nelle loro tende, e in ragione di ciò espulsi senza possibilità di appello.

    Quella rappresaglia aveva creato un’atmosfera carica di tensione e sospetto, anche tra coloro i quali si erano voluti bene come fratelli sino a poco prima. Già circolavano voci, tra i soldati, che imputavano alcuni di essere delatori al soldo dei generali, pagati per rivelare chi si fosse macchiato di quel crimine.

    Da parte sua, Dimitrios non avrebbe dovuto temere nulla.

    Non era infatti dedito a quelle pratiche oscure, che ignorava e alle quali non era interessato. Ciò nonostante, le ultime notti aveva faticato a prendere sonno, temendo di essere ingiustamente accusato e perdendo così qualsiasi somma gli fosse dovuta per i servizi prestati.

    Non avrebbe potuto sopportare una simile umiliazione, soprattutto sapendo di dover tornare in Cipro ricoperto di disonore e senza il denaro sufficiente a supportare la propria famiglia. Sospirando di preoccupazione, chinò dunque il capo isolandosi dal baccano che rendeva tanto piacevole e vitale ogni giornata tra i commilitoni.

    Scostando appena i lembi di tessuto che costituivano l’ingresso della sua tenda, cercò nell’oscurità una flebile fiammella che gli indicasse la strada verso il proprio giaciglio. Rimase pietrificato quando scorse, in un angolo, la sagoma di uno dei suoi compagni mentre era intento a pregare in ginocchio.

    A bocca aperta, si domandò come avesse fatto a non accorgersene per tutto quel tempo. La sola ragione plausibile poteva essere il fatto che, prestando servizio in turni differenti, non avevano mai condiviso quello spazio per molto tempo.

    Riscuotendosi, si avventò su di lui e lo afferrò per le spalle.

    La croce di legno che questi stringeva tra le mani si agitò nella penombra, terrorizzandolo più quanto avrebbe dovuto.

    «Maledizione, Decimo!» lo rimproverò sottovoce. «Cosa ti passa in mente? Vuoi farti cacciare?»

    Questi si voltò verso di lui, per niente preoccupato. Al contrario, lo guardò come se avesse perso il senno. Scrollò appena le spalle.

    «Dimitrios, non posso sottrarmi…» si giustificò.

    «Ti rendi conto del rischio che corri? E che fai correre anche a me?» insistette lui sgranando gli occhi.

    Vide anche un baule aperto, con una quantità di cimeli analoghi.

    Lo chiuse rifilandogli un gran calcio, per poi concentrarsi su quel manufatto sacrilego. Iniziò dunque una battaglia nel silenzio, in cui echeggiarono grugniti e imprecazioni, per la potestà della croce.

    Fino a che un fascio di luce non li illuminò completamente.

    «Cos’è questo fracasso?»

    Una pugnalata avrebbe avuto un effetto più modesto.

    Riconoscendo quella voce, Dimitrios si alzò di scatto e abbozzò un saluto militare. Questo, rendendosi conto di avere nella mano sinistra proprio l’oggetto della contesa.

    Decimo lo seguì a ruota, mentre la sagoma di Costantino, ancora più imponente del solito, abbandonava la luce esterna per introdursi in quella tenda sudicia.

    Il suo sguardo fece capire a Dimitrios che difficilmente il tribuno avrebbe ignorato la paura sui loro volti. Tremolante, tenne la croce dietro la schiena e la fece scivolare verso il compagno, che però si scostò muovendo un passo alla sua destra.

    Maledetto!

    Costantino, avanzando ancora, assottigliò gli occhi fino a che questi non sembrarono due fessure, come quelle di una fiera ormai certa di poter fare sua preda. Non si guardò attorno, ma bensì rimase concentrato su di loro.

    «C’è qualcosa che non va, Dimitrios?»

    «N-no, tribuno…assolutamente…perché mai?»

    «La tua posizione. È, come dire… anomala ».

    Se n’era accorto. Non c’era motivo, infatti, di tenere quel braccio piegato dietro alla schiena. Avrebbe dovuto tenerlo lungo il fianco.

    Una cosa era certa. Se Costantino avesse scelto di aprire quel dannato baule, sarebbe stata la fine.

    Dimitrios trattenne il fiato, fino a che il tribuno non fu a una spanna dal suo volto. Realizzò di essere a un passo dall’espulsione, e si vergognò di sé. Con suo immenso stupore, tuttavia, Costantino tese appena il collo per capire cosa tenesse in mano. Le tenebre, però, sembrarono allontanarlo dalla risposta che cercava.

    Dunque si ritrasse, per poi guardare verso l’uscita.

    «Sapete cosa sta succedendo. Quindi cercate di non deludere me, gli augusti, ma anche voi stessi e le vostre famiglie».

    Detto questo, si voltò in un battito di ciglia e uscì.

    Quando furono nuovamente soli, Dimitrios lanciò uno sguardo di fuoco a Decimo e lanciò la croce all’estremità della tenda.

    Poi uscì a sua volta, pregando di non incontrare il tribuno.

    Tormentato dalla prospettiva che questi avesse ugualmente intuito il tutto, si risolse ad affrontare la realtà. Il suo commilitone era un Cristiano, e la cosa si sarebbe potuta ripercuotere anche su di lui.

    Ciò nonostante, aveva cercato di proteggerlo.

    Una dote, quella bontà che tanto apprezzava in sé, che gli sarebbe potuta costare tutto. E che doveva abbandonare a tutti i costi.

    V

    La verità più amara

    Antiochia, Marzo 300 d.C.

    Non sapevi nulla?

    Nessuno te ne ha parlato?

    Sei il solo ad esserne all’oscuro!

    Parti, come tutti noi. A Tessalonica.

    Nella testa di Dimitrios continuarono a echeggiare quelle parole, con le voci di tutti i commilitoni che gli avevano dato quella notizia terribile, che per lui sapeva di condanna. Dopo la vittoria sui Sasanidi, aveva sperato davvero di poter ritornare a Cipro.

    Il solo pensiero di lambire nuovamente quelle coste dolci, accarezzate dal mare calmo, e di poter essere finalmente marito e padre l’aveva sorretto in quei giorni difficili e confusi.

    S’era persino scordato dello sfortunato episodio della croce, nel quale aveva rischiato grosso. E adesso, proprio quando sembrava prossimo all’agognato ritorno, ogni sua speranza veniva frustrata con una semplicità che sapeva di brutale cinismo.

    A Tessalonica. Con Costantino, a sua volta appresso a Galerio nel tentativo di difendere il sempre turbolento limes Danubiano.

    Non solo sarebbe dovuto partire, stando a quanto aveva udito, ma si sarebbe addirittura dovuto allontanare ancora di più di quanto non fosse già. Cipro sarebbe rimasta vicina solo nella sua mente, raggiungibile nel tempo di un sofferente respiro.

    Fu la goccia che fece traboccare il vaso, per lui.

    Fendendo l’accampamento come un toro, a testa bassa, Dimitrios strinse i pugni e chiamò a sé ogni energia residua, preparandosi a quanto avrebbe detto di lì a poco.

    Era un uomo semplice, sì, e di umili origini.

    Ma questo non doveva far sentire nessuno, per quanto potente fosse, in diritto di disporre della sua vita a quel modo.

    Neanche per dare nuova gloria a quell’impero gigantesco, che senz’altro non l’avrebbe lodato o ricordato per un tale sacrificio.

    Non aveva mai chiesto nulla di più di quanto non gli fosse dovuto, un giaciglio scomodo e un pasto caldo prima di dormire.

    Era stato ineccepibile nella condotta, ligio al dovere, sempre pronto ad assistere il generale di turno anche quando non aveva più dovuto seguire Costantino ovunque andasse.

    E nonostante questo, qualcuno aveva deciso di muoverlo da dov’era, come una pedina o una marionetta, o qualsiasi cosa non fosse in possesso di sentimenti o vita propria.

    Lui aveva una famiglia, una moglie e un figlio neonato ai quali provvedere. I termini dell’ingaggio, oltretutto, erano stati chiari.

    Dopo la campagna contro i Sassanidi, sarebbe potuto tornare a casa, non senza aver prima riscosso il compenso pattuito.

    Con quel denaro avrebbe dovuto comprare un terreno, costruire una casa, mettere il pane in tavola per gli anni a venire.

    E invece sarebbe dovuto andare altrove, là dove oltre al gelo avrebbe dovuto combattere popolazioni remote e feroci.

    Tutto in nome di Roma, quella capitale che aveva sempre guardato con scherno alla gente come la sua.

    Quel rimuginare lo rese furioso, e del tutto sordo ai richiami dei compagni che si sbracciavano per fermarlo.

    Puntò diritto verso la tenda della sola persona sufficientemente vicina a lui da potergli dare una spiegazione. L’alloggio del tribuno Costantino, il figlio del Cesare Costanzo Cloro.

    Si fermò a pochi passi dall’ingresso, prendendo improvvisamente coscienza delle proprie sensazioni.

    Il cuore gli tambureggiava nel petto, al pari delle tempie che pulsavano con una frenesia incontenibile. I capelli erano appiccicati ovunque, dal collo alla fronte, già imperlata di sudore.

    Tremava, ma non di paura.

    Di rabbia, una furia cieca che gli aveva fatto anche scordare di essere sul punto di sbraitare contro un suo superiore.

    Se si fosse voltato, tornando indietro, avrebbe perso qualsiasi rispetto verso di sé. Non avrebbe più trovato il coraggio di guardarsi allo specchio, sapendo di non aver lottato per il futuro suo e della propria famiglia.

    Dunque mosse il primo, fatidico passo verso la tenda di Costantino.

    Scostò lo spesso lembo di tessuto, e chinò il capo per introdurvisi.

    «Con permesso, tribuno. Volevo…»

    La sua frase, enunciata con una voce tremula e più profonda del solito, s’interruppe però di colpo.

    Davanti a sé, prima ancora di scorgere Costantino, curvo sul suo scrittoio, trovò un segretario che gli sorrise con aria sorpresa.

    Questi, poi, gli porse un documento.

    «Dimitrios, che casualità! Questa comunicazione è proprio per te. Il tribuno» disse voltandosi verso Costantino «ha appena siglato la notifica del tuo trasferimento a…»

    Ma Dimitrios non rispose. Gli bastò incrociare lo sguardo glaciale del tribuno per capire che, in nessuna maniera, una sua recriminazione sarebbe stata ascoltata. Si ritrovò la missiva in mano, mentre il suo cuore sprofondava chissà dove con un tonfo sordo. Ebbe la sensazione, da come Costantino l’aveva fissato, che ci fossero delle ragioni precise per quella decisione.

    E non ebbe dubbio, che queste fossero in qualche modo correlate al giorno in cui aveva protetto il suo compagno Cristiano.

    Perse all’istante qualsiasi spirito combattivo. E senza dir nulla, girò su sé stesso e tornò indietro.

    Con le lacrime agli occhi, si disse che doveva essere una vendetta.

    Costantino aveva aspettato il momento propizio per punirlo, facendogli pagare un crimine che non aveva commesso.

    Questo, nonostante il suo rigore e la sua dedizione.

    Non era un Cristiano, né un sovversivo. Ciò nonostante, avrebbe pagato lo stesso.

    Aveva sinceramente stimato quel giovane uomo. Si era spezzato la schiena per servirlo, per entrare nelle sue grazie.

    E invece era stato pugnalato alle spalle. Lui, e quei cari che non avrebbe più visto per chissà quanto.

    In quel momento, Dimitrios smarrì qualsiasi fiducia nel sistema di cui faceva parte. E giurò a sé stesso, e agli Dei, di non degnare più alcun superiore della sua fiducia.

    VI

    Prigioniero di Roma

    Dintorni di Tessalonica, Maggio 300 d.C.

    Se non altro, il piccolo godeva di ottima salute.

    Fu quella la sola consolazione per Dimitrios, che aveva approfittato di qualche ora di riposo per abbandonare i compagni e leggere, in completa solitudine, la lettera che gli era arrivata quel mattino.

    Si sentì combattuto, a metà tra il desiderio di farla a pezzi per la rabbia e l’istinto di stringerla a sé, come se questa fosse una trasposizione di quel bambino che non aveva ancora visto.

    Sempre più spesso si scopriva a giudicarsi, rivolgendosi l’accusa di essere un padre degenere per non aver neppure assistito alla nascita del proprio erede.

    Stava perdendo il periodo più bello della sua vita, quello della prima infanzia, in cui era fondamentale che entrambi i genitori fossero presenti, in qualsiasi momento. E questo, perché qualcuno aveva deciso che la sua, di presenza, fosse maggiormente richiesta lungo il limes Danubiano. A combattere per l’impero, che tuttavia non aveva ancora pagato nessuno di loro.

    Digrignando i denti, ricacciò negli abissi del suo spirito i sensi di colpa e i rimorsi per quella scelta che aveva fatto mesi prima, anche se animato dalle migliori intenzioni.

    Sapendo di essere prossimo a diventare padre, aveva deciso di compiere quell’azzardo nella speranza di arricchirsi a sufficienza.

    Con quel denaro, d’accordo con Danae, avrebbero gettato le basi di un’esistenza nuova.

    Lontana dallo scoramento che si provava essendo poveri, forti di una nuova indipendenza e soprattutto felici.

    Ma anziché essere il viatico per un futuro luminoso e sereno, quell’esperienza nell’esercito si stava trasformando in una tortura.

    Da quand’era arrivato nei suoi pressi, non aveva rivolto una sola volta lo sguardo verso

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