La magia della maglia numero 7 tra genio, sregolatezza e fatica
Di Silvio Mia
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Anteprima del libro
La magia della maglia numero 7 tra genio, sregolatezza e fatica - Silvio Mia
Torino.
1 – STANLEY MATTHEWS
Baronetto del calcio inglese, è nominato, per meriti sportivi, Sir nel 1965 a 50 anni di età. Nella sua carriera non è mai stato, né ammonito, né espulso, un esempio di lealtà, di correttezza e di talento.
E’ stato il primo giocatore a vincere il Pallone d’Oro, dove in classifica precede, Di Stefano e Kopa e il Premio di calciatore dell’anno.
Inglese atipico per quanto riguarda l’alimentazione, infatti non beve alcol, non mangia carne, con una dieta quasi completamente vegetariana.
La sua esperienza più importante la vive in Sudafrica, quando nel bel mezzo delle leggi sull’ aparthied, costituisce con coraggio una squadra di calcio formata da soli giocatori di colore. Il nome del sodalizio è Stan’s Men. E’ il 1975.
Per il suo impegno in favore dei calciatori e delle loro condizioni economiche, riceve attestati di stima da Pelè, da Brian Clough e da Gordon Banks.
Questi personaggi evidenziano il valore morale a fianco della grande tecnica di calciatore di Stanley. Nel 2002 è inserito nella Hall of Fame del calcio inglese, per il grande contributo etico dato ai tornei in cui ha partecipato, sia da giocatore che da allenatore.
Ala destra, numero sette quindi, dal repertorio classico e completo, finta micidiale, gran gioco di gambe, abilità tecnica e scatto portentoso.
Conquista soltanto, in tutta la sua carriera, una Coppa d’Inghilterra, quando è in forza al Blackpool, nel 1953. Dopo due sconfitte nel 1948 e nel 1951, con una memorabile prestazione, riesce a contribuire da protagonista, alla vittoria della propria squadra, che al 70’ di gioco è sotto 1-3.
Matthews ispira le tre reti con cui si completa l’insperata rimonta che sancisce il risultato finale sugli avversari del Bolton 4-3. Questa partita viene rinominata la finale di Matthews
.
Gli inglesi lo chiamano il Mago del dribbling
, o più semplicemente il Mago
.
Gioca in Nazionale fino a 42 anni e in Prima Divisione fino a 50 anni.
In Italia nel 1948, per la celebrazione del cinquantesimo anno della nostra Federazione, l’Inghilterra è invitata per disputare un’amichevole. La Nazionale italiana, la cui ossatura è composta dal blocco del Grande Torino, battuta 0-4, riceve così una dura lezione dai maestri inglesi.
Matthews propizia i primi due goal di Mortensen e Lawton. Si dice che fra un dribbling e l’altro, in attesa di affrontare il terzino preposto alla sua marcatura, Matthews, con un piccolo pettine, che teneva nella tasca dei pantaloncini, si metta a posto i capelli.
Nella sua carriera, gioca per 19 anni con la maglia dello Stoke City e 14 con la maglia del Blackpool. La sua ultima partita la gioca a 70 anni. E’ un’amichevole tra ex giocatori di Inghilterra e Brasile che i sudamericani fanno loro, vincendo per 6-1.
2 – ROMEO MENTI
Vicentino, noto anche come Menti III, perché nel Vicenza hanno giocato i fratelli Mario Menti I, e Umberto Menti II, poi giocatore della Juventus.
Quando Menti I smette di giocare, Mario diventa il primo e Romeo il secondo.
Fa il suo esordio nel Vicenza a soli 16 anni, in occasione dell’inaugurazione del nuovo stadio, che gli viene dedicato dopo la tragedia di Superga, che ancora oggi è il campo su cui disputa le sue partite il Vicenza. Con i suoi goal, ben 21, la compagine berica sfiora la promozione in serie B, nel campionato 1937-38 e al termine dello stesso, il giocatore è ceduto alla Fiorentina per 68.000 £.
Tre anni in maglia viola e poi l’approdo al Torino nel 1941. Nel campionato 1944-45 una parentesi alla Juve Stabia, dove con il club campano si laurea Campione d’ Italia liberata, titolo ottenuto con il pareggio 3-3, contro il Napoli. Questa onorificenza non è mai stata riconosciuta dalla FIGC.
Torna in riva all’Arno e veste nuovamente la maglia viola, nel campionato successivo e poi fa il suo approdo definitivo nel Grande Torino.
E’ lui che segna l’ultimo goal degli Invincibili, a Lisbona, su rigore il 3 maggio 1949. In Nazionale il suo tabellino è di cinque reti in sette partite. Al suo esordio si presenta con una tripletta alla Svizzera.
Muore il 4 maggio 1949, con i suoi compagni di squadra, i tecnici, i dirigenti, i giornalisti e tutti i presenti sul volo di ritorno da Lisbona, quando, in una giornata piovosa, grigia e dalle nubi basse, l’aereo si schianta contro il terrapieno della Basilica di Superga. Una tragedia immensa che cancella una squadra in quei tempi, quasi imbattibile, che nel suo stadio, il mitico Filadelfia, Fila per i tifosi granata e forse non solo per loro, è rimasta senza sconfitte dal 1943 al giorno della disgrazia. Questo per sottolineare la forza di quegli uomini, specialmente tra le mura amiche dove, quando le cose andavano male, il Capitano Valentino Mazzola si arrotola le maniche e fa scattare il terribile quarto d’ora granata, che non dà scampo, magari spinto dal trombettiere Oreste Bolmida, che nei momenti di fiacca della squadra, si alza per suonare la sua tromba. Questo tifoso speciale è Capo Stazione a Porta Nuova, lo scalo più grande della città e quando è in programma il derby cittadino, in segno di amicizia e sportività, porta in campo mazzi di gladioli. La sua fede è talmente grande che quando il Torino perde, in segno di protesta, il lunedì successivo digiuna a pranzo e cena. Oreste suona per l’ultima volta la tromba, il 6 maggio 1949 durante i funerali del Grande Torino e giura che non l’avrebbe mai più suonata. Il 16 maggio 1976, però gliela rimettono di nuovo in mano, quando il Torino di Gigi Radice vince dopo 27 anni dalla tragedia, lo scudetto. Tifosi e giocatori d’altri tempi, di un calcio di altri tempi, più romantico, dove in campo non vengono meno l’agonismo e la rivalità, ma dove tutto è vissuto con uno spirito goliardico e si accetta la sconfitta senza fare drammi, sia in campo che sugli