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Per sempre tuo, Damian
Per sempre tuo, Damian
Per sempre tuo, Damian
E-book396 pagine5 ore

Per sempre tuo, Damian

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Info su questo ebook

Amare qualcuno è troppo rischioso. L’ho già fatto in passato e sono quasi morto. Non posso farlo di nuovo.

Dicono che il tempo guarisca le ferite, ma non è vero. Sono passati quattro anni e la voce di Kate riecheggia ancora nella mia mente.
Ogni schifoso giorno.
E per questo bevo e scopo. Per dimenticare.
Non posso fare quello che mi ha chiesto. Non posso lasciarla andare. Non ci riesco.
Non sono in grado di farlo nemmeno quando compare Lia, la cosa migliore che mi sia capitata da anni. E allora, per allontanarla, provo a distruggere anche quel poco di me che era rimasto integro.
Non avevo però messo in conto di sentire la sua mancanza, di volere di più. Non avevo capito che il mio cuore poteva amare di nuovo.
Non mi resta che trovare un modo per riconquistare la sua fiducia, perché, se non lo faccio, non perderò soltanto Lia.
Perderò tutto.
LinguaItaliano
Data di uscita26 apr 2021
ISBN9788855311670
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    Anteprima del libro

    Per sempre tuo, Damian - D. Nichole King

    Capitolo 1

    Damian

    La scatola sotto al mio letto mi provoca. La ignoro. Quest’anno non cederò alle sue grida.

    «Fanculo.» Rotolo giù dal letto e cerco le chiavi sul cassettone. Non sono lì.

    Dove diavolo le ho messe?

    Spalanco la porta e giro l’angolo per raggiungere il bagno. Niente se non le solite cose.

    In soggiorno, tolgo di mezzo i cuscini dal divano e controllo su sedia e tavolino. Una manciata di spiccioli, un paio di involucri di preservativi vuoti, tre patatine fritte del McDonald’s e una banconota da dieci dollari che mi intasco. Niente chiavi.

    «Dannazione!»

    Mi dirigo a passo pesante in cucina e sgraffigno le chiavi della moto di Dylan dal cassetto. Il ragazzo non lascia mai niente fuori posto. Bastardo prevedibile.

    Pare avermi sentito perché, quando ritorno in soggiorno, è lì in piedi.

    Gli rivolgo un’occhiata mentre lo supero. «Prendo in prestito la tua moto.»

    «Cosa stai facendo, Damian?»

    Voltandomi, faccio dondolare le chiavi di fronte alla sua faccia. «Prendo. In. Prestito. La. Tua. Moto.» Lo ripeto in modo lento, scandendo ogni parola, così forse la seconda volta lo capisce.

    «Non è ciò che intendo» insiste, ma lo so già. Ogni maggio è la stessa storia e ormai conosce il mio modus operandi.

    «Non ti sto chiedendo il permesso.»

    «L’ultimo giorno d’esami è domani.» Il mio coinquilino è seccato. «Senti, fratello, sono passati quattro anni da quando Ka...»

    Di colpo, tengo Dylan inchiodato al muro, la mano intorno alla sua gola. Stringo abbastanza forte per farmi intendere. «Sei il mio migliore amico, cazzo, ma non ho bisogno di sentire un’altra volta le tue stronzate psicologiche. Non oggi.»

    Dylan sospira e annuisce come meglio può.

    Faccio un passo indietro e lo libero. Si sfrega il collo e una fitta di senso di colpa mi travolge. Ha buone intenzioni.

    «Ora non ce la faccio.» Stringo le chiavi nel palmo ed esco dalla porta.

    Adoro il suono della moto di Dylan quando la mando su di giri. Il rumore sovrasta ogni cosa, in special modo la merda nella mia testa. Il suo ricordo non è svanito, nemmeno un po’.

    Sfrecciando lungo la strada, non penso. Il percorso ce l’ho impostato con il pilota automatico nel cervello.

    Parcheggio nel solito posto e infilo le chiavi in tasca. È martedì sera, perciò il parcheggio è quasi deserto. Ottimo, anche perché stanotte voglio restare solo.

    La musica assordante mi assale non appena entro. Non mi guardo nemmeno intorno per vedere chi c’è. Non ne ho bisogno, tutto ciò che voglio si trova dietro il bancone.

    «Cosa ti porto, Damian?» mi chiede Max.

    «Tequila. Liscia» rispondo, battendo il pugno due volte sul legno.

    «Ma certo, amico.»

    Non mi siedo su uno sgabello, e non aspetto. Mentre mi dirigo verso un tavolo nell’angolo, lancio di sfuggita un’occhiata ai ragazzi che giocano a biliardo. Ne riconosco un paio della scuola. Per loro, stasera si tratta di rilassarsi. Per me, di dimenticare.

    Mi siedo, passando le dita tra i capelli. Il modo in cui i suoi occhi scuri ancora penetrano nella mia mente mi annienta fino al midollo.

    Damian, amore mio, il mio ultimo desiderio è che tu mi lasci andare.

    Non ci riesco.

    «Due shot di Tequila.»

    Per poco non salto dalla sedia a quel suono, ma, quando guardo la cameriera, mi rendo conto che la voce non era la sua. Di certo lei non l’avrebbe mai detto. Odiava che bevessi.

    Faccio un rapido cenno alla ragazza nuova. Lei si gira, e io butto giù il primo bicchiere, osservando il modo in cui il suo sedere ondeggia mentre si allontana.

    Capovolgendo il bicchiere, invio un segnale a Max e butto giù anche l’altro. Di solito smette di servirmi dopo il decimo, e stasera non ci vorrà molto. Non sarà sufficiente per levarmela dalla testa, ma potrebbe essere abbastanza per rendere le immagini sfocate.

    Sei felice, Damian?

    Stringo gli occhi. Che razza di domanda è? Un coltello mi trafigge il cuore e voglio vomitare.

    Sento altri due bicchieri colpire il tavolo di fronte a me, costringendomi ad aprire gli occhi. Lo sguardo sfreccia verso la targhetta sulla maglietta della cameriera, appena sopra il capezzolo sinistro che spunta turgido dal cotone. Mi lecco le labbra.

    Cameron.

    Scommetto che non direbbe di no, se ci provassi.

    «Un altro giro» dico.

    Mentre aspetto, la mente mi riporta a quella mattina e a come Kate abbia aspettato fino all’alba per lasciarmi. Magari è stato il suo modo di farsi ricordare.

    È incredibile, non è vero? Non importa quanto sia buio, alla fine il sole sorge sempre e un nuovo giorno comincia. L’oscurità è solo un ricordo.

    Dio, mi manca così tanto. Tutto di lei.

    Cameron posa altri due shot sul tavolo, e stavolta non la guardo. Ho bisogno di più alcol per quello.

    Mi strofino il viso con i palmi.

    Sarò sempre con te.

    Cazzo, no!

    Affondo i pugni sulla sedia, il dolore mi scorre attraverso le nocche. Lei mi ha lasciato solo, cazzo! Se n’è andata, e io sono rimasto qui. Non è giusto, maledizione. Il pizzicore delle lacrime incombe, perciò tracanno gli shot, uno dietro l’altro. Sbatto l’ultimo bicchiere sul tavolo troppo forte, ma non mi interessa.

    Quando Cameron ritorna, ne mette altri due davanti a me e chiede: «Serataccia?»

    Sbuffo e butto giù il primo. «Si può dire così.»

    La sua coscia nuda è molto vicina a me. Non vedo l’ora di accarezzarla, più tardi.

    «Portamene altri due, per favore» dichiaro.

    Si morde il labbro. «Ehm, non so. Max...»

    «Portami solo quei cazzo di shot. Io e Max abbiamo un accordo.»

    Cameron lancia un’occhiata al barista da dietro la spalla. Ottenuta la sua conferma, si volta. «Torno subito.»

    Mi appoggio all’indietro, massaggiandomi le labbra con un dito, l’alcol è riuscito a fare effetto.

    Hai tutta la vita davanti a te. Non sprecarla. Non rimuginare sul passato.

    Cameron avanza con il vassoio dei miei ultimi due shot della serata. Le fisso le cosce, immaginando già che sapore abbiano. Sto andando avanti, piccola. Proprio come mi avevi detto.

    «Grazie» le dico mentre li appoggia sul tavolo. «A che ora stacchi?»

    Esita. «Ehm, tipo, adesso. Il mio ragazzo sta venendo a prendermi.»

    Bene, merda.

    Tracanno gli ultimi due bicchieri e vado a pagare il conto. La mia sbronza è decente ma non abbastanza. Non è mai abbastanza.

    «Grazie, Max.»

    «Ci vediamo, amico.»

    Ficco le mani in tasca, mi prendo tutto il tempo per attraversare il parcheggio e raggiungere la moto di Dylan. Tiro fuori le chiavi e avvio il motore. Il suo viso non è svanito, ma ora è a malapena riconoscibile. Esattamente ciò che volevo.

    Con lentezza, torno verso la strada e noto Cameron appoggiata al muro esterno del bar, le braccia attorno al corpo per il freddo.

    Piantata in asso. Carino.

    Mi avvicino. «Serve un passaggio?»

    «Uh, no. Toby dovrebbe essere qui a minuti.»

    Toby Stanton, forse? Se è così, Cameron potrebbe essere un’ottima scopata.

    «Toby avrebbe dovuto essere qui ormai» dico, allungando una mano verso di lei. «Andiamo. Ti porterò a casa.»

    Si morde di nuovo il labbro, e mi auguro di scoprire cosa si prova a farlo tra una decina di minuti.

    Cameron sospira e afferra la mia mano. «Vivo al campus, Frederiksen Court.»

    L’aiuto a sistemarsi dietro di me e lei fa scivolare le braccia intorno alla mia vita. Sorridendo, annuncio: «Tieniti forte.»

    Sfrecciamo nel traffico, il vento mi sbatte sul viso. Cameron rannicchia la testa contro la mia schiena e mi stringe più forte. Dice qualcosa, ma non riesco a sentirla.

    Sulla via di ritorno all’appartamento che condivido con Dylan, fuori dal campus, prendo una scorciatoia. A questo punto, ho solo bisogno di spogliare Cameron. Fanculo a tutto il resto.

    Parcheggio accanto alla mia BMW e spengo il motore.

    «Ho detto Frederiksen Court» dice lei, confusa.

    Scendo, poi mi giro ad affrontarla. «Ho detto che ti avrei portato a casa. Qui è dove vivo.»

    «Toby...»

    «... è in giro a scoparsi qualcun’altra e si è dimenticato di te.» Le mani trovano le sue ginocchia e iniziano a salire tra le cosce. Dannazione, sono allettanti come appaiono.

    Si acciglia, ma non dice nulla. Ho ragione e lo sa.

    Ammirando ogni centimetro della sua pelle, faccio scorrere i palmi verso l’interno coscia mentre assimila ciò che ho detto. Per lasciarlo penetrare più a fondo, le bacio il collo, succhiando la carne. Cederà. Lo fanno sempre.

    «È probabile che si stia allenando fino a tardi in palestra» afferma, cercando di convincere se stessa.

    «Già, probabilmente no.» Cambio lato, e inclina la testa, lasciandomi continuare. Con le mani, invece, scosto le mutandine per massaggiarla. S’irrigidisce un po’, ansimando.

    «Toby... è un... campione nazionale di pugilato. Lui... ah...» Si ferma, il respiro affannoso, proprio come piace a me.

    Sì. Toby Stanton. Ci sarà da divertirsi.

    Deglutisce. «Si allena molto.»

    Grugnisco. «Scommetto che lo fa.»

    Io so che lo fa.

    Annuisce. «È così.»

    I suoi fianchi si muovono piano contro la pressione che sto applicando, e premo le labbra sulle sue. Non resto sorpreso quando risponde al bacio con fervore.

    Toby frequenta solo quelle esuberanti.

    Le mie dita iniziano a scivolare su di lei e non resisto più. Devo assaggiarla con la bocca.

    Quando mi allontano, le sfugge un rantolo di disapprovazione. La aiuto a scendere dalla moto e la porto in camera.

    Ho già la maglietta sopra la testa prima ancora che la porta si chiuda dietro di me. La chiudo con un calcio, facendola sbattere. Non mi prendo la briga di girare la chiave.

    Cameron armeggia con la mia cintura. Fanculo. La attiro più vicino e faccio scorrere le mani oltre l’orlo della sua gonna, toccando ogni centimetro di pelle liscia che si nasconde al di sotto. Spingendola all’indietro verso il letto, mi premo contro di lei finché non si siede e posso finire il lavoro, gettando gonna e mutandine dall’altro lato della stanza.

    Mi slaccio cintura e jeans, poi li tolgo. Toby è senza dubbio fuori dai suoi pensieri adesso. Geme per l’eccitazione. È il momento di levarle il resto dei vestiti.

    Lasciandole scorrere i palmi delle mani sulle cosce, faccio una breve deviazione al centro.

    «Oh, sì!» grida quando scivolo dentro di lei. La accarezzo fino a quando non è sul punto di venire.

    Mi allontano e ridacchio, sapendo che fra un secondo diventerà molto meglio. Si acciglia, esibendo uno sguardo da cucciolo.

    «Non preoccuparti. Tornerò» le sussurro all’orecchio.

    Getta indietro la testa con un sorriso sul viso.

    Le afferro il bordo della maglietta e comincio a sollevarla, ma non va oltre il petto. Ha appuntato la targhetta sul reggiseno.

    «Oh, Cameron» mi lamento. Odio dover perdere del tempo per sganciare quel dannato affare.

    «Scusa» ansima. Musica per le mie orecchie. «Ecco, lascia fare a me.» Gira la maglietta e sgancia la spilla. «Fatto. Ah, e questa è la targhetta del mio amico. Avevo dimenticato la mia. Mi chiamo Katey.»

    Qualcuno mi ha appena dato un pugno allo stomaco.

    Non lasciarmi, Katie. Manderò tutto a puttane, ma non lasciarmi.

    «Vattene. Fuori» ansimo.

    Si acciglia. «Scusa?»

    «Sparisci. Fuori di qui.» Raccolgo i suoi vestiti e glieli spingo sul petto, facendola barcollare un po’ all’indietro. «Adesso.»

    L’espressione patetica che ha sul viso non mi turba. Non significa proprio nulla per me.

    Spalanco la porta e non la guardo trascinarsi fuori, svestita dalla vita in giù.

    «Come dovrei tornare a casa?»

    «Non me ne frega un accidente» rispondo e le sbatto la porta in faccia.

    Un secondo dopo, dall’altro lato, lei urla sbigottita: «Sei un fottuto stronzo!»

    Collasso sul letto, il viso sepolto nelle coperte.

    Sì, Kate, lo so. Lo so.

    Capitolo 2

    Damian

    «Avanti, amico, porta fuori il culo dal letto. Faremo tardi.»

    Dylan che bussa alla mia porta mi separa dal sonno. Un meraviglioso sonno, stordito ed ebbro, dove persino Kate è assente dalla mia mente.

    Fottuto bastardo.

    Rotolo sulla schiena e qualcosa scricchiola sotto al mio peso. Mentre mi sposto per prenderla, la bottiglia vuota di Templeton Rye cade dal letto e tintinna contro la gemella sul pavimento. Chiudo le dita attorno all’oggetto e lo tiro fuori.

    La piccola agenda nera con una rosa rossa sulla copertina mi fissa. È il diario di Kate.

    All’improvviso, la scorsa notte non è più una matassa confusa di merda che non ricordo. L’anniversario di quando l’ho vista esalare il suo ultimo respiro è il peggior dannato giorno dell’anno. In realtà, l’intera settimana è la sagra del dolore annuale. È un promemoria inutile del fatto che mi ha lasciato. Che mi ha strappato il cuore e l’ha portato con sé nella tomba.

    Non lo voglio indietro. Appartiene a lei.

    Osservo di nuovo la lettera indirizzata a me, l’ultima cosa che ha scritto. Le sue magnifiche parole di speranza che mi promettono che starò bene. Che diavolo ne sapeva? Se n’è andata e mi ha lasciato qui con tutti i suoi fottuti ricordi addosso.


    Il mio ultimo desiderio, Damian, è che una volta letto il mio diario, tu lo metta in una scatola. Riponilo da qualche parte in soffitta e lascialo lì. Lascia che raccolga la polvere.

    Però non è tutto. Hai tutta la vita davanti a te. Non sprecarla. Non rimuginare sul passato.

    Va’ avanti.

    La vita non è solo sopravvivere. È vivere.

    Damian, amore mio, il mio ultimo desiderio è che tu mi lasci andare.

    Per sempre tua, Kate.


    Come accidenti dovrei fare a dimenticarla? Ad andare avanti? Non ha la più pallida idea di ciò che mi ha fatto.

    Cazzo!

    Sto impazzendo. Crollando di nuovo, adesso che non sono più stordito.

    Non avrebbe dovuto lasciarmi. Doveva prendere quello stupido farmaco così avrei potuto salvarla. Il mio sangue. Il mio sangue corrispondeva al suo, glielo avrei dato tutto se avesse resistito un po’ più a lungo.

    Mi fa male lo stomaco. Dannazione, mi fa male tutto il corpo. Non riesco a respirare quando gli stessi pensieri mi tormentano anno dopo anno, senza mai permettermi di dimenticare.

    Lancio un’occhiata alle bottiglie di whisky vuote sul pavimento. Sono ancora lo stesso bastardo di quattro anni fa. L’unica differenza è che adesso non ho la ragazza di mio fratello da scopare quando ho bisogno di una dose extra di sollievo che l’alcol non può darmi.

    No, Ellie è uscita dalla mia vita la mattina del funerale di Kate. Ci siamo rotolati nel letto un’ultima volta per attenuare il mio dolore, e poi si è trasferita in Florida. Qualcosa riguardo allo studio della biologia marina o qualche cazzata del genere.

    Non ho più sue notizie da allora. Non importa. Le scopate facili non sono difficili da trovare qui.

    «Damian!» Bang, bang, bang. «Amico, dobbiamo andare!»

    Esame di filosofia. Merda.

    «Sì, ok. Dammi un minuto» urlo, infilandomi la prima maglietta che vedo. Afferro un paio di jeans dal pavimento e infilo il cellulare in tasca.

    «A proposito» dice Dylan, gettandomi un mazzo di chiavi. «Trovate.»

    Afferro una barretta proteica dalla dispensa. «Ah sì? Dov’erano?»

    «Proprio lì, sul bancone.» Sembra irritato. È un perfezionista, e a volte penso che decidere di vivere con me sia la sua idea di servizio alla comunità. Dylan mi ha guardato le spalle fin da ragazzini, è l’unica persona che considero un amico.

    «Grazie» rispondo. «Allora, andiamo? Non voglio arrivare in ritardo.»

    Scuote la testa di fronte al mio comportamento irresponsabile e mi segue verso la BMW. Filosofia è l’unica materia che condividiamo questo semestre, e trovare parcheggio è un incubo, perciò ci andiamo insieme. Ma ho dei piani dopo l’esame e Dylan non ne fa parte. Spero che trovi un altro passaggio per tornare a casa, perché non aspetterò che il bastardo lumacone finisca l’esame prima di andarmene.

    Com’era ovvio, un’ora e mezza dopo, ho finito e Dylan sta ancora scarabocchiando le sue risposte. Mancano novanta minuti buoni alla fine e il mio coinquilino li userà tutti prima di uscire. Neanche morto resterò così a lungo.

    «Ehi, amico, me ne vado» gli sussurro.

    «Sul serio? Hai già finito?»

    «Ehm, sì.»

    È infastidito perché, mentre lui ha trascorso tutte le notti in bianco durante la settimana, io avrò aperto il libro sì e no per due ore. Se finora non avevo imparato questa roba, perdere tempo a rileggere ancora tutto il materiale non sarebbe servito a molto. Inoltre, questa settimana ho avuto altre cose per la testa.

    «Bene. Vai» dice.

    «A dopo.»

    Raccolgo la mia roba e mi dirigo di fronte al professore.

    Solleva gli occhi dal bordo degli occhiali per studiarmi. Sono il primo a consegnare l’esame, e con molta probabilità pensa che abbia fatto un lavoro di merda.

    Però non l’ho fatto. Quando lo controlla, trova ogni risposta perfettamente corretta come al solito. Sono un Lowell, e negli ultimi sei anni non ne sono stato all’altezza. Fino ad ora. A causa dell’accordo che ho stretto con il Buon Dottore.

    Ho ottenuto quasi il massimo dei voti negli ultimi cinque semestri.

    Alla fine, il professore annuisce e io esco dall’aula, lasciandomi alle spalle il terzo anno di college.



    Mi ci vuole un’ora per arrivare al cimitero. Dopo la morte di mamma e Liam, non ci ho mai rimesso piede. Non fino a quando Kate mi ha convinto a venire. Era uno dei suoi cinque desideri. Dal primo al terzo li ho esauditi perché lei era con me. Perché la amavo. Le ho promesso che avrei esaudito il quarto, perciò l’ho fatto. Ma il quinto?

    Quello è impossibile.

    Ora vengo qui spesso, giorno, notte, ogni volta che ho bisogno di starle vicino. Anche nella morte, Kate mi attira a sé. In questo posto in cui è stata una volta sola mentre era in vita.

    Prendo i tre mazzi di fiori dal sedile del passeggero e apro la portiera. Quando Kate mi ha portato qui, quattro anni fa, sono riuscito a stento a scendere dalla macchina. Ora è facile.

    Troppo facile, cazzo.

    Non ci devo nemmeno pensare. È automatico. Routine, come gli shot di whisky notturni.

    Non dovrebbe essere così. In tre anni ho perso le tre persone che amavo di più. La morte fa schifo, e io ne ho già avuta abbastanza.

    Sbatto la portiera e avanzo sull’erba. Le tre pietre identiche sporgono dalla terra e, anche quando vengo qui dopo il tramonto, non ho problemi a vederle. Sono impresse nella mia memoria.

    L’idea di avere Kate sepolta qui accanto a mia madre e mio fratello è stata interamente mia e del tutto egoista. I Browdy mi avevano chiesto di aiutarli con il funerale e, a parte l’orario del servizio funebre, questa è stata la mia unica richiesta. Così sarebbe stata vicino a me.

    La chioma dell’albero di sambuco proietta un’ombra sulle tombe. Mi fermo sotto a quel riparo dal sole, di fronte alle fredde lapidi. Questi pezzi di granito non hanno alcun legame reale con le persone che erano in vita.

    Accidenti, non le hanno nemmeno scelte. Non le hanno viste, eppure ci sono i loro nomi, le date di nascita e morte scritte sopra come se fossero appartenute a coloro che affermano di rappresentare.

    I cimiteri, queste pietre, non sono per i morti.

    No, sono per i vivi.

    Il mio sguardo viaggia sui simboli celtici incisi al centro di ognuna. Identici ai tatuaggi incisi sul mio corpo. Fede. Fratellanza. Speranza.

    Come al solito indugio su quello di Kate, e il ricordo di quando le regalai la collana con il cuore intrecciato mi travolge, insieme alle parole che le dissi.

    È un simbolo celtico di speranza. Ora saprai sempre dove trovarla.

    Dannazione. Glielo avevo regalato in modo che potesse pensarmi ogni volta che aveva bisogno di me, ma, in realtà, ero io ad avere bisogno di lei.

    Prendo un respiro profondo per non crollare. Il giorno in cui Kate è morta ho perso tutto.

    Mi passo una mano tra i capelli e chiudo gli occhi. Quaggiù, lontano da tutti, non devo fingere di avere una fottuta idea di come vivere senza di lei.

    Quaggiù, ci sono solo io.

    Davanti alla lapide di Kate, mi chino a terra, lasciando cadere i fiori al mio fianco. Il mio petto è vuoto eppure, in qualche modo, fa male. È la stessa dannata cosa anno dopo anno: soffro per il desiderio di vedere il suo sorriso solo un’altra volta. Ancora una e sarò soddisfatto, mi dico.

    So che è una bugia, perché un suo sorriso non sarà mai abbastanza. Ho bisogno di toccarla, di farle scorrere le dita sulla pelle calda e proteggerla da tutto.

    Ma sono un fallimento. Avevo il potere di salvarla dentro di me, nel mio sangue, e ho fallito.

    A malapena riesco a vedere quel poco spazio di fronte a me mentre crollo. Quattro anni fa, mio padre si è seduto qui con me, dicendomi che il dolore non sarebbe mai scomparso, ma con il tempo si sarebbe attenuato.

    Che mucchio di cazzate; il dolore è soltanto aumentato.

    «Mi manchi da morire, Kate» le dico anche se non può sentirmi. E il pensiero mi colpisce allo stomaco più di ogni altra cosa. Non importa cosa le dirò adesso, lei non lo saprà mai.

    Faccio scorrere le dita sopra il suo nome: Kathryn Katie Browdy. Diciassette anni su questa terra e ho avuto solo i suoi ultimi mesi. Sono stati i migliori mesi della mia vita.

    Mi siedo con lei fino a quando il sole inizia a proiettare strisce dorate oltre l’orizzonte. Anche se Kate ne rimarrebbe delusa, ho bisogno di prendere dell’altro alcol prima di tornare a casa. Devo avere qualcosa che mi aiuti a superare questo dolore.

    Una folata di vento fa frusciare i fiori appassiti che ho lasciato la scorsa settimana sulle loro tombe. Li raccolgo e li sostituisco con quelli freschi che ho portato. Margherite per mia madre, alcuni fiori vari di cui non gli sarebbe importato nulla per Liam, e rose rosse per Kate.

    Sempre rose rosse per la mia Kate.

    «Ti voglio bene, mamma» mormoro, aprendo a ventaglio le margherite nel vaso accanto alla sua lapide.

    Poi passo a Liam. «Abbi cura della mia ragazza, amico» gli dico, poi mi ricordo di come mi sono preso cura della sua. «Ma se la tocchi, ti ucciderò.»

    Mi accovaccio e poso le rose di Kate alla base della sua pietra. Non posso dirle nulla che non le abbia già detto un milione di volte. Perciò mi accontento delle parole che non ho potuto dire fino a poco prima che morisse. «Ti amo, piccola. Ti amerò per sempre.»



    Ora il mio armadietto dei liquori è ben fornito e prendo una bottiglia di tequila. Bevo un sorso. Dannatamente buona. Ne prendo un altro mentre vado in soggiorno.

    Dylan è probabile sia all’Underground, a strusciarsi contro le pollastrelle che ordinano solo Sex on the beach per il nome, e ne hanno già bevuto uno di troppo. O forse due.

    Ma che diavolo. Gli esami sono finiti, e l’Underground è il posto in cui essere stasera. Potrei farci un salto più tardi, dopo che sarò abbastanza sbronzo da dimenticare quello che significa per me questa settimana.

    In ogni caso, a fine serata il mio piano è quello di svenire nel letto, gloriosamente insensibile alla voragine che ho nel petto. Non me ne frega proprio un cazzo di come ci arriverò.

    Collasso sul divano e butto i piedi sul tavolino. Mentre mando giù un altro sorso di tequila, sento il telefono che suona nella tasca posteriore dei jeans. Senza posare la bottiglia, mi contorco e lo estraggo.

    «Pronto?» rispondo.

    «Damian?»

    La voce familiare mi si schianta nell’orecchio e, per un secondo, resto paralizzato.

    Porca. Puttana.

    Capitolo 3

    Ellie

    «Damian, ci sei?» ripeto, visto che non ha detto nulla. «Sono io, Ellie» aggiungo, perché non riconoscerà il mio numero della Florida. Volevo un nuovo inizio quando ho lasciato l’Iowa, e questo includeva sette cifre con il prefisso 850.

    Molto è cambiato negli ultimi quattro anni e non ero sicura che ricordasse la mia voce.

    «Ehm, sì. Ci sono» dice infine, e in sottofondo sento il rumore sordo del vetro che colpisce un tavolo.

    Dentro di me, rabbrividisco. Immagino che alcune cose non cambino.

    Riattacca e basta, Ellie. È un’idea stupida.

    Incrocio le gambe sotto di me, il divanetto di vimini scricchiola. Dovrei seguire il mio consiglio, dirgli che è stato un errore e trovare un altro modo.

    Damian non era l’unica ragione per cui dovevo andarmene, ma era la più grande.

    «Come te la passi, Elle?» chiede.

    È l’unica persona che mi abbia mai chiamato Elle. Liam aveva iniziato a chiamarmi Ellie quando ci frequentavamo, ma ero Elizabeth per tutti gli altri. Anche ora, dopo tutto questo tempo, un’ondata di brividi mi percorre la spina dorsale quando lo dice.

    Deglutisco, concedendomi un attimo per rispondere. «Sto bene. E tu?»

    Chiacchiere prive di valore. Dovrei concludere questa chiamata o arrivare al punto. Inutile permettere a queste piccole ondate d’emozione di sentirsi a casa nel mio stomaco, dopo che ho lavorato così duramente per tenerle a bada. Distruggerle trasferendomi a più di duemila chilometri di distanza e immergendomi negli studi non ha funzionato, perciò questa è l’alternativa migliore. Davvero, è tutto ciò che posso fare per fingere che non esistano. Non posso lasciare che mi controllino di nuovo.

    «Sì, sto bene. Sto bene» risponde senza convinzione.

    Non se la sta passando bene. Riesco a sentirlo nella sua voce. So anche che il tempismo di questa telefonata fa schifo, ma non resterò in Iowa molto a lungo, e ho bisogno di chiudere questa faccenda il più presto possibile. Ho aspettato finché ho potuto, e ora sono molto vicina a concluderla.

    Il problema è che sto ancora meditando se proseguire o meno con i miei piani. Per mia sfortuna, ho esaurito le opzioni, e Damian è in assoluto la mia ultima scelta da quando la mia amica Kerri ha avuto un’emergenza familiare ed è volata a casa in Canada la scorsa settimana. Il mio aereo parte tra due giorni e, se non mi invento qualcosa, posso dire addio a quest’incredibile opportunità. Progetti di questa portata sulla Grande barriera corallina non arrivano tutti i giorni. Ne ho bisogno per completare la mia tesi.

    Vorrei solo non essermi ridotta a chiedere un favore a Damian. Di tutte le cose, questa è quella che mi rimane da fare.

    «Beh, ehm, la ragione per cui ti ho chiamato è che sono in Iowa per un paio di giorni, e mi stavo chiedendo se forse potremmo... ehm... incontrarci domani mattina?» chiedo contro ogni buon senso. Poi trattengo il respiro, quasi sperando che mi dica che non vuole vedermi mai più. In tutta onestà, sarebbe meglio per entrambi.

    «Domani mattina?» ripete. «Sì, certo. Si può fare.»

    Dannazione.

    «Grandioso. Ehm...»

    «Ho un appartamento a Ames, vicino al campus. Posso

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