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Scritto in Nicaragua
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E-book214 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Nel mondo vi sono luoghi destinati a restare sempre in secondo piano e anche quando salgono alla ribalta per ragioni quasi sempre tragiche, sono riassorbiti nel dimenticatoio appena il clamore delle notizie si placa.
Protagonista del libro è il Nicaragua nella sua realtà odierna, visto con gli occhi di chi ha contribuito, insieme a molti altri, con il proprio lavoro di volontariato a realizzare numerose opere di pubblica utilità.
È un diario di viaggio che ripercorre la memoria di altri viaggi precedenti, facendo riaffiorare molti ricordi che toccano la realtà politica e sociale del Paese, dal tempo della rivoluzione Sandinista ai giorni nostri.
È un percorso che si snoda in varie tappe, tutte vissute tra la gente comune. Ne scaturiscono personaggi veri che vanno dall’ambulante, al prete, all’ex guerrigliero e a tutta la gente incontrata per puro caso; personaggi che permettono di comprendere la realtà nicaraguense dal basso e di ripercorrere alcune tappe storiche che hanno portato al cambiamento e al progresso della Nazione.
La voce narrante si inoltra in questa realtà, della quale è stata partecipe negli eventi, senza la pretesa di giudicare, condannare o assolvere, ma solo col desiderio di comprendere e far conoscere un Paese definito come terra di “laghi, vulcani e poeti”.
LinguaItaliano
Data di uscita9 set 2019
ISBN9788868674106
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    Anteprima del libro

    Scritto in Nicaragua - Floriano Rubiano Fila

    sogno.

    Un aereo è una piuma impigliata tra le nuvole (tratto da Una diversa luna e altre stelle di Jerónimo Mendieta Estrada)

    Partenza. Una per tutte perché si riaccende la dimensione che ogni viaggio è sempre il primo e tutte le cinture di sicurezza, fisiche o immaginarie, per quanto ben allacciate, non valgono a rassicurare le mie vertiginose paure d’altitudine, soprattutto quando aleggiano sopra a un oceano.

    Ogni volo lungo è un dormiveglia imposto di pensieri randagi e devianti. Non c’è soluzione, non riesco a dormire, chiudo gli occhi e cerco il buio, ma a ogni piccola turbolenza l’anima sobbalza e il mio piccolo Ulisse corre a nascondersi nell’angolo più riposto dell’infanzia.

    Guardo gli altri passeggeri intorno a me. I corpi paiono rilassati, nulla di tremebondo traspare dai loro volti, come se quella fosse un’esperienza quotidiana che poco lascia e nulla toglie. Ognuno resta nella sua fosforescente solitudine, dietro al suo oscuro senso di vita. Eppure qui dentro e quassù, siamo tutti sul margine dei nostri piccoli destini, uniti da un comun denominatore, come linee congiunte in un unico punto, alla ricerca e in attesa di una diaspora liberatoria che cancelli la causa del vuoto che ci abita.

    Lo so, sono digressioni confinanti con l’assurdo, dettate da questo dormiveglia ipnotico che si scolora a ogni battito di palpebre dentro gli occhi del piccolo Ulisse che si ostina a non lavarli dal buio.

    Le ore si rincorrono sulla giostra del quadrante dell’orologio, fuse e confuse nel fuso orario. Stupido gioco di parole e di tempo. Un tempo che distilla déjà-vu brucianti, incuranti del dolore che riaprono con le loro apparizioni improvvise, troppo veloci per domande ritardatarie e banali.

    Sono aggrappato al cielo, con la gola graffiata, bruciata di passato. Resto dentro questa bolla d’aria sospesa a metà tra sogno e placenta, allacciata a un pensiero fatto di buio che rende più dolci l’ansia e l’attesa di un minuto a venire, intriso di una luce liberatoria che accenderà tutto ciò che galleggia tra la fantasia e questo ricordo volante su ali consunte di tropico, verso terre arenate nel tempo tra polvere e un vento popolato di uccelli corsari, vulcani sornioni e laghi feriti. Terre che ora scorgo dall’alto, il loro grido sale fin dentro questo mio silenzio di nuvola per poi esplodere in un verde da pittore all’inizio del mondo, che ancora l’eco si sente nel rimbalzo di foglia su foglia, mentre il mio piccolo Ulisse ancora d’incerto destino scopre una nuova terra e non riesce proprio a pensare che possa essere l’ultima.

    Un biglietto dimenticato nel cassetto dei sogni (tratto da Dentro di me si viaggia di Augusto Galindo Flores)

    Check-in a Linate, via Amsterdam, Panama destinazione Managua.

    Sì, un’altra volta in Nicaragua. Ormai vi ritorno un paio di mesi quasi tutti gli anni. Non avrei mai pensato potesse diventare una tappa così importante dentro la mia vita, quando in quel lontano 1991 sbarcai all’aeroporto Augusto Cesar Sandino come componente di una brigata di volontariato internazionale. Serbo ancora il ricordo benevolo dell’aria notturna calda e umida che mi accolse spogliandomi di quella pungente e condizionata dell’aereo. Ogni volta che ripenso alle esperienze di quel primo viaggio mi pare di entrare in un sogno, tanto i contorni di quei giorni sono sfocati e i visi dei compagni d’avventura scoloriti e confusi dentro la nebbia di un tempo che ogni anno si addensa sempre più.

    Quello era il viaggio più lungo che avessi intrapreso fino ad allora e mai avrei supposto di ripeterlo per così tanti anni ancora e anche da solo.

    La vita è un viaggio, così dicono i saggi e gli intelligenti, che, beati loro, l’hanno soppesata e capita; poi quasi sempre aggiungono: Un viaggio che è meglio non percorrere soli.

    Invece io da tempo viaggio da solo e quasi sempre per scelta. Nella mia solitudine ho imparato a individuare il bagaglio minimo necessario alla sopravvivenza. Perciò, escluso quello a mano, tutta la mia casa si riduce a circa una dozzina di chilogrammi imbarcati in stiva, ma c’è un altro bagaglio molto più pesante da portare appresso, che nessuno può aiutarti a sollevare o trascinare. È quello composto da volti, nomi, ombre, piccole gioie, acuti dolori, immagini indelebili, sensazioni senza senso, amori falliti e fallimenti, risate spese bene, alcune volte amare, e domande, tante domande sempre in attesa di una risposta. In conclusione il bagaglio più pesante da portare appresso quando si viaggia soli è uno: se stessi.

    Insomma, un bagaglio fatto di tutta una vita che continua a chiederti chi sei.

    Certo, i saggi e gli intelligenti griderebbero subito alla banalità banale. È palese che ognuno si porti addosso la propria vita, lo affermano convinti, come se tutti avessimo avuto la stessa vita, come se fossimo tutti omologabili.

    Poi, i saggi e gli intelligenti insistono ancora dicendo che occorre lasciare il passato alle spalle, superarlo e, quale sia l’età, fare comunque progetti per il futuro. Come dar torto a cotanto buon senso e logica razionale.

    Ma ci sono vite nate diverse, che restano incollate addosso, che non voltano pagina e sono sempre presenti, perfino nei sogni fino a sconfinare nei dormiveglia. Sono quelle vite che fin dal loro inizio hanno rifiutato la dimensione della dimenticanza del passato e continuano a scrutarti dallo specchio ripetendoti sempre quella domanda persecutoria: Chi sei?, e perciò, anche se può sembrare un gioco di parole, io credo che solo avendo ben presente il proprio passato si possa crescere, costruire il futuro e poi, come disse qualcuno che non ricordo, il futuro è solo un’idea, forse un desiderio, un pezzo di ghiaccio che subito si scioglie in presente per poi immobilizzarsi in passato.

    Il viaggio è un momento cruciale che ti pone davanti allo specchio della tua memoria e ti costringe a guardare oltre l’immagine riflessa. Il viaggio, quello fatto di terre straniere, di gente sconosciuta, di nuove emozioni e nuove visioni, è una dimensione diversa da quella del turista che guarda, si compiace e prosegue, è una dimensione che obbliga a immergerti e confrontarti in una realtà che quasi ogni giorno ti mette alla prova.

    Per questo vado da solo. È troppo personale, troppo intimo questo mio rapporto col viaggio per poterlo condividere con qualcuno e ho verificato che anche la presenza di una persona amica o amata diventa condizionante e finisce per trasformare in un itinerario turistico quello che poteva e doveva essere un viaggio anche dentro se stessi.

    Così partirò da solo in questa mattina di gennaio, con il mio fedele e consunto zainetto a mano che ho riempito con abbondante ironia, sufficiente serietà, un po’ di sarcasmo e qualche fialetta di veleno. Il termometro segna i meno 5, l’orologio le 6,37 e sono in questa sala in inizio d’attesa dalle 4,30.

    Quando l​a Sfortuna ti avvicina, guardati le spalle (tratto da La malasorte non viaggia mai da sola di Angel Martínez Gutiérrez)

    Quando le cose vanno male fin dall’inizio, occorre aprire gli occhi e prepararsi al peggio; perché, come dicevano i vecchi che dell’esistere qualcosa sapevano, le disgrazie viaggiano sempre in comitiva e Madame Sfortuna ne ha lo zaino pieno.

    Per abitudine osservo chi e cosa mi sta intorno, ma questa mattina è difficile, ho troppa notte dentro, un buio che costringe a stringermi addosso le mie sensazioni e miei pensieri.

    Il fuori di me è uno sfondo che scorre con suoni e rumori lontani e attutiti. Guardo, ma non vedo. Scrivo, dunque penso. Comunque parto e questa è una delle poche cose ancora che mi rende quasi orgoglioso di me stesso.

    Decollo. Credo sia la fase più delicata dei viaggi in aereo, molto più degli atterraggi. È interessante osservare i comportamenti delle persone in questi frangenti. Quasi tutti fanno gli indifferenti, magari discorrendo, leggendo il giornale o osservando sul monitor le informazioni tecniche del volo. Poi ci sono quelli che fanno finta di dormire, ma osservandoli bene, stringono con forza i braccioli dei sedili e a qualcuno si legge in faccia la presenza della paura che svanisce solo all’avvenuta stabilità orizzontale dell’aereo.

    Dopo due ore scarse arrivo ad Amsterdam.

    Nonostante la lingua ostica, l’aeroporto non mi crea troppe difficoltà d’orientamento. Le indicazioni sono numerose e chiare, poste nel dialetto universale dei numeri, che mi permettono di trovare il gate giusto in poco tempo.

    Il problema diventa come far trascorrere le quasi cinque ore d’attesa. Far passare il tempo è una considerazione che fa ridere amaro, come se il tempo non corresse già per conto suo, senza bisogno d’incentivi da parte degli esseri umani. Certo, potrei scrivere, se avessi la testa per farlo, ma ora la sento in piena anarchia, in grado di rispondere solo agli stimoli esterni che si propongono nelle vesti di una folla eterogenea per etnia, abbigliamenti e lingue che cavalca i tapis roulant e transita incessante davanti agli occhi.

    Osservo, scruto, squadro. È più forte di me, non riesco a evitare di osservare ogni particolare di chi e cosa mi sta intorno. È una passerella delle genti del mondo, una sfilata di asiatici, di africani ed europei. Un crogiolo di lingue che incanta e confonde e che porta inevitabilmente a chiedersi come sia stata possibile la nascita di così tanti e diversi modi di comunicare.

    Domanda oziosa, ma spontanea nasce.

    La nota desolata è che nonostante la differenza di latitudine, lingua e ceto sociale, la quasi totalità di questa gente è persa dentro i loro cellulari, nei meandri di Internet, nelle banalità di Facebook o in qualche giochino per ritardati mentali.

    Da tempo sostengo che abbiamo globalizzato la stupidità!

    Ore 13, partenza da Amsterdam verso Panama City.

    Andiamo verso ovest, il sole pare non tramontare mai, lo stiamo inseguendo nel suo corso. Mi sento un novello Icaro con le sue inquietanti ali di cera, inquietanti come undici ore di Atlantico sotto i piedi. Il solo pensiero mi causa apprensione che si trasforma in timore a ogni vuoto d’aria prolungato.

    Prima parlavo di Madame. Vista l’esperienza di altri viaggi, è mia intenzione non contrarre malattie da raffreddamento varie. Come al solito il clima sull’aereo pare quello dell’ibernazione per viaggi interstellari e nonostante la felpa, il giubbotto e la copertina della compagnia avverto freddo. Ebbene, Madame ha davvero deciso di mettermi alla prova e allo scopo mi ha collocato accanto due influenzati. Sono due ragazzi spagnoli. Una lei carina e aggraziata, un lui buzzurro e supponente, della serie ormai sperimentata: Non capirò mai le donne. I due hanno tossito e sternutito per ore. Durante la notte lui, il buzzurro e supponente, non ha trovato di meglio che esibirsi in una sonora vomitata da svegliare i dormienti; nell’apposito sacchetto, certo, ma sempre schifo fa.

    Ho divorato una dopo l’altra tutte le pastiglie di vitamina C portate per le emergenze. Per ora nessun sintomo, speriamo.

    Mi seppellisco sotto la copertina usandola come filtro per l’aria. Non riesco mai a dormire sugli aerei e perciò cerco di far passare il tempo guardando i film sul monitor installato nello schienale del sedile. Scorro le opzioni che li catalogano per genere, in questa situazione non mi pare il caso di vedere pellicole angoscianti, come fanno quelli dei posti davanti che sono alle prese con disastri navali e interstellari, manca solo l’incidente aereo per entrare nella parte. Perciò scelgo quelli che paiono più leggeri e divertenti, proprio per alleggerire l’animo e distogliere la mente. Alla luce di tanta leggerezza qualche momento di sonno mi conquista e solo il cambio di pressione per l’abbassamento di quota, in vista dell’atterraggio, mi fa emergere dal mio dormiveglia.

    Arrivo a Panama City. Ore 17 locali circa, con una differenza di fuso di sei ore, poi il salto finale a Managua con partenza fissata per le 21,30 e arrivo alle 22,15 più un’altra ora di fuso.

    Ancora quattro ore d’attesa. Per fortuna l’aria condizionata dell’aeroporto è fissata a una temperatura umana e ne risento subito positivamente. Nonostante gli untori spagnoli per ora niente sternuti o altri sintomi che preannuncino raffreddature. Forse sono riuscito a far perdere le mie tracce alla dispettosa Madame.

    Rassegnato all’attesa mi siedo. Lo spettacolo è decisamente diverso rispetto ad Amsterdam. Qui l’egemonia è senza dubbio di latinos dalla pelle più o meno scura, dai tratti più o meno europei, probabilmente a seconda del numero d’incroci nel corso della storia di famiglia.

    Passano gli agenti del servizio di sicurezza, su delle specie di monopattini elettrici che li fanno sembrare più dei frequentatori di Luna Park che vigilantes; molte sono donne e rappresentano una cartina al tornasole dell’emancipazione femminile anche a queste latitudini.

    Cerco di scrivere anche se sono stanco e incapace di un solo pensiero logico, ma ho imparato che la razionalità non è la chiave di volta dello scrivere originale, anzi ne è un limite.

    C’è più verità di se stessi nelle parole sfuggite ai freni del raziocinio e lasciate alle libere associazioni d’idee, che in tutta una biografia con date, citazioni e note a piè pagina.

    Mi guardo attorno. Sono seduto sulle panchine d’attesa, di fronte c’è un bar e tra gente che beve, gente che mangia, una persona mi colpisce. È un gringo, lo si intuisce al volo, poi la sua parlata decisamente sgradevole lo conferma. Mangia, come nelle più consolidate tradizioni, torta di mele, muffin e beve una lunga brodaglia che qui hanno il coraggio di chiamare caffè. Mi basta per scrivere. Scrivo frasi e vorrei fossero poesia o almeno quella che io ritengo poesia. Cerco sensazioni esterne, quelle che colpiscono e poi precipitano fino in fondo all’anima con un tonfo tale da far emergere schizzi di parole che compongono sulla carta macchie informi che solo la poesia può imprimere e tradurre. Vorrei creare uno slogan da scrivere sui muri del cielo.

    21,30: partenza per Managua.

    L’ultimo tratto è il più breve, ma la stanchezza e la voglia di arrivare lo tramutano in un salto nel vuoto che pare non terminare mai. È buio assoluto, anche le luci sull’aereo sono spente e i vuoti d’aria si susseguono quasi regolarmente. In nemmeno un’ora c’è la sintesi di tutto il viaggio, tutto il negativo e il positivo, ma è la gioia che prende il sopravvento, la voglia di riprovare quelle vecchie e sempre nuove sensazioni e poi perché no, un po’ d’orgoglio per avercela fatta ancora una volta, per aver guardato dentro me stesso e fissato negli occhi i fantasmi delle mie paure.

    Vira l’aereo, calano i carrelli, appare Managua celata nelle luci delle sue strade, che viste dall’alto emanano un alone tinto di verde, un effetto ottico che sa di magico.

    Atterraggio all’aeroporto internazionale Augusto Cesar Sandino. Finalmente arrivato, roba da baciare la terra come i Padri Pellegrini. Nonostante la stanchezza le gambe divorano i corridoi che portano verso l’uscita, mentre è d’obbligo la preghierina al santo protettore dei bagagli; spero che lo zaino non sia sparito nelle varie e vaste foreste dei terminal, cosa già successa il cui ricordo mi riempie di ansia. Quando lo vedo arrivare sul nastro trasportatore mi viene da salutarlo come un vecchio amico. Lo raccolgo in un abbraccio e mi avvio al controllo passaporti, in poco tempo sono fuori. Dopo le temperature d’ibernazione degli aerei, aria calda di Nicaragua e Adriano che mi aspetta.

    Sono partito ieri alle 6,30 di mattina, arrivo alle 23,30 dello stesso giorno, ma con le sette ore in più del fuso orario.

    Quando va male, chiudi gli occhi e pensa che potrebbe andare anche peggio (tratto da Dietro l’angolo: la realtà di Óscar Pineda Cruz)

    «Ciao Adri, come va?»

    Adriano è il responsabile dell’Associazione dalla metà degli anni Novanta e senza dubbio è quello che più a lungo ha ricoperto questo ruolo. Insieme abbiamo fatto alcuni campi di lavoro a partire dal lontano 1992, poi lui ha deciso di stabilirsi in Nicaragua ed è diventato il referente per tutti i volontari che partecipavano alle brigate di volontariato nel paese.

    Carico il bagaglio sulla camioneta che porta ancora la scritta dell’Associazione e mi risorge alla memoria la prima volta di quel gesto, antico ormai di quasi trent’anni.

    Era la mia prima brigata di lavoro, la prima esperienza in un paese che aveva fatto la Rivoluzione e che sarebbe stata l’ultima rivoluzione armata del secolo.

    Le brigate allora contavano minimo una dozzina di componenti e se ne succedevano varie nel corso dell’anno. Ognuna aveva un progetto preciso da realizzare, per il quale erano

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