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Le misturanze: Dormiveglia irlandese
Le misturanze: Dormiveglia irlandese
Le misturanze: Dormiveglia irlandese
E-book221 pagine3 ore

Le misturanze: Dormiveglia irlandese

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Info su questo ebook

Ester nasce in una famiglia povera ma dignitosa. Ha una madre volitiva, un padre supplente alle scuole superiori che sogna la ribalta della ricerca universitaria

due zii benestanti che non mancano di offrirle il loro appoggio economico, e uno zio più anziano, imprevedibile, estroso e follemente innamorato dell’Irlanda e della sua musica tradizionale.

Divide la sua vita tra la modesta casa di Roma e le visite periodiche alla sontuosa villa degli zii, nella Bassa Tuscia, conducendo una quotidianità apparentemente simile a quella di tante altre bambine.

Ma, anno dopo anno, un tarlo sotterraneo, facile da avvertire ma difficile da spiegare, minerà il suo rapporto con un membro della famiglia, fino a trasformarlo in un’ostilità strisciante, non dichiarata e non controllabile.

Il mondo andrà avanti per la sua strada, con il consueto spettacolo di nascite, crescite e addii alla vita, ma Ester ne avvertirà solo il lato sfuggente, fatto di appigli scivolosi e certezze che si disgregano di fronte a una realtà in continua evoluzione.

La voce di un anziano, però, sa scavare sentieri profondi. Arriva dove gli occhi non vedono, offre punti di riferimento a chi, pur cercandoli, non li ha mai trovati e, se ascoltata con attenzione, sa come conferire forma a quella lunga e personale ricerca dell’identità che è la vita.

Ormai adulta, in un mondo agitato e sofferente, Ester vi si affiderà e, seguendo le sue bizzarrie, troverà il modo di confrontarsi con le corde più riposte dell’animo umano, quelle che conoscono solo il silenzio e l’immobilità; e solo in presenza di eventi straordinari accettano di vibrare, rilasciando così il loro suono.
LinguaItaliano
Data di uscita15 feb 2021
ISBN9788868673369
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    Anteprima del libro

    Le misturanze - Luca Ragazzini

    Down

    Capitolo I

    La corsia era dipinta di bianco. I soffitti, le porte, i corridoi, tutto era bianco, e anche il pavimento, che pure concedeva nervature più ambrate, tendeva verso quella tonalità. Seguivano poi il giallo e il verde, entrambi in tinta pastello, che correvano in strisce lunghe e sottili sulle pareti, ad altezza uomo. Nelle lunghe pause di silenzio, gli occhi viravano sul bianco e vi si immergevano fino a perdersi. Quando le voci di Vincenzo o Ilaria risuonavano stizzose, invece, erano quelle strisce colorate a calamitare gli sguardi.

    «Io penso che, il più delle volte, le belle frasi nascondano grandi sciocchezze. Provate a raccontarlo a chi fugge dalla propria terra, a chi cerca con ogni mezzo di trovare un posto in cui vivere, ecco, provate a raccontarlo a loro che la vera bellezza di un viaggio sta nel viaggio stesso e non nel luogo da raggiungere, e poi ditemi cosa vi rispondono».

    Vincenzo parlava spedito, a voce alta, e le smorfie che riceveva in risposta, lungo la corsia dell’ospedale, servivano solo a caricarlo di nuova vitalità. «Da che mondo è mondo, i viaggi servono per spostarsi, per andare da un luogo a un altro, e i momenti più belli sono sempre stati due: quello in cui si raggiunge la destinazione e quello in cui si ritorna a casa, quando si ha la fortuna di averne una, s’intende. Quanto al viaggio in sé non nego che a volte possa risultare piacevole, ma è un dato di fatto che, nel corso della storia, l’uomo si sia ingegnato in ogni modo per renderlo il più breve possibile».

    Ilaria fremeva. Fino a quel momento si era imposta di non eccedere, ma dopo quest’ultima osservazione non riuscì a trattenersi. Era da una sua sortita – «Un bambino che viene al mondo è l’inizio di uno splendido viaggio e, come tutti sappiamo, la parte più bella di un viaggio non sta nel luogo da raggiungere, ma nel viaggio stesso» – che Vincenzo aveva tratto il pretesto per il proprio intervento, e ora si sentiva in dovere di replicare. «E allora la vita cos’è se non un imprevedibile viaggio?» chiese piccata, «e come puoi dire, in questo caso, che la cosa più importante sia il luogo da raggiungere? Quale sarebbe questo luogo?».

    «Ma quello dove riposano i morti ovviamente» rispose l’uomo, «possibile che alla tua età tu non lo abbia ancora capito? Ora che ci penso, c’è un’antica…».

    «Zio, per favore, almeno oggi…» lo interruppe Ines, preoccupata sia dalla piega che il discorso stava prendendo sia dagli occhi di sua sorella, rossi e inviperiti dal momento in cui lo zio aveva pronunciato le parole alla tua età.

    Vincenzo tentennò il capo, poi, come faceva sempre quando era Ines a porgli una richiesta, non aggiunse altro. Si passò tra le dita il tweed del completo indossato per l’occasione e ne rimase soddisfatto. Quando spostò l’attenzione sulle proprie mani, però, le trovò desolatamente vuote. «Ho dimenticato il regalo» disse allora a bassa voce, guardando Ines.

    «Non è importante, zio» rispose la donna con un sorriso.

    Sotto le luci al neon del corridoio, le voci tornarono distese. Quando una porta si apriva, i volti si giravano tutti assieme, come sugli spalti dei campi da tennis, poi tornavano in posizione di attesa. Non potendo costruire ipotesi sul sesso del nascituro – si sapeva già da alcuni mesi trattarsi di una bambina – né sul suo nome, Ester, che faceva mostra di sé su completini e cappellini di cotone rosa, le conversazioni languivano e, se non fosse stato per le scaramucce tra Vincenzo e Ilaria, il bianco sarebbe stato l’unico sfondo di quella silenziosa mattinata.

    Da una delle grandi finestre del corridoio, Guido scrutava il cielo a pecorelle: uno strappo di turchese limpido, un banco di nubi, un altro pezzo di sereno, un secondo strato di nuvole, e così via. Una disposizione geometrica sorprendente, nella sua spontaneità. La notizia della perfetta riuscita del parto, comunicata circa un’ora prima, non sembrava averlo rasserenato, né il suo volto si fece meno teso quando Ines gli si avvicinò. «Perché quest’aria preoccupata?».

    «Perché il difficile comincia adesso».

    In fondo al corridoio, Lorenzo sfogliava le pagine di un quotidiano. L’uomo, in realtà, leggeva distrattamente. Osservava di sottecchi sua moglie Vanessa e, di tanto in tanto, si informava se qualcuno desiderasse un tè o un caffè nel minuscolo bar interno all’ospedale.

    Camminare per il corridoio in linea retta era difficile quella mattina, e non solo per le lunghe file di sedie che, disposte irregolarmente a destra e a sinistra, restringevano e rendevano sghemba l’ala dell’ospedale. A eccezione di Vincenzo, tutti avevano portato in dono mazzi di fiori, capi d’abbigliamento e accessori per la casa e, una volta posati a terra, i doni avevano trasformato l’area in un tortuoso percorso a ostacoli. I regali di Vanessa, i più ingombranti, costituivano da soli i due terzi del totale.

    Tutti aspettavano, e il silenzio sembrava la cornice naturale per assorbire tensioni e imbarazzi. Per questo, quando arrivò quel grido, nessuno si sentì preparato a riceverlo. Era un grido di donna, un grido lungo e disperato proveniente dalla sala delle neo-mamme, e non trovava riscontro tra i colori dell’ospedale. Né il bianco che avvolgeva i corridoi, né il giallo o il verde pastello, che ne interrompevano la continuità, potevano fare da sfondo a un grido del genere. Per rappresentarlo ci sarebbe voluto un colore diverso, un rosso vivo magari, una disordinata pennellata di rosso buttata a casaccio sul muro, in un punto qualsiasi. Ma sulle pareti non c’era niente del genere, e così gli occhi, dopo aver inutilmente cercato un appiglio, si fecero increduli e vuoti. Ines si portò la mano alla bocca, Ilaria aggrottò le ciglia, Vanessa e Lorenzo si fissarono in silenzio. Guido, nonostante quell’urlo non ricordasse il timbro di Patrizia, raggiunse con determinazione la porta chiusa della sala e sembrò sul punto di tirare dei gran pugni. Ma alla fine si limitò a bussare con una certa insistenza, chiedendo informazioni a chiunque passasse di lì. Seguirono un paio di minuti cupi e nervosi, poi si sentì il pianto di un neonato e, poco dopo, la porta si aprì. Un medico anziano si affacciò sull’uscio e, rassicurando tutti, spiegò come un bimbo nato poche ore prima avesse avuto dei problemi a causa di un rigurgito – l’urlo ovviamente era quello di sua madre. C’era stato qualche momento di comprensibile preoccupazione, ma il bambino non aveva corso alcun reale pericolo. Un’esperta infermiera si era occupata del piccolo e, senza grandi problemi, aveva rimosso il grumo, permettendo alla respirazione di tornare regolare. «Potete entrare, ora. La signora Bertelli vi aspetta», concluse il dottore.

    La prima a muoversi fu Vanessa. Si avvicinò al medico e, con un sorriso, chiese se la bimba stesse effettivamente bene. «Sì, certo, benissimo», le fu confermato. I primi ad avvicinarsi a Patrizia, invece, furono Ines e Ilaria, le sue sorelle, e Guido, suo marito. Patrizia, sul letto, aveva fatto del suo meglio per sollevarsi dalla posizione distesa, ma c’era riuscita solo in parte. Grazie all’aiuto delle infermiere, aveva trovato il tempo di lavarsi e rassettarsi i capelli, ma si sentiva stanchissima, e specialmente ora, che per la prima volta teneva in braccio Ester, avrebbe rinunciato volentieri a quella processione.

    «Stai tranquilla, restiamo solo un momento» le disse Ines sottovoce, «lo sappiamo che sei stremata».

    «Ma è bellissima!» esclamò Ilaria dopo aver dato un’occhiata all’esserino che si muoveva a piccoli scatti nel fagotto bianco che la donna stringeva a sé.

    «Sì, davvero bellissima» convenne Ines.

    Vincenzo entrò per ultimo e, vedendole l’una accanto all’altra, pensò che le tre sorelle realizzassero una singolare corrispondenza a scalare tra l’età e il colore dei capelli, come se avessero raggiunto un qualche tipo di accordo: c’era Patrizia, trentaquattro anni e lunghi capelli corvini, seguiva Ines, di quattro anni più giovane, con morbidi capelli castani di media lunghezza, e chiudeva la fila Ilaria, ventotto anni appena compiuti e un curatissimo caschetto biondo. L’uomo si era tolto il cappello e, schiacciato sul muro più lontano, non trovava le parole per giustificare il mancato regalo. Ines, molto discretamente, fece presente il problema alla neo-mamma, che con un filo di voce disse: «Non preoccuparti, zio. La tua presenza è già un bel regalo per me».

    Lorenzo e Vanessa ‒ i Franchini, una decina d’anni in più dei Bertelli ‒ si avvicinarono al letto lentamente. Alto, magro e ossuto il corpo di lui, morbido, pieno e rotondo quello di lei, esibivano insieme un’opposizione perfetta di posture e tratti somatici, in cui non era difficile scorgere i meccanismi di un miracoloso gioco a incastri. Lorenzo, cugino di Guido, fece un cenno di approvazione in direzione della bimba ed esclamò: «Ti assomiglia: ha i tuoi occhi». Vanessa, invece, incurante delle raccomandazioni in senso contrario del marito, prese a scartare i regali, cominciando dalle vestaglie per Patrizia per finire con i primi giocattoli per la culla di Ester. Poi, dopo essersi sentita ripetere: «Non sappiamo proprio come ringraziarti» da entrambi i Bertelli, passò a elencare i pregi dei doni più importanti, quelli che, proprio in quei giorni, stava facendo consegnare e montare direttamente a casa della coppia.

    La sala era piuttosto grande, ma ospitava solo quattro letti, occupati da mamme con neonati. Chi con discrezione chi con un po’ d’invadenza, tutti si guardarono intorno alla ricerca dell’autrice del grido di poco prima, ma nessuno trovò indizi a riguardo. Le donne, in quel momento, erano serene e sorridenti e, qualunque cosa fosse successa una ventina di minuti addietro, sembrava definitivamente conclusa.

    Vincenzo chiese di tenere qualche istante in braccio la piccola e Patrizia fu lieta di accontentarlo. Lo zio strinse il fagottino a sé e, dondolando il corpo, accennò un motivetto in una lingua aspra e gutturale, ma incredibilmente melodica al canto.

    Nel frattempo un timido: «Permesso», pronunciato sull’uscio della stanza, annunciò l’arrivo dei genitori di Patrizia. Erano arrivati in ritardo, e ora, mentre le facevano un cenno con la mano, i loro occhi mortificati sembravano chiedere perdono.

    Vincenzo terminò il brano, alzò la piccola al cielo e si riavvicinò alla nipote per riconsegnargliela. In quel momento, però, la donna gli afferrò un braccio e, con un tono di voce che solo lui e il marito che le sedeva accanto potevano udire, disse: «Avete sentito quel grido, poco fa? È stata quella giovane bionda, alle vostre spalle. Il suo bambino stava soffocando e, dopo averle provate tutte, i medici non sapevano più cosa fare. Presi dal panico avevano cominciato ad accusarsi a vicenda, e per il piccolo, che stava già cambiando colore, non sembrava esserci più niente da fare. Poi, a un certo punto, un’infermiera lo ha preso in braccio, lo ha capovolto e ha iniziato a usare la mano destra come un battipanni, colpendolo alla schiena, finché quello non ha sputato tutto e ha ripreso a respirare. Per fortuna è andata così, c’è mancato davvero un pelo!».

    Capitolo II

    A causa di una leggera anemia post-partum, Patrizia tornò a casa una settimana dopo e, di fronte alle tante novità, la sua prima reazione fu un silenzioso timore reverenziale. La cosa che saltava subito all’occhio erano i tanti mobili fatti costruire su misura per il soggiorno, la camera da letto e la cucina, ma ciò che si avvertiva a un esame più approfondito era la diversa disposizione degli spazi e i principi di razionalizzazione che l’avevano guidata. La piccola casa romana del Casilino, in cui lei e Guido vivevano in affitto fin dal periodo del matrimonio, non pareva più la stessa.

    «Sembra perfino più grande» disse la donna con un filo di voce.

    «Già, che ti avevo detto?» rispose Guido, che con quei mobili conviveva già da un paio di giorni, «ti piace?».

    «Sì, certo, come può non piacere un arredamento del genere? Ma avranno speso una fortuna».

    «Vanessa e Lorenzo non hanno problemi economici, lo sai, e quando si tratta di fare un regalo la cosa diventa particolarmente evidente».

    «E tu questo lo chiami un regalo?».

    L’uomo ci pensò un po’. «Be’, hanno fatto le cose in grande, ma lo sai come sono. Volevano esprimerci la loro vicinanza per la nascita di Ester, e non hanno badato a spese».

    Patrizia non rispose. Entrò in cucina e ammirò il nuovo mobilio in abete laccato, in cui erano incassati frigorifero, forno, lavastoviglie e cassetti a scomparsa: una vera novità per il design del 1977. Passò in camera da letto, dove ora troneggiava un grande e alto armadio in radica di noce – sei ante interamente lucidate a mano, senza spruzzatori meccanici, spiegava il certificato di garanzia ‒, e nel soggiorno, dove lasciò scorrere i polpastrelli sui nuovi mobili in palissandro: il tavolo contornato da sei sedie, che occupava la parte centrale della sala, e la vetrina-libreria in cui era stato addirittura collocato un TV color – la Rai aveva inaugurato le prime trasmissioni a colori proprio nel febbraio di quell’anno. Il televisore in quel momento era acceso e, impostato al minimo del volume, trasmetteva un documentario sui predatori della savana.

    «Il giorno della consegna» disse Guido, «insieme agli operai c’era anche Vanessa, che aveva insistito per soprintendere alle operazioni di montaggio. E così mi sono dovuto sorbire un lungo discorso sulla qualità del palissandro e degli altri legni duri rispetto ai semiduri e ai teneri. Ormai ho una certa erudizione a riguardo. Sei interessata ai dettagli?».

    La donna fece segno di no. Guido allora prese in braccio Ester e, con l’altra mano, guidò sua moglie alla scoperta dei particolari più nascosti del nuovo arredamento. «Sono solo mobili» concluse, «niente di più. La nostra vita non cambierà per questo».

    Patrizia lo guardò con tenerezza. «E con Lorenzo? Come va il vostro lavoro?».

    L’altro abbozzò un sorriso. Lui e il cugino, da sempre appassionati di discipline storico-religiose, collaboravano spesso alla realizzazione di progetti e pubblicazioni. «È lui a tirare fuori le idee più interessanti, lo sai. Io mi limito ad andargli dietro».

    La donna gli mise una mano sulla bocca. «E tu sai che non voglio sentire questi discorsi. Lui non è migliore di te e neanche più preparato. Ha solo le conoscenze giuste e una certa scaltrezza nel proporsi, nient’altro. E poi, con la moglie che si ritrova, non deve preoccuparsi di portare i soldi a casa. Qui invece è grazie al tuo lavoro se viviamo tutti».

    «Sopravvivevamo a malapena in due, figuriamoci ora che…».

    Patrizia gli fece nuovamente segno di tacere. Gli sussurrò: «Andrà tutto bene» e lo baciò. «E i nostri vecchi mobili?» chiese infine con un moto di smarrimento.

    «Non è stato buttato niente, non temere. Ho sistemato tutto in cantina».

    Seguì un attimo di silenzio. Guido accarezzò il viso della moglie e le chiese se era stanca, e lei rispose di sì. Si separarono con un sorriso. La donna andò a riposare, sistemò Ester sul lato destro del letto e, dopo aver constatato la comoda morbidezza del nuovo materasso, si addormentò. Guido esaminò le provviste della cucina, compilò una lista dei prodotti mancanti e uscì per la spesa. Tornò dopo un’ora, con tre buste colme di cibo e pannolini, ma entrando in camera da letto non trovò nessuno. Perlustrò sorpreso ogni angolo dell’appartamento, esclamando: «Patrizia!» a voce sempre più alta e, quando la sorpresa si trasformò in preoccupazione, uscì sul balcone. Trovò vuoto anche questo. Guardò giù, nel punto esatto in cui i corpi di una donna e una neonata sarebbero potuti finire se fossero precipitati nel vuoto, ma l’unica immagine che inquadrò fu quella del portiere, che fischiettando innaffiava le aiuole. Rientrò allora in sala e si impose un comportamento più razionale. La TV, rimasta accesa, rimandava adesso le sequenze di una manifestazione per i diritti civili: si vedevano bandiere rosse e donne che mimavano con le dita la forma del proprio organo sessuale. L’uomo si sedette, afferrò l’agendina telefonica e trovò i numeri delle sorelle della moglie. Al momento di comporre quello

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