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La rocca di carta
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E-book250 pagine3 ore

La rocca di carta

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Info su questo ebook

Tre ragazzi, tre amici, tre storie. Le vite di Pietro, Melo e Giovanni tornano a intrecciarsi a trent'anni, dieci anni dopo essersi salutati. Il motivo? Le nozze di uno dei tre, a Cefalù, luogo meraviglioso nonché sfondo su cui i tre ragazzi hanno costruito la loro amicizia. 
Durante quella settimana estiva, succede però qualcosa che fa saltare il banco: un morto ammazzato. 
"La rocca di carta" è un romanzo che sembra un giallo, ma anche un racconto introspettivo di tre personaggi diversi tra loro, trascinati dagli eventi a guardarsi allo specchio.
 
LinguaItaliano
Data di uscita4 nov 2019
ISBN9788835327431
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    Anteprima del libro

    La rocca di carta - Salvatore Giambelluca

    bagagliaio.

    Prima parte

    Arricàmpati

    Pietro

    Quando a Pietro vibrò il cellulare con impresso un numero sconosciuto, a Milano pioveva e faceva un cazzo di freddo. Era febbraio, Pietro aveva da poco ceduto il suo posto sul tram ad una vecchietta e il guanto di lana non gli permise di rispondere alla telefonata.

    Qualche ora più tardi, mentre era seduto in un ufficio molto bianco e privo di mobilia, quel numero sconosciuto tornò a fargli vibrare il cellulare.

    «Scusate», disse allontanandosi dal gruppo di ragazzi insieme a lui riunito per scrivere la prossima serie televisiva di successo.

    Una stanza e una sigaretta dopo, rispose.

    «Ma per parlare con te a chi minchia devo chiamare?!»

    «Chi parla?»

    «Non riconosci nemmeno più la mia voce, complimenti!»

    Pietro esitò alcuni secondi prima di poter dire con certezza che quella fosse la voce di Giovanni, un tempo il suo migliore amico.

    Pietro De Gregorio aveva trent’anni da poco compiuti, era siciliano e viveva a Milano da quando aveva deciso che, volendo, l’università poteva pure farla fuori. Faceva lo scrittore, almeno così dicevano gli altri. Lui non amava definirsi, nemmeno davanti alla dipendente del comune che alla voce professione sulla carta d’identità aveva lasciato un freddo e generico libero professionista.

    Il primo e unico romanzo di Pietro De Gregorio si intitolava Le cose che non ho, pubblicato da una prestigiosa casa editrice piemontese. Aveva venduto più di centomila copie. «Sì, ha avuto un discreto successo», dichiarava lui imbarazzato quando qualcuno glielo ricordava. Aveva ricevuto diversi premi letterari per esso, la maggior parte dei quali abbastanza sfigati, ma uno però molto importante: il Campiello. Avete presente quello che danno al Palazzo Ducale a Venezia? L’ha vinto anche un certo Primo Levi, per dire.

    Passati quattro anni da quel romanzo, Pietro De Gregorio si era messo a scrivere per giornali, blog, e ultimamente anche per la televisione. Tutte cose che lo distraevano dalle continue richieste di un secondo libro.

    A Milano, divideva l’appartamento con Isabelle, una fotografa francese di origini magrebine che conosceva da poco. Una ragazza carina, intelligente, con il culo sodo. L’aveva conosciuta durante un servizio fotografico a Parigi dove lui si trovava per intervistare un’attrice famosa. L’aveva colpito una brillante chiacchierata sul cambiamento climatico oltre a quelle tre cose scritte sopra. Nonostante ciò, i due non si consideravano una vera e propria coppia, lei viaggiava spesso per lavoro e lui leggeva troppi libri; in compenso andavano al cinema spesso e facevamo molto l’amore. Prima dell’arrivo dell’estate la loro storia era finita. Lei gli disse che aveva ricevuto un’offerta che non poteva rifiutare da Barcellona, prese lo spazzolino e le sue tante scarpe salutandolo con un freddo bacio sulla guancia. Pietro non disse nemmeno una parola, fece solo un lungo sospiro di sollievo quando sentì sbattere la porta.

    «Devi esserci. Non voglio sentire scuse. Hai quattro mesi di tempo per organizzarti, vedi di non fare scherzi e arricàmpati», gli aveva detto Giovanni in quella inaspettata telefonata di febbraio.

    Il treno per la Sicilia partì il 23 giugno. Diciotto ore di viaggio in compagnia di una coppia di vecchi che gli rivolsero la parola solo per una domanda: «Ma lei è maritato?»

    Nessuno sapeva del suo arrivo, a parte Giovanni che lo accolse alla stazione come un padre accoglie il figlio che torna dal servizio militare.

    «Mi pari più alto, più muscoloso, più in forma.»

    «Grazie. Pure tu sei diverso, sei più invecchiato... Si vede che a Milano si vive di merda. Pure questa barba, ma cos’è? Minchia mi pari Nanni Moretti.»

    Quello uscito dalla bocca di Giovanni voleva essere un commento dispregiativo, a Pietro suonò come un complimento.

    «Allora? Com’è andato il viaggio?»

    «Una merda», fu la risposta lapidaria di Pietro.

    «Ci credo. In aereo a quest’ora saresti in Canada. Ma ancora con la paura di volare? Ma poi toglimi una curiosità, ma con tutte le conferenze che fai, le presentazioni, insomma le cose che fate voi intellettuali... non ti capita mai di dover prendere un aereo? Una volta che magari sei costretto.»

    «No.»

    «Non ci credo. Cioè ti chiama il tuo agente, ti dice che entro sera devi essere a Bari. Da Milano. Tu che fai?»

    «Io non ce l’ho un agente. E comunque faccio la valigia e prendo il Frecciarossa per Roma, poi un altro treno e se arrivo in anticipo vado pure a vedere il Teatro Petruzzelli.»

    Appena messo piede in Sicilia, a Pietro venne una fame che non sentiva da anni, chiese a Giovanni di fermarsi da Cangelosi, il pastificio più buono del paese e forse dell’intero pianeta: un cartoccio pieno di una ricotta stellare lo fece realmente sentire a casa.

    «Che bontà!», esclamò Pietro con aria beata divorando quel dolce che non assaggiava da troppo tempo, «ne mangerei almeno tre.» In realtà tre cartocci se li fece incartare e li portò al negozio del padre, dove Giovanni lo lasciò.

    A Roberto De Gregorio in paese tutti lo chiamavano Betto ’u dutturi, per via del suo talento nel riparare le cose. Betto era un restauratore, un restauratore pure parecchio bravo.

    Da quarant’anni, Betto aveva un negozio in una stradina di Corso Ruggero a Cefalù. Un negozio che chiunque passava si fermava a visitare come fosse un museo.

    Il vecchio De Gregorio lavorava mobili, quadri, strumenti musicali e qualsiasi oggetto meritasse di restare in vita. Il rapporto con Pietro si poteva considerare il classico rapporto tra padre e figlio al Sud: parole poche, bacio sulla fronte dopo la prima comunione, qualche schiaffo da ragazzo, una formale stretta di mano dopo la laurea.

    Betto De Gregorio di anni ne aveva quasi sessantasei e da quando si era rotto il braccio sinistro, il restauratore continuava a farlo a ritmi più lenti. Provò a trovare un aiuto, qualcuno che avesse la passione per il restauro, che avesse talento, ma dopo due mesi rinunciò e con un «questi ragazzi non sanno fare una benamata minchia» decise che era meglio continuare a lavorare da solo.

    «Buongiorno», esclamò Pietro non appena Betto aprì la porta del negozio. I due si guardarono restando impassibili. Betto non disse niente, un po’ perché sorpreso e un po’ perché che minchia avrebbe dovuto dire? Appoggiò timidamente la mano sul viso di Pietro e lo abbracciò come si abbraccia un figlio che non si vede da dieci anni.

    «Di chi è questo quadro?»

    «Di un certo Tonino Balistreri. Lo vedi qua?», chiese Betto indicando una parte del dipinto, «questi sono tutti colori che non sono buoni. Questi vogliono fare i pittori senza sapere che la tela dev’essere trattata bene, no accussì, inchiappata

    Anni senza vedersi e il primo argomento trattato dai De Gregorio fu un dipinto.

    «Mai sentito questo nome», fece Pietro con uno sguardo di attenzione rivolto alle tante opere che circondavano la stanza.

    «E certo che non l’hai mai sentito, questo nella vita aggiustava i freni dei treni, ora si inventò pittore.»

    Betto era sempre abbastanza critico verso gli artisti. Li considerava tutti non all’altezza, specie quelli che lui definiva improvvisati.

    «Senti, ma come sei venuto?», chiese Betto distogliendo per un attimo lo sguardo dal dipinto di Tonino Balistreri e rivolgendolo al figlio, «tua madre non mi ha detto niente.»

    «Sono venuto in treno. La mamma non ti ha detto niente perché non lo sapeva. A proposito, dov’è? Le vorrei fare una sorpresa.»

    «Pietro per piacere niente sorprese ché tua madre non le regge, lo sai...»

    L’ultima sorpresa per Ludovica De Gregorio era stata una festa per il suo cinquantesimo compleanno: amici e parenti sbucarono fuori da ogni angolo della casa appena lei accese la luce del salotto. La dovettero portare di corsa al pronto soccorso: quasi infarto.

    «Avrò tatto, tranquillo. Piuttosto, dov’è?»

    «Sinceramente non lo so», disse Betto passando il pennello in un punto di rosso che gli fece storcere il naso. «Dovrebbe essere a casa, però forse ora che ci penso doveva andare da tua sorella perché c’è la grande con la febbre.»

    C’era anche una sorella nella vita di Pietro De Gregorio che si chiamava come sua nonna: Lucia. Più piccola di un paio d’anni, la nica era sposata con Gigetto, un brav’uomo bassino che di mestiere faceva il cuoco e che aveva un ristorante nei pressi del molo. Avevano due bambine, Arianna e Ludovica, di quattro e sei anni, bionde e magre e molto rompicazzi, come la madre.

    Tra Pietro e Lucia c’era un rapporto conflittuale. Lui sempre stato un’anima con poche regole: scapolo a trent’anni, amante dei viaggi in giro per il mondo, il telefono più spento che acceso, la barba che accorciava solo prima di un evento importante, le parole mai abbastanza e le sigarette sempre troppe. Lei invece la maestrina delle elementari, la ragazza laureatasi con lode in Filosofia, la mamma ansiosa, salutista, che faceva pilates e controllava il profilo del marito sui social network. Del fratello inizialmente pensava fosse gay, poi un ingrato, una persona poco seria nei confronti della vita e del genere femminile, e infine un pazzo, perché solo un pazzo poteva pensare di campare scrivendo. In compenso il libro del fratello le piacque, pur non ammettendolo mai.

    «Niente di serio, spero», continuò Pietro riguardo a Ludovica.

    «No, fesseria, una semplice influenza, un ti preoccupàri. Comunque non gli fare prendere colpi a tua madre, ché quella sai com’è.»

    «Stai tranquillo.»

    «Ah Pietro!» esclamò Betto prima che il figlio uscisse dal negozio, «sei qua per il matrimonio di Giovanni, vero?»

    Pietro fece di sì con la testa e Betto riprese a lavorare al quadro di Tonino Balistreri con la faccia incupita.

    Casa De Gregorio si trovava in via Umberto I, in un viale alberato. Pietro ci arrivò a piedi, trascinando la valigia e la tracolla dove teneva il suo portatile. Arrivò davanti alla porta di casa con la lingua a penzoloni. Suonò il campanello diverse volte sperando che qualcuno gli aprisse, poi si ricordò di avere le chiavi.

    In casa non c’era nessuno. La prima cosa che fece fu bere dell’acqua ghiacciata da una di quelle bottiglie di vetro col tappo meccanico. Poi fece un giro notando come tutto fosse come lo aveva lasciato. Quindi salì al primo piano, dove c’era la sua camera. Aprì la porta lentamente. Anche lì dentro tutto era come una volta: il poster di Michael Jordan, quello di Alessandro Del Piero che fa la linguaccia dopo il gol-scudetto su punizione all’Inter, il primo computer. Sfiorò la libreria che conteneva tutte le storie lette da ragazzo, tra cui la prima in assoluto: I viaggi di Gulliver. Spalancò la finestra, fece entrare un po’ di luce, si gettò sul letto e si lasciò andare ad un sonno profondo.

    «Zingaro!» A svegliare Pietro fu un urlo di sua madre che gli saltò addosso riempiendolo di baci. «Così si arriva? Senza dire niente? Hai mangiato? Mi pari sciupato. Guarda che baaarba, se ti vedesse tua sorella...»

    Pietro non fece nemmeno in tempo ad aprire gli occhi che fu tempestato dalle parole della madre.

    «Ciao ma’...», biascicò, «non mi sembri tanto sorpresa di vedermi.»

    «Certo, ma ti pare che mio figlio torna in Sicilia dopo dieci anni e io non lo so?»

    «Chi ha parlato?»

    E chi doveva parlare? Le fonti potevano essere tante. Il più indiziato era lo stesso Giovanni, che panza-lenta com’era, non avrebbe tenuto per sé nemmeno per due minuti il merito di aver riportato Pietro De Gregorio a Cefalù.

    «E chi deve parlare De Gregò... Qua tutti parlano e nessuno dice niente», rispose mamma Ludovica alzandosi dal letto e sistemando la tenda della camera. «Senti, io vado a fare un poco di pasta, ti va? Stamattina ho fatto il ragù.»

    «E vai, vai. Ma sicuro tuo è il ragù o l’hai comprato precotto?» domandò Pietro provocandola.

    «Vedi di tornartene a Milano, vedi…» reagì piccata la madre scendendo le scale. «E spicciati. Prima però lavati che feti come un pesce marcio.»

    «Ti devo confessare che non pensavo saresti sceso per il matrimonio di Giovanni.»

    «Nemmeno io lo pensavo.»

    «Non sei venuto nemmeno quando tuo padre si è rotto il braccio…»

    «Ti ricordo che allora mi è stato più volte detto che non serviva che venissi.»

    «Nemmeno quando è nata Arianna serviva che venissi. Comunque hai fatto bene. Siete cresciuti insieme, l’ho visto crescere a Giovanni. In paese non si parla d’altro da mesi. Ed è stata una scusa per passare un po’ di tempo in famiglia.»

    Pietro non pranzava con sua madre da molto tempo. A differenza del padre, lei almeno un paio di volte l’anno andava a Milano per accertarsi che il figlio vivesse in condizioni dignitose. Ma tra i tanti difetti di Pietro non c’era quello del vivere in disordine: la cucina, la pulizia e il riassetto generale facevano parte del suo modo di essere. Perché, al contrario di quello che si pensa sugli scrittori o sugli uomini d’arte, a Pietro De Gregorio vivere bene piaceva.

    «Aspettiamo Betto o pranziamo da soli?»

    «L’ultima volta che tuo padre mi ha degnato della sua presenza a pranzo tu eri picciriddru», rispose Ludovica impiattando. «Quello se ha cose da fare non si smuove dal lavoro, lo sai. Se non gli porto da mangiare io pure di fame mi muore. Siediti e mangia, che sciupato sei.»

    Pietro non era affatto sciupato, anzi aveva pure qualche chilo in più. Da un anno si prometteva di iscriversi in palestra ma credeva che la piscina fosse un’attività fisica più nobile.

    «Senti una cosa, il vestito ce l’hai?», domandò Ludovica arrotolando le tagliatelle.

    «No.»

    «E come pensi di andare al matrimonio? In jeans?»

    «Ne prenderò uno nei prossimi giorni.»

    La pasta era ottima, il ragù di Ludovica come al solito delizioso. Pietro si leccò i baffi e fece il bis. Mangiò anche il secondo: un’orata al forno.

    «Il tiramisù non lo vuoi?»

    E vuoi non mangiarti il tiramisù di tua madre? Quello fatto con i savoiardi, il caffè giusto, la crema perfetta, che a Milano non trovi nemmeno da uno chef stellato?

    «Altro che vestito...», esclamò Pietro dopo una porzione di quel dolce che tanto gli piaceva. «Adesso liberami che non posso stare tutto il tempo seduto a mangiare.»

    «E chi ti tiene? Guarda potresti andare a trovare tua sorella, quella a quest’ora sarà a casa.»

    «A proposito di mia sorella, volevo parlarti di una cosa: la casa-al- mare è libera?»

    «Non lo so, Lucia se ne occupa, lo sai. Ma perché ti interessa?»

    «Pensavo di starmene là in questi giorni.»

    «Ma perché qua non puoi stare? Non manca niente, la tua camera è come l’hai lasciata.»

    «Lo so che non manca niente ma’, è che avrei preferito stare là, da solo, e magari lavorare.»

    «Sei in vacanza e devi lavorare? Ma poi come arrivi a Santa Lucia? Avresti bisogno di una macchina...»

    «Vabbè quello non è un problema, avevo pensato alla Vespa di papà.»

    «Eeeeh, la Vespa di tuo padre forse manco s’adduma più. E’ in garage da anni...»

    «Ma che dici? E lui come ci va a lavoro?»

    «Con la bicicletta. Il dottore gli ha detto che gli fa bene, e quello ogni mattina pedala, pure d’inverno.»

    La Vespa 50 special di Betto De Gregorio era un gioiello: anno di immatricolazione 1978, verde militare, pedalino della frizione sulla pedana e chilometri a cinque zeri sulle spalle. Oltre a segnare la giovinezza del vecchio De Gregorio segnò l’infanzia di Pietro, che appena compiuti quattordici anni se ne impossessò. Diede persino il primo bacio su quella Vespa, ad Antonella ‘a murbusa: un pomeriggio difficile da dimenticare.

    Pietro si recò in garage con l’aria di un padre che ritrova i figli abbandonati. Sollevò il telone con forza e, con tutta la cautela di cui disponeva, issò il cavalletto e la lasciò sul marciapiede, baciata dal sole. Mentre le passava la mano sul sellino le disse che ci avrebbe pensato lui a lei, e che sarebbe tornato a farla rivivere. Non si era accorto che poco più su, affacciata al primo piano, c’era Caterina.

    «Ciao Pietro! Come stai?»

    «Ciao Ina. Bene grazie, tu?»

    «Tutto a posto. Arrivasti oggi?»

    «Sì...»

    «Scinnisti per il matrimonio di Giovanni?»

    Pietro rispose facendo di sì con la testa, poi si calò sulla Vespa tagliando corto ad ogni altra domanda.

    «Me ne entro Pietro, ti saluto.»

    «Ciao Ina.»

    La Vespa non partiva. Pietro provò una decina di volte a spingere il pedalino di accensione ma fu inutile. La riportò in garage sconsolato e tornò in casa a prendere dall’agenda il numero di Fabrizio, il meccanico di famiglia.

    «Fabrizio? Ciao sono Pietro.»

    «Pietro chi?», si domandò preoccupato il meccanico nel sentire quell’accento nordico.

    «De Gregorio, il figlio di Betto...»

    «Il figlio di... ah! Ciao Pietro, non ti avevo riconosciuto dalla voce!» E certo, Pietro ormai parlava come Guido Nicheli ma, fortuna per lui, ancora per poco.

    Sempre con i suoi modi, Pietro spiegò a Fabrizio la situazione della Vespa e lui lo invitò a portarla in officina nel pomeriggio. Fu molto gentile, cosa a cui non era più abituato.

    La prima tappa di Pietro in paese non poteva che essere il Bar 900.

    «E’ permesso?»

    «Nooo, non ci posso credere!» esclamò sorpreso Gino, il proprietario, che scese dal bancone e corse a salutare Pietro con le braccia spalancate. «E tu qua sei? Che sorpresa! Come stai? Vieni, siediti. Aspetta un attimo. Concetta? Concetta?! Veni ‘ca, guarda chi c’è!»

    Il Bar 900 si trovava nel centro di Cefalù, in una piccola stradina che scendeva verso il lungomare. Il bar non era uno di quelli molto frequentati né dalla gente del posto né dai turisti: colpa della fornitura essenziale della struttura

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