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Sud – I racconti dell’orrore
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Sud – I racconti dell’orrore
E-book230 pagine3 ore

Sud – I racconti dell’orrore

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Info su questo ebook

Rocce, caverne, sabbie dorate e un mare profondo fanno da sfondo alle incredibili avventure del sud in cui personaggi bizzarri e solitari appaiono all’improvviso sotto un’atmosfera remota e arcana.
LinguaItaliano
Data di uscita9 dic 2019
ISBN9788835343424
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    Anteprima del libro

    Sud – I racconti dell’orrore - Pierluigi Saracino

    Pierluigi Saracino

    Sud

    I RACCONTI DELL’ORRORE

    Sud – i racconti dell’orrore

    Copyright 2018

    Illustrazioni disegnate da Pierluigi Saracino

    UUID: 5c786cfe-0d58-11ea-b07a-1166c27e52f1

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Rive lontane

    Hermanus Il siculo

    LO SCAZZAMURRIELLO

    A CASA DI NONNA PERLA

    Rosmina una bambola antica

    Rive lontane

    Era un giorno d’estate qualunque, con il sole che puntava dritto sui bagnanti lasciandoli lì, in una vaga espressione di stupore sulla riva umida e fresca, tra sensazioni alternate di caldo e freddo. Da lontano, lungo l’orizzonte, le maestose nuvole si calavano sulle imponenti acque blu di un mare eterno e sconfinato sino a creare un concreto effetto di perdizione al quale nessuno avrebbe potuto stabilire con certezza se, al di là, il mondo continuasse. Lo sguardo si perdeva verso il limite ignoto del mare e la fine della conoscenza.

    Voltandosi indietro si otteneva ben altro effetto: le spiagge erano affollatissime e colori di vario genere, dipinti sulla folla, sembravano muoversi con una lenta e serena armonia. Le tonalità dei colori sui costumi e sugli ombrelloni risaltavano sul sabbioso paesaggio imponendo così la loro melodica trama, quasi danzassero al ritmo naturale e costante della brezza marina che soffiava, a sua volta, sulle creste verdi della folta pineta. Il suono delle onde regnava sovrano e terminava a riva il suo continuo e liquido dialogo, era il mare a parlare e la sua voce s’innalzava sopra ogni cosa.

    Le spiagge di Torre Fortore erano dune di soffice sabbia dorata, si estendevano solitarie e a perdita d’occhio senza che ci fosse mai l’imprevedibile e spontanea intromissione di scogliere, dirupi o qualche faraglione a riempire lo scenario di questa cartolina sbiadita dal sole. Le linee di spiaggia che correvano da un versante all’altro, non erano altro che sentieri persi nell’azzurro vivace del mare e del cielo. Un lungo cammino verso il nulla più sereno.

    Allo stesso modo, la pineta che affiancava la lunga distesa di spiaggia, rappresentava un monotono manto verde uniforme, perfetta come le setole di una spazzola. Per Hilpy era uguale e, in qualche modo, si era unito a quella spensierata allegria ma, allo stesso tempo sentiva il desiderio di allontanarsi e di addentrarsi nella natura solitaria di quel luogo meraviglioso.

    Sarebbe andato a pescare, a farsi cullare dalle onde e a sentire la dolce musica del vento e dell’acqua che gli avrebbe stordito la mente per un po’. Hilpy scelse la località di Torre Fortore per passare le vacanze poiché non aveva altre alternative, il continuo calo di lavoro gli aveva ridotto notevolmente la sua autonomia economica che ormai durava da diversi anni.

    Ben più preoccupante era invece il disordine e l’inquietudine spirituale che derivavano dai debiti a lungo termine.

    Hilpy era un nome come tanti altri, non era il suo originario, aveva deciso così di chiamarsi perché avrebbe voluto avere un’altra identità, rinnovata e positiva in quel luogo: un nuovo nome per un nuovo luogo, un altro spirito per quel posto diverso. L’acquisizione di un nuovo nome gli avrebbe donato un singolare fascino e una nuova personalità. Il nome Hilpy significava tante cose messe insieme, un misto di significati e frammenti della sua stessa immagine: hippy, help, happy: ricordi di ciò che era stato e di ciò che aveva fatto.

    Si prese qualche minuto, poi con un gesto determinato si fissò gli occhiali da sole sul suo viso magro e si alzò dal tavolino circondato ormai da una banda di ragazzini irrequieti che si facevano la guerra col gelato perché egli prevedeva che la prossima vittima sarebbe stata lui se non si fosse alzato immediatamente, inoltre temeva per la sua nuova maglietta.

    I suoi piedi affondarono nella soffice sabbia e si affrettò a raggiungere la piatta e umida riva dalla quale avrebbe deciso poi la direzione da prendere ma, alla fine la decisione restava sempre la stessa, immutabile come lo era il suo statico e immobile corpo, bloccato da una solida moltitudine di dubbi.

    Quella mattina, però si sentì diverso, non per il nome che si era auto-affibbiato ma per qualcosa che avvertì dentro di sé: dopo essersi affacciato sulla riva con i piedi lambiti dall’acqua gelida del primo mattino, si voltò da un lato e intravide la lontana linea di roccia che racchiudeva solidamente lo scenario sbiadito. Sembrava la linea che si estendeva alla fine del mondo. Una scia rocciosa che delimitava le nostre acque, quelle conosciute.

    Quel mare che apparteneva alle nostre esperienze vissute e che, in qualche modo, sarebbe stato raggiungibile con una determinata e ferrea volontà. Queste fantasticherie gli balenarono solo in quegli istanti, quando il vento lo scuoteva e gli entrava nella testa portando nuova freschezza ai suoi pensieri. Quella mattina una foschia compatta ammantava la linea facendola apparire come una sottile e preziosa collana persa tra le acque lontane di un altro mondo, quindi la foschia induceva a rinunciare a qualsiasi escursione. Nonostante tutto, Hilpy ci credeva, era particolarmente in forma.

    Decise di affrontare quei chilometri di spiaggia.

    I cormorani volavano basso quella mattina in cerca di cibo, planavano a pelo d’acqua senza mai astutamente farsi toccare dalle onde, alcuni di loro invece raggiungevano la spiaggia mimetizzandosi sorprendentemente con il colore della spiaggia sporca. Hilpy, all’improvviso, ne vide uno di fianco a lui poco dopo che le ali fremettero freneticamente, dopodiché rimase a osservarlo con una lieve preoccupazione costatando che il grosso pennuto, ispido e sporco, col suo passo goffo, si accingeva a raggiungerlo con un fare prepotente e spavaldo.

    Non gli capitava tutti i giorni di incontrarne uno, né tantomeno uno di un così cattivo aspetto. Quel cormorano metteva paura sembrava che stesse in procinto di attaccarlo poiché la sua avanzata era ormai giunta alla pari con quella del giovane Hilpy. Le sue ali sbattevano violentemente come se lo stesse avvisando, quindi Hilpy recepì il messaggio e iniziò a escogitare un sistema di difesa qualora il suo presentimento si fosse avverato. Egli avrebbe tirato su una delle tante mazze di legno che invadevano la spiaggia e lo avrebbe colpito a ripetizione, senza pietà, sino a fracassarlo e a non permettergli più di volare per un’ulteriore vendetta, ma non era nelle sue abitudini ammazzare un essere vivente, non l’aveva mai fatto.

    Ma perché il cormorano avrebbe dovuto attaccarlo?

    Era solo un uccello intento a procurarsi il cibo e, Hilpy prendeva provvedimenti troppo in fretta e con una certa aggressività, perché, molto probabilmente, il suo agire rispecchiava esattamente la sua instabilità emotiva: dovunque, egli riusciva a sentirsi seriamente minacciato. Questo lui lo sapeva chiaramente e, di seguito, si convinceva a farsi un’autoanalisi per riacquistare l’autocontrollo.

    Quest’autoanalisi gli sarebbe stata suggerita dal suo medico-amico, gli era stata consigliata in questi anni difficili della sua vita, allo scopo di poter ritornare ad affrontare i ritmi giusti senza mai sentirsi stanco e abbattuto. Sapeva che se avesse continuato a correre nel nome del dio denaro avrebbe perso fiato e che, col passare degli anni, avrebbe perso quel po’ di ossigeno che lo teneva ancora in vita.

    Non ne valeva la pena auto annientarsi in questo modo.

    Tanto valeva godersi la vita e rinunciare a ogni tipo di costoso desiderio. Secondo Hilpy, in questa buio-crazia della società moderna bisognava lasciar andare, arrendersi per non essere soffocati finanziariamente.

    Così pensava Hilpy, arrendersi per continuare a vivere.

    Egli aveva già perso, è vero, ma perlomeno era ritornato a vivere negandosi tutti i privilegi fino ad allora ottenuti nel suo lavoro e cedendo alcuni dei suoi beni per andare a saldare i suoi debiti. Da disoccupato si sentiva spaesato, come investito da una corrente anomala. Quella corrente di profitti e di consumo, tipica della società che non ci lascia scampo.

    Aveva assaporato tutto a un tratto la freschezza della libertà e la spontaneità di agire e pensare senza rigide costrizioni.

    Adesso ciò che gli restava della sua precedente vita fallimentare erano quei debiti da estinguere, ma come fare? Era qui a Torre Fortore appunto per pensare, per concentrarsi a trovare una soluzione. I suoi passi si susseguivano pesantemente sulla spiaggia, si era distanziato ormai molto dai colori vivaci dei lidi, si voltò indietro un istante per rendersene conto e percepì adesso una nuova solitudine che misteriosamente lo trascinava sempre più in avanti verso l’ignoto.

    Il suo cuore manifestava adesso il desiderio di ritornare tra la folla e i colori dell’allegria.

    Decise di rallentare il passo e si guardò intorno come fosse stato richiamato dalla vegetazione circostante che si faceva ora sempre più intricata e selvaggia, inghiottendo parte della riva.

    Quel tratto fu colmo di rifiuti, tutti piazzati nella sabbia come oggetti di una squallida decorazione. Hilpy calò lo sguardo verso il basso e iniziò a studiare gli oggetti per capire a cosa fossero serviti in passato, naturalmente erano stati trasportati dal mare e avevano viaggiato chissà per quanto tempo. Sepolti tra le sabbie furono difficilmente riconoscibili ma appena smossa la sabbia, si dava il caso che fossero semplici oggetti comuni appartenuti alla storia di qualcuno: scarpe rotte e sverniciate, barattoli e bambole colorate, borse all’ultima moda, secchi e contenitori, specchi rotti sporchi di catrame e deformi salvagenti neri a forma di simpatici animali. Maschere e pinne consumate, scheletri di occhiali da vista e ancora cumuli d’indumenti lasciati dagli ultimi superstiti immigrati giunti per miracolo sulle rive della salvezza. Protesi dentarie consumate da sostanze marine e…poi…meduse, tante, che riempivano la spiaggia a riva di un osceno spettacolo.

    Hilpy provò disagio nel vedere questo disarmonioso distacco, cioè la bellezza di una natura solitaria, fusa con una disperazione che proveniva dal mare, che viaggiava in silenzio nella notte, per sfuggire al male. Egli non udì il benché minimo suono artificiale, peccato, perché Hilpy avrebbe voluto sentire il suono di una radio che trasmetteva musica allegra per l’estate ma, tutto questo ormai era troppo distante.

    Negli scenari del disagio ne faceva parte anche il cielo che, a intervalli, mutava diventando brutalmente grigio come se si stesse gonfiando di dolore, oscurando il paesaggio desolato di una profonda e cupa tristezza. Gli ammassi corposi di nuvole si rigonfiavano d’oscurità, la quale si calava precipitosamente verso la spiaggia rendendola spettrale rimarcando ancor più quel senso di degrado e solitudine, di dimenticanza assoluta. Gli occhi di Hilpy orbitavano rapidamente, osservando tutto ciò che lo circondava, ma quel silenzio innaturale lo tormentava a tal punto da bloccarlo con i piedi su quelle gelatine morte trascinate a riva. Poi, però si riprendeva dai suoi difficili istanti e decideva di contemplarle e di studiarle più da vicino.

    È qui che le meduse venivano a morire?

    La mente di Hilpy gli suggeriva di sì, poiché erano disposte tutte in fila come per un accordo collettivo sulla riva, ricoprendo un lungo tratto di spiaggia.

    Incuriosito e perplesso dal funesto evento, continuò a camminare in mezzo a quel cimitero di gelatina sotto quel nauseabondo e putrido odore di viscida decomposizione e ne superò con successo la zona più invasa; adesso il suo sguardo ritornò su, concentrato e determinato, dritto verso la sua meta: la linea di roccia, ma fu ancora lontana.

    Adesso la presenza dei grossi rifiuti e il fruscio violento della vegetazione scossa dal vento, gli provocarono strani avvertimenti come se qualcuno o qualcosa lo stesse seguendo o lo stesse osservando di nascosto. Ma furono solo strani scherzi della sua mente facilmente suggestionabile e, perlopiù intrappolata in quel luogo remoto. In uno stato di solitudine, fu più che comprensibile sentirsi indifesi e minacciati.

    Il cielo giocava con la sua paura, liberava le ombre più nere contro di lui lasciandolo lì, inerme e guardingo.

    Il vento soffiava tra gli arbusti muovendo le diaboliche marionette di legno che invadevano la sua fragile anima. Hilpy osservava il movimento ondulatorio della natura prendersi gioco di lui e le ombre scagliate sulla sabbia a formare giganti storpiati che gli venivano addosso affannandogli il respiro. Ma perché aver paura per nulla? E chi avrebbe potuto seguirlo?

    Hilpy sapeva chi avrebbe potuto prendersi gioco di lui.

    Ogni dubbio di quella realtà silenziosa lo riconduceva inesorabilmente alla sua vita fallimentare. Certo. Fu proprio così, se qualcuno aveva deciso di seguirlo fin là, sicuramente non poteva essere altro che uno dei suoi tanti colleghi ancora legato ai suoi debiti. Un parassita finanziario molto abile e insistente.

    Era sempre più convinto che si trattasse solo di loro.

    Venuti a spiarlo e a vedere come se la passava lontano da tutti. A un tratto scorse uno di loro che si ergeva aldilà della spiaggia, in prossimità del sentiero che conduceva all’interno dell’ombrosa pineta. Era molto alto, immobile, lo stava fissando impassibile e senza nessun accenno di movimento. Scuro e magro, dalla personalità profondamente disturbante. Hilpy iniziò ad agitarsi.

    «Ehi! Tu chi sei!» si azzardò a dichiarare il ragazzo chiaramente innervosito.

    Quella figura non osò rispondere e continuò a restare lì, immobile. A quel punto l’idea dell’inseguimento si consolidò sempre più in Hilpy tanto che egli iniziò a manifestare il suo precipitoso disappunto senza starci più di tanto a riflettere.

    «Ehi! Tu…fottiti!» Hilpy aveva infierito con una delle più semplici conclusioni.

    Ci fu una certa distanza tra il ragazzo e l’individuo oscuro e, per brevi istanti, a tratti, lo sguardo di Hilpy fu infastidito dal sole a tal punto da confondersi. Così, di soppiatto decise di andargli incontro senza alcun timore, ma più si avvicinava e più si concretizzava quell’esile forma eretta tra il sole, i cespugli e le ombre dei pini.

    Non era affatto una presenza minacciosa né un’ombra persecutrice come lui credeva, era solo un lungo e robusto legno di quercia piantato in tutta solitudine, tanto da farlo sembrare imponente; all’estremità del grosso bastone vi era un secchio rivoltato e disgustoso dal quale fuoriuscivano insetti di ogni genere. Per terra e nei pressi, c’erano residui d’interiora marce di pesce.

    Sicuramente uno dei tanti pescatori aveva usato quel secchio e lo aveva riposto sul bastone in evidente instabilità permettendo alla fetida poltiglia di scivolare e riversarsi sulla sabbia sprigionando un odore di morte lenta sopra ogni limite di sopportabilità. Ma non era solo quel secchio a puzzare.

    Tutto intorno, resti di organi quasi liquidi giacevano come chiazze scure sulla sabbia infestando il luogo, insomma, quel tratto di spiaggia era una macelleria ittica a cielo aperto.

    Hilpy, riuscì, a malapena, a sollevare le labbra per far filtrare un po’ d’aria tenendo tappato il naso, ma la sua respirazione durò solo qualche secondo poiché il secchio si rivoltò improvvisamente e, nell’immediato, qualcosa uscì fuori dal fondo di quel secchio malsano. Uno sbuffo nero e aggressivo, un ronzio minaccioso che costrinse Hilpy a scappare ma, nonostante i suoi rapidi passi, quella nuvola ronzante continuò a seguirlo e Hilpy non poté far altro che riversarsi in acqua cercando di scampare alle punture di qualche insetto pericoloso. Una puntura come segno di benvenuto.

    Come se non bastasse, si ritrovò nuovamente con i piedi su quelle gelatine morte che lo circondavano e, sebbene fosse al riparo nell’acqua, avvertì uno strano presentimento di dolore e morte. Quel luogo glielo iniettava passo dopo passo, costatando squallore, decomposizione, grigiore e un silenzio tombale che si univa e si scioglieva nell’ l’acqua.

    Hilpy pensò che, tutto sommato, eravamo solo acqua. Acqua nel corpo ed energia nello spirito:

    «Dall’acqua siamo sorti e nell’acqua ritorneremo ».

    Uscì finalmente dall’acqua, dopo che lo sciame si era allontanato e scivolò cadendo come un idiota sulle meduse morte.

    «Cazzo! Che stupido!» disse tra sé.

    Si risollevò e andò immediatamente a sciacquarsi nel mare, si tuffò e poi ritornò a riva concentrandosi nel suo cammino e cercando di scacciare quel morso da panico che gli premeva lo stomaco. Era sopportabile ma lo aveva contratto nella situazione più stupida che gli potesse capitare «che stupido» continuava a ripetersi, ammettendo a sé stesso il periodo ambiguo che stava attraversando.

    Egli si voltò per l’ennesima volta indietro. Era molto lontano. Inoltre sentiva di sentirsi solo e, che se gli fosse successo qualcosa, nessuno avrebbe potuto aiutarlo in quella zona desolata, dove le rive che egli oltrepassava di cammino in cammino, si facevano più selvagge, e le onde acquisivano un suono ruggente e malevolo quasi lo stessero condannando a una fine insolita.

    D’altronde, essendo molto lontani dalla sicurezza, dalla comodità e dalla comunicazione, era del tutto normale sentirsi timorosi e assorti da cattivi pensieri.

    Ma perché avrebbe dovuto succedergli qualcosa di spiacevole?

    Di certo, un uomo solo e temerario, averte sempre l’entità del pericolo come un fenomeno del tutto naturale. Hilpy era fatto così. Pensava subito al peggio. Chiese aiuto a sé stesso.

    Finalmente una nuova autoanalisi.

    Continuò a camminare e le grida dei cormorani gli risollevarono presto il morale, c’erano altri esseri viventi insieme con lui che reclamavano il diritto alla vita e lui ne fu pienamente sollevato; inaspettatamente ritornò il sole che gli donò una sorta di serenità come se gli fosse stata concessa da un lontano specchio riflesso. Nonostante tutto, dopo gli eventi superati, era quasi gratificante passeggiare su quelle spiagge oscure.

    Invase da centinaia di rifiuti, le rive si coloravano di scuro.

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