Ninnanò
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Anteprima del libro
Ninnanò - Fausto Romano
Bukowski)
1
Erano scomparse le strade, i marciapiedi, i tappetini delle case, le cacche dei cani, le gambe degli uomini e anche quelle delle donne. Nevicava da tre giorni.
Il primo giorno erano tutti meravigliati, il secondo stupiti, il terzo incazzati. Non nevicava dall’Ottantotto: lo dicevano i vecchi e lo ripetevano i bambini.
Il consiglio comunale era stato convocato d’urgenza e, nel palazzo del Municipio, tutti sembravano essersi svegliati da un sonno durato circa dieci anni, da quando era zampettata la notizia che – forseforse – il Giro d’Italia sarebbe passato da Terrazza, ma non si era fatto in tempo a coprire le buche e addio giro.
Il sindaco del paese, che si vantava di amministrare più di quattromila anime, aveva chiuso le scuole ed emesso una delibera con la quale ordinava a ogni cittadino di tenere libero dalla neve l’ingresso della sua abitazione e di gettarvi il sale grosso. I terrazzani avevano risposto «Tcc!», parola usata in risposta a una minchiata. Non era solo perché spazzare e seminare il sale era compito del Comune, ma anche perché il terribile, enorme problema di Terrazza era la pigrizia. Anche lo stemma del paese lo suggeriva: un gallo dormiva davanti a un sole nascente.
Quei quattro negozietti aprivano tardi e chiudevano presto, e così gli uffici pubblici e gli ambulatori dei due medici che spesso si alternavano, e capitava che si intendessero
male e rimanessero chiusi entrambi.
Insomma, il paese di Terrazza era simile a un ombrellone a gennaio: non serviva a nulla e non interessava a nessuno.
Eppure c’era gente che lì ci dormiva, si lavava i denti, girava cucchiaini, alzava serrande, si cambiava mutande e guardava le auto passare alzando ogni tanto il capo in segno di saluto.
Nella strada di Lucio Sestri di auto ne passavano poche. Pochissime. Lui abitava un po’ fuori Terrazza, sulla parte alta, di fronte alla pineta. Viveva in una casetta a due piani, né grande né piccola, dalle pareti color nespola, circondata da un’inferriata verdognola. Come un tovagliolo che ricopre una torta per non farci andare gli insetti, così un tetto spiovente si poggiava sopra la casa. Idea stravagante, perché lì a Terrazza di un tetto così che te ne dovevi fare? Non si era mica al nord, tra le montagne. Terrazza era un foruncolo sulla pancia della Puglia, ed era quindi meglio un bel terrazzo per stenderci i panni e omaggiare il nome del paese.
Sulla sinistra, come una sorella minore, s’appoggiava un’altra casa, quella di Ronzino che viveva da solo da quando la moglie era morta d’infarto a mezzanotte spaccata: si vedeva che si era sposata un orologiaio.
In quei giorni casa di Lucio la si poteva distinguere benissimo da quella di Ronzino – e anche da quella di tutti i terrazzani – perché era l’unica ad avere l’ingresso libero dalla neve.
Ogni tre ore Lucio spazzava e seminava il sale come si fa col mangime per le galline. Si serviva di una pala rossa, dal manico alto quanto lui. L’aveva comprata, insieme a un paio di galosce nere, ai Magazzini Emme, un imponente centro commerciale che sorgeva sulla statale, a un chilometro dal cartello -rrivederci
. I magazzini erano l’unica attrazione di Terrazza e, quando bisognava far arrivare qualcuno dalle proprie parti, gli si diceva «dove sono i Magazzini Emme».
Ora erano tutti felici di quella piramide di cemento innalzata in un deserto di terra rossa, ma all’epoca dell’approvazione del progetto i terrazzani si erano divisi: c’era chi vedeva nel centro commerciale rinascita e ricchezza per il paese, e chi ne vedeva una tomba per tutti i piccoli negozietti che si defilavano lungo gli ottanta passi del corso principale.
L’ottico si era autoeletto rappresentante dei commercianti e aveva dato a Lucio una soffiata: nei magazzini era prevista una vasta area attrezzata da bellissime e modernissime macchine fotocopiatrici messe gratuitamente a disposizione dei clienti. Lucio non aveva reagito: era la volta buona che chiudeva quel buco di copisteria e si dedicava a… a cosa non lo sapeva. Alla domanda «E tu da che parte stai?» si era messo a fissare un punto preciso del pavimento fino a scoraggiare l’ottico, che se ne era andato scuotendo la testa.
Erano anni che Lucio aveva lasciato agli altri il compito di decidere per lui.
Non era per mancanza di coraggio o d’intelligenza, semplicemente non s’interessava molto alle cose della vita. Se ne stava al mondo con lo stesso atteggiamento di un semaforo spento.
«Pensi che nevicherà anche questa notte?» gli chiese Caterina, mentre accendeva con i fiammiferi dei volantini pubblicitari, buttandoli poi sotto la legna del camino per farne un bel fuoco. «Hai sentito?».
«Cosa?» rispose Lucio, appoggiato con le spalle alla porta, nell’intento di togliersi le galosce.
«Ti ho chiesto se pensi che nevicherà ancora…».
Lucio guardò la moglie e si accorse che non era bella. Forse non era stata bella nemmeno cinque anni prima, quando l’aveva sposata. Eppure, ai Magazzini Emme, c’era un cassiere che la guardava: guardava i suoi capelli color sabbia che si appoggiavano sulle spalle ricurve; guardava il piccolo e rotondo culetto che sporgeva sopra due gambette che viaggiavano sempre in anticipo rispetto al resto del corpo, come indipendenti; guardava il marito che lo guardava a sua volta pensando di dirgli qualcosa, ma poi non gli diceva niente.
«Non lo so» rispose Lucio appendendo il giaccone.
«Mi domando perché gli altri non puliscano le strade come ha detto il sindaco. È pericoloso, no? Dicono che siamo già a un metro e mezzo di neve. Se nevica anche stanotte e arriviamo a due… due metri di neve sono tantissimi, no? Sono quanto la porta… Se non la spazzano rischiano di rimanere intrappolati in casa, no?».
Lucio non si era mai abituato a quel no
che la moglie abbandonava alla fine delle frasi.
«Marika dorme?».
«Sì».
«Ha febbre?».
«Trentotto meno due. Forse sta facendo la varicella, ha dei puntini rossi sul braccio…».
«Hai chiamato Paolo?».
«Mi ha detto che non può uscire di casa per la neve… Perché non la spazzi?!
gli ho detto io, no? Mi ha prescritto comunque un antibiotico, ma la farmacia è chiusa, è tutto chiuso, chiuso!».
«Caterina, calmati!».
Caterina lasciò perdere il camino e si voltò a guardare Lucio. «Ho paura per Marika…».
«Ha solo un po’ di febbre».
«E se ha la varicella?».
«Sono bambini, devono farle queste cose… Ora vado a controllare questi puntini».
Lucio appoggiò un piede sul primo gradino della scala in legno che portava al piano di sopra, ma la moglie lo bloccò.
«Vanno bene i tortellini in brodo? Lo so che sono tre giorni che…».
«Vanno bene. Grazie».
«È che è tutto chiuso…».
«Ti ho detto che vanno bene. Vado da Marika».
La stanza di Marika era al primo piano, dove c’erano anche la camera da letto di Lucio e Caterina, il bagno e uno stanzino. Quella stanzetta era stata di Lucio piccolo, anche se di lui non c’era più niente: solo la porta con le macchie lasciate dal nastro adesivo. Marika dormiva, rannicchiata sul lato sinistro, una manina sotto il cuscino. Aveva la bocca aperta, russava. Piano, ma russava. La luce dell’abat-jour a forma di carota esaltava le due guanciotte rosse e calde, sulle quali si appoggiavano riccioli biondissimi. «Ogni riccio è ’nu capriccio» le diceva Lucio, quando Marika non ubbidiva. Così, spesso si faceva fare dalla mamma le trecce, due trecce lunghelunghe che le scendevano fin dietro le spalle. Erano l’alibi perfetto per continuare a fare i capricci: la treccia di sinistra teneva tutto quello che Marika non voleva fare come mangiare la verdura, togliersi le scarpe nuove per andare a letto, lavarsi i denti, smettere di urlare. Sulla treccia di destra, invece, c’era quello che Marika voleva fare: dormire nel lettone con la scusa di aver fatto un brutto sogno, uscire in giardino quando pioveva, seminare briciole di pane per la casa come aveva visto fare nel cartone animato di Hänsel e Gretel, usare il corrimano della scala a mo’ di scivolo.
Lucio si sedette ai piedi del letto e le appoggiò una mano sulla fronte. Era calda. Le alzò piano la manica del pigiama. Non c’era nessun puntino. Notò invece un neo, al centro esatto del gomito destro. Anche lui ne aveva uno in quel punto. Strana coincidenza, pensò. Marika si mosse, tossì e si voltò verso di lui.
«Papà…?» disse. «Nevica ancora?».
«Sì, nevica ancora» le rispose lui tirandole le coperte fin sotto il mento. «Ora dormi, dai… No, tesoro, è tardi, devi riposare, non insistere. Ho detto che… e va bene…».
Lucio si guardò intorno, come se non sapesse dove fosse la sua Gibson. Si alzò e andò verso la finestra, adagiò delicatamente a terra la custodia in similpelle nera, la aprì e gli sembrò di risvegliare un morto. Sfilò la chitarra prendendola dal manico e, come avesse in mano una reliquia, si avvicinò a Marika che, tutta eccitata, fece spazio al padre, che si sedette al suo fianco, appoggiando la cassa armonica sulla gamba destra. Fece vibrare alcune corde, ruotò un pirolo per accordare un mi, guardò i peluche che circondavano il letto e iniziò a cantare.
Ninnanò, ninnanò
questa bimba non la do,
non la do alla befana, quella vecchia brutta e nana,
non la do all’uomo nero e nemmeno a un elfo vero,
me la tengo stretta stretta fino a quando vien la sera,
solo allora io la lascio scivolar nel mondo pazzo
in un cerchio colorato dove
il cielo è come il prato
e puoi correre e cantare
tanto nulla lì fa male.
Ninnanò, ninnanò
questa bimba non la do,
perché l’amo e l’amerò fino a quando ci sarò
e se un giorno non mi trovi
esci fuori e guarda i fiori,
quello che è più colorato
sono io
innamorato
di te.
Marika si era addormentata. Lucio sapeva che faceva finta. Ripose la chitarra nella custodia e, sulle punte dei piedi, andò verso l’uscita. Dopo due passi si fermò, ruotò appena il capo, quel tanto per rubare un impercettibile movimento della figlia. Poi schiacciò col piede un gattino. Quello lo guardò con aria minacciosa. Anche se era solo un peluche, quegli occhietti gialli s’infilarono sotto la pelle insieme a un brivido lento e spinoso, come la voce di Caterina. Lo stava chiamando ugualeuguale a come lo chiamava sua madre.
2
Non era stato facile trovare un nome d’arte.
Aveva passato mesi a rifletterci. Poi aveva sentito sua madre che lo chiamava: «Luciooo!». Eccolo, sì, perfetto! Quelle due O in più lo avrebbero distinto dagli altri luci già stranoti.
Aveva iniziato a studiare la chitarra a otto anni, più per protesta che per piacere. Protesta al suo catechista che obbligava tutti i bambini a preparare i canti per la messa della domenica, rinchiudendoli di pomeriggio in una stanzetta dal soffitto che ti picchiava la testa. E si metteva a menare le corde di quella chitarra che sembrava il Cristo flagellato che Lucio aveva visto in un affresco sul muro della chiesa. La nostra festaaa non deve finireee, non deve finireee e… non finiva quella tortura con Lucio che infilava la testa fra il libro dei canti cercando di tapparsi le orecchie. Oltre alla netta incapacità del chitarrista, odiava quei testi così stupidi, senza senso, inutili, scritti da gente che non aveva neanche il coraggio di firmarsi col nome vero.
Così aveva deciso di vendicarsi e di cambiare il sistema.
Aveva chiesto a Babbo Natale una chitarra, e quello aveva accettato; aveva chiesto a suo padre di mandarlo a lezione di musica, ma… «Che si buttano così i soldi? Poi, quando cresci, se davvero vuoi, si vedrà, ora pensa allo studio, alla scuola che è importante».
Così si era messo a studiarla da solo, con l’aiuto del suo talento da compositore che nel giro di poco era venuto fuori con le note della sua prima composizione. La musica era molto bella, ma mancavano le parole. Aveva quindi rubato un giornalino, di quelli che stavano all’ingresso della chiesa e che potevi prendere con un’offerta, e aveva iniziato a sfogliarlo in cerca di un testo da poter appoggiare sul giro di sol. Lo aveva letto tutto, sottolineando le frasi che lo colpivano di più e cercando di unire quei pezzi.
Ne era venuto fuori un rap.
8xmille non fa 8.000,
ma col volo di Stato possiamo andare in Cina,
ci sono i bambini che muoion di fame
la chiesa fa i pozzi ma servon le strade.
Il papa sta meglio, gli hanno sparato
quello si pente ma l’hanno ingabbiato.
Maria Immacolata su pensaci tu
e insieme a Giuseppe facciamo il ragù,
che se lo mangia Gesù il bambinello
8xmille se doni è più bello.
Son tutti ladri!, dice mio padre,
i preti in testa che fanno i maiali.
8xmille non fa 8.000
per questo finisco facendo una rima.
Il catechista, però, non aveva capito la potenza del messaggio e aveva minacciato Lucio di non fargli prendere la Prima Comunione. Lucio aveva risposto che avrebbe fatto direttamente la seconda, e se n’era andato a casa dove aveva afferrato la chitarra per continuare a comporre le sue canzoni.
Aveva chiesto alla madre e alle vicine di casa di mettergli da parte le confezioni delle uova.
«E a che ti servono?».
«Le colleziono».
«Collezioni scatole di uova?».
«Sì, grazie, ciao».
Con quelle aveva ricoperto le pareti di una piccola stanzetta senza finestre dalla quale si accedeva dal garage. Suo padre la usava come deposito degli attrezzi e continuava a negare al figlio di prendere lezioni di chitarra…
«Che si buttano così i soldi? Poi, quando cresci, se davvero vuoi, si vedrà, ora pensa allo studio, alla scuola che è importante».
Il padre lavorava in un cementificio e faceva i turni di notte, per questo Lucio dormiva spesso con la madre, nel lettone grande. Ma si portava il suo cuscino perché quello del padre puzzava dell’olio anticaduta che si metteva tra i capelli. La madre russava e faceva delle lunghe pause di apnea. Lucio contava quanti secondi separavano l’inspirazione dall’espirazione. Una volta ne aveva contati settantacinque, pensando che sua madre fosse morta. L’aveva scossa per benino e quella si era svegliata tutta spaventata e, senza nemmeno aprire