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L'alkahest e la macchina biologica
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L'alkahest e la macchina biologica
E-book287 pagine4 ore

L'alkahest e la macchina biologica

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Info su questo ebook

È nel viaggio che l’uomo cambia se stesso. E questo libro racconta di un viaggio in Terra Santa che si trasforma in un viaggio nella Storia, quella di Gesù e del suo tempo, ma anche nei problemi che oggi ci lascia il progredire tumultuoso della scienza. I pellegrini portano con loro la propria vita pregressa, la propria storia, a volte banale e a volte tragica, insieme ad altre storie. E alla fine, come in un cerchio magico, anche se tutto è cambiato, si torna, forse in contrapposizione al narrato precedente, al punto di partenza.
LinguaItaliano
Data di uscita27 dic 2019
ISBN9788893692502
L'alkahest e la macchina biologica

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    Anteprima del libro

    L'alkahest e la macchina biologica - Enrico Di Cesare

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    Prefazione

    Questo libro non doveva nascere.

    Ho contratto il virus dello scrittore dilettante senza averne coscienza, come quando prendi l’influenza e ti ritrovi, misteriosamente, a letto con la febbre alta, la nausea e la polipnea.

    Ormai sono passati tanti anni da quando scrivevo raccontini formato web, una paginetta e anche meno, con il colpo di scena finale.

    Poi ho avuto un attacco di orgoglio, sono caduto nella trappola della sfida, di tentare si scrivere un libro.

    Ma quando l’hai pensato, l’hai scritto, cancellato e riscritto, hai corretto errori su errori, quando hai fotografato l’immagine giusta per la copertina, dopo, che fai?

    Lo mandi alle Case Editrici, ma non ottieni nessuna risposta.

    E allora?

    Lo fai stampare, a prezzi esorbitanti, da ditte specializzate e poi ti ritrovi un bel pacco in casa. Così, per farlo sparire, cominci a regalarlo a tutti, agli amici, ai parenti, a sconosciuti, a lasciarlo nei treni della metropolitana o ai banchetti dello scambio di libri che vanno oggi tanto di moda.

    Ma il libro non può e non deve essere regalato.

    Il libro va desiderato, va sognato, va tenuto tra le mani, va testato, va letto per qualche pagina, va pagato, va, in un bel pacchetto, portato a casa, va letto nei ritagli di tempo, sul divano, sulla sdraio, seduto alla scrivania, dimenticando tempo e impegni.

    Regalare il proprio libro è umiliante, e poi tristemente irritante.

    Ogni volta che regali un tuo libro rimani poi in attesa, nell’attesa di un esame, del giudizio, se il lettore occasionale è riuscito a entrare con te scrittore in sintonia o, come va di moda oggi, in empatia.

    Gli apprezzamenti poi arrivano, ma poi non sai quanto siano sinceri o quanto dipendano dall’amicizia, dall’ammirazione perché una persona normale riesca a scrivere veramente un libro.

    Così, dopo il primo, l’ambizione ti prende ancora: sei capace di scriverne un altro seguendo un tema lontano dal primo?

    Sì, l’idea arriva, le storie degli uomini pure, ma poi hai un lampo di verità, comprendi che i libri li scrivono gli scrittori e non i pensionati, che il mondo di oggi per un sessantenne è incomprensibile come sono incomprensibili per i giovani le tematiche proposte da un vecchio pensionato di sessant’anni.

    Così lo lasci nel tuo computer lì a giacere, non hai il coraggio di cancellare tutto, in fin dei conti quelle sono idee tue e quindi le conservi come conservi le tue fotografie.

    Passano gli anni, ma lui non ti lascia, ti attanaglia la mente, un pensiero fisso, come il desiderio di fumare quando tenti di smettere, vuole vivere, vuole vivere la sua vita, anche se la sua sarà una vita grama, senza successo e senza lettori.

    Quando sei un vizioso, se non ti curi, perdi sempre e oggi lui sta per nascere.

    Abbi una bella e lunga vita, libro mio.

    Capitolo 1

    Il viaggio

    Anime del purgatorio

    (esterno della chiesa di san Francesco, Santiago di Compostela)

    Questo nostro viaggio inizia un giorno di novembre di un anno qualsiasi all’inizio del nuovo millennio, uno di quei giorni in cui sembra che l’estate, ormai finita e quasi dimenticata, risorga a nuova vita, dopo i temporali di settembre, brevi e improvvisi, e i venti freddi delle giornate grigie e nuvolose di ottobre.

    Inaspettatamente, anche se il fenomeno si ripete ogni anno, l’aria si fa più calda, il cielo diviene terso e blu cristallino e senti un bisogno tentatore, vizioso e traviante, di andare al mare a prendere il sole.

    Dalle nostre parti, la breve estate di novembre la chiamano estate di san Martino, secondo la leggenda che vuole il cavalier Martino, poi vescovo di Tours, donare metà del suo mantello a un povero mendicante mezzo nudo, intirizzito dal freddo dell’autunno inoltrato.

    Il suo gesto di carità commuove il Signore.

    Egli non può tollerare che un cavaliere, futuro vescovo, abbia a disposizione solo mezzo mantello per difendersi dal freddo, perciò, come premio, gli dona qualche giornata di sole e un’improvvisa ondata di tiepida aria africana.

    Anche se san Martino è l’11 di novembre, la sua estate ha una data e una lunghezza variabile perché qualche volta cade nella prima quindicina del mese, ma più spesso arriva nella seconda metà; qualche anno dura solo un giorno o due, o addirittura poche ore, ma non è raro che si protragga per una settimana intera.

    Non c’è, però, anno che manchi.

    Comunque estate o no, san Martino o no, l’11 novembre un tempo si festeggiava, e forse si festeggia ancora, per tradizione ancestrale, la festa dei cornuti.

    Sembra in ricordo del carnevale delle popolazioni celtiche, quelle che usavano copricapo ed elmetti dalle grandi corna, simbolo da quelle parti di potere e di comando.

    Io me la ricordo bene la festa dei cornuti, l’11 di novembre, al paese, quando tutti gli uomini, ignari se fossero cornuti davvero o no, se ne andavano in giro con la giacca infilata a rovescio, sia come segno distintivo del proprio stato, sia per essere oggetto di scherno. Ironia e autoironia al massimo grado.

    Ma l’11 di novembre, per molti mezzadri terrieri non era per niente una data da festeggiare, né per l’estate autunnale né per la festa dei cornuti; per molti l’11 novembre scadeva il contratto di mezzadria e, quando non veniva rinnovato, dovevano lasciare le case e le terre che avevano coltivato per anni.

    Questo nostro viaggio inizia un undici novembre di un anno qualsiasi all’inizio del nuovo millennio all’aeroporto Leonardo da Vinci di Roma, terminal 3, al banco Alitalia numero 355, quello per destinazione Tel Aviv-Yafo, aeroporto Ben Gurion, con partenza alle ventidue e quindici.

    C’è la solita fila di persone con i trolley come bagagli a mano e le grandi valigie di plastica colorata, con rotelle e comode maniglie, da spedire come bagagli da stiva. La folla è variopinta come sempre al check-in degli aeroporti.

    Naturalmente ci sono moltissimi ebrei che tornano in patria e quando ci sono di mezzo gli ebrei, non puoi non guardare i loro nasi, per quella diceria strana che vuole che essi abbiano tutti un naso aquilino, da ebreo. Ovviamente quella è solo una diceria, gli ebrei hanno il naso aquilino né più né meno degli altri.

    Non dai nasi invece sono riconoscibili, piuttosto dai vestiti. Essi, quasi tutti, sono vestiti con abiti eleganti e raffinati, quelli che indossano gli uomini d’affari, mentre gli altri, ovviamente italiani, sono vestiti da turisti.

    E i turisti li riconosci dovunque, di qualsiasi nazionalità essi siano. È come se si fosse diffusa una divisa, quasi identica, in tutto il mondo: cappellini come quelli che usano i giocatori di baseball, dalla lunga visiera e dal foro alla nuca da dove eventualmente escono i capelli lunghi, spesso raccolti a coda di cavallo; barba incolta non rasata da uno o due giorni; magliette di cotone con logo e scritte di tutti i colori e in tutte le lingue; marsupi alla cintura; zainetti alle spalle; pantaloni corti sopra al ginocchio o accorciati a metà gamba, con tante tasche e taschini supplementari, che mettono in mostra gambette ossute e rinsecchite; scarpe comode da trekking ai piedi oppure sandali o addirittura ciabatte a infradito.

    Ecco, quel giorno di novembre all’inizio del nuovo millennio, al banco Alitalia numero 355 dell’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino, tra i molti ebrei in fila c’è anche un gruppo di turisti italiani, evidentemente in pellegrinaggio in Terra Santa, e tra essi un sacerdote che li accompagna.

    Quel gruppo di pellegrini è molto eterogeneo. Molti frequentano la stessa parrocchia di un paese ai margini del Parco Nazionale d’Abruzzo, altri vengono dai paesi vicini, altri invece vengono dalla città e sono stati aggregati al gruppo all’ultimo momento.

    Quando sei al check-in dell’aeroporto e stai per partire verso una meta dove mai prima sei stato, per un pellegrinaggio o un tour turistico, ti prende una strana eccitazione, quella dell’ignoto, che vuole nascondere l’ansia che proprio da quell’ignoto trae la sua forza.

    Ed eccitati sono i pellegrini: conversano gesticolando oltre misura e sbuffano infastiditi dall’attesa della fila che li costringe all’immobilità.

    Il sacerdote non è vestito da prete. È vestito, anche se in maniera più sobria, da turista, ha un berretto nero dalla grande visiera e il simbolo fosforescente @ sulla fronte e folti riccioli, una volta neri, che gli cadono sulla nuca, comodi calzoni di tela blu scuro e maglietta e pullover anch’essi blu.

    Anche se vestito più o meno come tutti gli altri, un prete lo riconosci facilmente. Dal suo modo di agire e di essere, direi; quel modo tutto particolare, felpato, che i seminari, tutti i seminari del mondo, danno ai ragazzi quando, ancora acerbi, vi sono rinchiusi per anni e di fatto sono esclusi dal mondo. Un modo felpato di essere e di agire che poi conserveranno per tutta la vita, anche quando hanno già rinnegato la scelta di essere e fare il prete.

    Anche don Aldo agisce e parla da prete, suo malgrado. Lui che, appena ordinato sacerdote, tanti anni prima, aveva aderito con entusiasmo allo spirito rinnovativo, che allora aleggiava nella Chiesa, nato dal Concilio Vaticano II; lui che incoraggiava i ragazzi a suonare e cantare durante la messa non più i canti gregoriani o le messe e le sonate di Bach ma melodie moderne, accompagnate dalla chitarra e dalla batteria; lui che se ne era andato a lavorare dovunque trovava, anche in fabbrica, perché pensava che la Parola dovesse non solo essere testimoniata nelle chiese ma anche nei luoghi di lavoro.

    Ora, anche se è un uomo non più giovane e quasi alla soglia dell’anzianità; anche se i suoi riccioli, ancora ribelli e ancora un tantino troppo lunghi, sono tutti bianchi; anche se è diventato parroco del paese nonostante le avversità e i dispetti del vescovo, che lo aveva sempre osteggiato per i suoi atteggiamenti giudicati troppo provocatori; ora anche lui è in preda all’ansia, pur rimanendo impassibile e apparentemente calmo.

    L’ansia che lo pervade e gli mozza il fiato non gli viene dal tuffo verso l’ignoto che ti fa fare un viaggio in aereo, quel viaggio lo aveva fatto già altre volte, gli viene dal suo ruolo di accompagnatore di un gruppo di persone che solo in parte conosce bene. Perché un pellegrinaggio è sempre un pellegrinaggio.

    A lui non pesa il compito di accompagnare il gruppo negli alberghi e distribuire le chiavi delle stanze, nemmeno quello di illustrare la toponomastica e la storia delle città e dei luoghi che visiteranno.

    A lui pesa un compito più ingrato, quello del viaggio spirituale. Perché un pellegrinaggio non è solo un viaggio nell’ignoto e nel diverso, un’esperienza di diversità fisica, linguistica, di clima, di organizzazione sociale, di ricchezza o di povertà diffusa o individuale. Per questo ci sono le agenzie di viaggio, con una vastissima gamma di scelte, dai viaggi più comodi per le città d’arte fino a quelli più avventurosi nei deserti più lontani o nelle foreste più impervie.

    Un pellegrinaggio è, o meglio dovrebbe essere, qualcosa di diverso. Un pellegrinaggio come scrive l’Opera Romana Pellegrinaggi nei suoi opuscoli illustrativi dovrebbe essere, un viaggio interiore che risponde alla domanda di senso che abita il cuore di ogni uomo e di ogni donna... una metafora della nostra esistenza condensata in pochi giorni, un viaggio nel cuore dell’uomo alla ricerca del volto di Dio...

    Forse un tempo era davvero così.

    Intraprendere un pellegrinaggio, andare per l’Europa a piedi per migliaia di chilometri, abbandonare per mesi la propria casa, gli affetti e il lavoro o gli affari, sospendere la vita a un filo, partire senza nessuna certezza che saresti tornato vivo era veramente un atto eroico e veramente alla fine, quando tornavi, se tornavi, tornavi cambiato.

    Il pellegrinaggio allora non era una passeggiata, una metafora, era un rischio e molti dovevano essere i fallimenti. Molti erano quelli che si ammalavano e rischiavano di morire senza assistenza se Francesco, il poverello d’Assisi, ma in questa circostanza davvero santo per sua divozione andò a santo Jacopo di Galizia, e menò seco alquanti frati, tra’ quali fu l’uno frate Bernardo. E andando così insieme per lo cammino, trovarono in una terra un poverello infermo, al quale santo Francesco avendo compassione, disse a frate Bernardo: «Figliuolo, io voglio che tu rimanga qui a servire questo infermo» (I fioretti di san Francesco, IV) e frate Bernardo rimase e lì costruì e organizzò una serie di ricoveri e ospedali per l’assistenza ai pellegrini.

    Forse un tempo, ma ancora fino a metà del secolo scorso, farti perdonare i peccati non era semplice. Non bastavano due o tre Pater noster o Ave Maria, come si fa oggi, a cancellare il peccato e guadagnarti le chiavi del Paradiso.

    Un tempo, fino a metà del secolo scorso, il perdono costava caro, e qualche volta carissimo. Dovevi rinunciare a qualcosa a te molto caro, gli dèi dei politeisti e il Dio erano tutti molto esigenti, così come i loro rappresentanti sulla terra, sacerdoti, papi e re.

    E chi non aveva abbastanza denaro doveva comprare ai saldi, doveva essere a Roma nell’Anno Santo, o essere a Santiago di Compostela nell’Anno Santo Giacobeo, che ricorre quando la festa di san Giacomo, il 25 luglio, cade di domenica.

    Gli uomini, in cambio di protezione dalla paura e dal terrore della morte, naturali conseguenze di ignoranza e superstizione, in cambio del perdono da sempre hanno sacrificato qualcosa agli dèi o al Dio: il frutto del lavoro e della fatica; un bue allevato col sudore della fronte; i frutti della terra, che non crescono spontaneamente, ma solo se tieni la schiena curva sulla vanga tutto il giorno e tutti i giorni della vita; un pezzo di terreno donato alla Diocesi: se poi vuoi lavorarlo ancora, ci devi pagare l’affitto per il resto della vita tua e dei tuoi discendenti.

    Qualche volta si superava il limite, e allora sull’altare ci dovevi lasciare un figlio, dovevi strapparti via una parte di te e consegnarla a Dio, come quando l’Angelo chiese ad Abramo, in segno di fede, di sgozzare sull’altare suo figlio Isacco.

    Oggi invece i peccati non esistono più: la tolleranza sessuale, conseguenza naturale dell’uso dei contraccettivi, e il benessere economico diffuso hanno cancellato negli uomini il senso stesso del peccato e della necessità del suo riscatto.

    Don Aldo guarda, sorridendo fra sé, i suoi parrocchiani; sorridendo per le loro scialbe confessioni che ogni anno diventano più rade e s’immagina una confessione fuori dal grigiore della routine di tutti i giorni.

    «Sia lodato Gesù Cristo.»

    Dall’altra parte della grata c’è un giovanottone tanto pigro che quasi mai riesce a mantenere il lavoro per più di qualche mese e che quando ha qualche spicciolo se li spende tutti in birre e prostitute.

    «Sempre sia lodato!» risponde il prete dall’interno del confessionale, sonnolento e annoiato. «Dimmi, figliolo, quali sono stati i tuoi peccati dall’ultima volta che ti sei confessato?»

    Il ragazzo china il capo come se volesse riordinare le idee per una confessione piena di atrocità inenarrabili. Invece, quando lo rialza, inizia con il solito copione.

    «Ho peccato, padre, ho mancato di rispetto al mio corpo tempio di Cristo» gliel’avevano insegnato a dire così al Catechismo e lui ogni volta ripeteva la frase meccanicamente. «Ieri ho fatto sesso con una prostituta.»

    Non aveva fatto solo quello, il confessore lo sa, lo conosce bene, aveva fatto di peggio. Nel pomeriggio s’era scolato una cassa intera di birra, comprata con i soldi rubati, pardon presi, dal borsellino della madre, gli ultimi, e non solo da quello, perché spesso, e sempre più spesso, li prendeva anche da tutti i borsellini che le vecchie del paese lasciavano incustoditi sulla credenza della cucina. Perché lavorare tutto il giorno per pochi spiccioli di paga? Lui aveva trovato la scorciatoia che porta alla felicità e poco gli importava della rabbia e del dolore che lasciava alle derubate, che erano invece per lui piene di premure. Poi, quando aveva incontrato il ragazzino del paese psichicamente disabile e appena adolescente, gli aveva proposto di andare a donne con lui e gli aveva spiegato per filo e per segno tutto l’universo femminile.

    «Ma questo non me lo avevi già confessato domenica scorsa?» ribatte il confessore. «E non avevi anche promesso, non a me ma al Signore, che non lo avresti più fatto?»

    Il ragazzo abbassa di nuovo il capo. Sa che ora è il momento del predicozzo, che l’altro dirà che così non può andare avanti, che dovrà decidersi a cambiare vita, che se continua così nel futuro sarà facile preda del Demonio che lo tenterà con lusinghe ben più gravi che il sesso, le prostitute e piccoli furti, e, se non ci sarà un vero pentimento e il raggiungimento di una serena vita spirituale tramite la preghiera, andrà all’Inferno anche se continua a comunicarsi tutte le domeniche.

    Invece questa volta, in questa confessione ipotetica e immaginaria, le parole del prete sono diverse, strane.

    «Senti, caro figliolo, la Confessione e la Comunione sono cose serie, non sono riti formali da ripetere meccanicamente tutte le settimane. Ora ti do un po’ di tempo per pensarci, ma quando tornerai dovrai mostrarmi un pentimento sincero, una rinuncia duratura al male che fai tutti i giorni e neanche te ne accorgi. Dovrai essere forte, cambiare te stesso. Io non voglio niente per me e niente per la parrocchia, anche se una donazione alla parrocchia potrebbe rientrare nell’autentico spirito comunitario del primo cristianesimo. Ma quando tornerai, dovrai dimostrare di essere veramente pentito. Dovrai portare la tua auto, quella sportiva che lucidi tutti i giorni e che ti serve a rimorchiare le ragazze, nel garage della parrocchia. Lì troverai una mazza da muratore e lì, a dimostrazione della tua fede, la distruggerai a martellate. Questo è il sacrificio e l’offerta che devi non a me o alla Chiesa, ma a Dio.»

    Don Aldo sorride di sé.

    Forse quello era lo spirito della Chiesa, ma non era certamente quello di Gesù. Lui aveva predicato la Buona Novella a tutti gli uomini, buoni e cattivi, andando su e giù per la Giudea e la Galilea e da buon pastore aveva parlato a ogni pecorella smarrita per riportarla alla retta via. Anche di Sabato, trasgredendo la Legge che di Sabato impone il riposo assoluto. E poi aveva perdonato l’adultera senza neanche chiederle se fosse pentita.

    La Chiesa nella sua storia millenaria ha dimenticato l’insegnamento del suo fondatore ed è tornata alla via più sicura della religiosità istintiva di tutte le religioni, quella del pellegrinaggio, del sacrificio per il perdono e delle offerte votive. Quella degli ex voto, che i Re e le persone comuni hanno da sempre lasciato nei templi sacri oracolari agli dèi, come se con un bel dono si possa, ingraziandosi il sacerdote, cambiare il passato o condizionare il futuro.

    L’importante, pensa don Aldo socchiudendo leggermente gli occhi, non è perdere i fedeli, respingerli e farli annegare nel mare della carnalità; l’importante è trarli in salvo da quel mare e spingerli verso il cielo incorporeo dello spirito.

    Capitolo 2

    In volo

    La Trinità (affresco nella cappella di Vallepietra)

    «Finalmente ci siamo, eh?»

    Don Aldo si è appena assopito, ha per un attimo chiuso gli occhi dimenticando perfino di essere in aeroplano.

    L’aereo era partito con notevole ritardo e aveva decollato solo dopo la mezzanotte.

    Le file e le attese erano state snervanti e solo dopo il decollo, dopo lo shock dell’accelerazione improvvisa che t’inchioda al sedile e la vertiginosa salita al cielo, quando i giri dei motori erano scesi alla velocità di crociera, era arrivata nei passeggeri la calma dell’impotenza.

    Ora non hanno altro da fare che chiudere gli occhi e cercare di riposare, se non riescono a dormire.

    Don Aldo dischiude appena gli occhi. Accanto a lui si è seduto Christian. Si conoscono da sempre, da quando Christian, bambino di dieci-dodici anni, gli faceva da chierichetto, appena fatto prete e viceparroco del paese negli anni settanta.

    Don Aldo gli sorride dolcemente e con affetto: Christian col suo entusiasmo fanciullesco riesce in ogni circostanza a sorprenderlo.

    «Sì, ci siamo» ripete don Aldo, e dopo una breve pausa: «Adesso cerca di riposare, domani sarà una giornata dura.»

    Christian aveva avuto fin da bambino una fede immensa.

    Era nato senza un padre, e allora si era scelto per padre il padre migliore di tutti, il Padre, quello che lo avrebbe amato di amore infinito, quello che lo avrebbe protetto, sempre, anche quando dormiva, quello che, divina potenza, avrebbe fatto pagare caro agli altri bambini ogni cattiveria nei suoi confronti. E quel Padre lui lo aveva conosciuto grazie a don Aldo!

    Christian avrebbe potuto essere un ottimo prete. Fin da bambino aveva dimostrato di avere carisma e saper trasmettere agli altri l’entusiasmo e la gioia della fede. Era stato lui a lanciare l’idea di fare il pellegrinaggio nei luoghi dove era nata la religione di Dio, e come sempre alla fine c’era riuscito, aveva raccolto le adesioni, prenotato il viaggio e fra qualche ora, finalmente, sarebbero atterrati in Terra Santa.

    Christian ha una fisionomia tutta particolare, unica tra gli uomini del paese della sua generazione. Non so se ricordate Odoacre Chierico, giocatore della Roma negli anni di Liedholm allenatore, quando la squadra romana vinse lo scudetto nel 1983. Christian gli assomiglia molto.

    Da ragazzino aveva una chioma lunga e riccioluta che brillava al sole come grano maturo e una miriade di piccole efelidi sul viso. Lineamenti dolci e regolari. E poi era alto ed elegante.

    Christian era stato l’idolo di tutte le ragazzine del paese che associavano al suo corpo la loro voglia di evasione ed esotismo. Ma Christian non ha avuto e non ha altra donna che sua moglie.

    Eppure anche senza colpe,

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