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Barabba, L'Ebreo errante in Carnia
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Barabba, L'Ebreo errante in Carnia
E-book364 pagine5 ore

Barabba, L'Ebreo errante in Carnia

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Info su questo ebook

Un romanzo storico che riprende e attualizza la leggenda dell’Ebreo errante, protagonista di svariate opere letterarie dal Medioevo a oggi. L’ebreo della leggenda non sarebbe Malco, il ragazzo che ha rifiutato l’acqua a Cristo che saliva il Calvario, bensì Barabba, giunto in Carnia al seguito di Pilato che, secondo un’altra leggenda, sarebbe morto proprio tra i Celti delle Alpi Carniche. Sarebbe stato lui a scolpire, duemila anni fa, il crocefisso che si trova nella grotta del Crist di Val, sul monte Lovinzola, attorno al quale si sviluppa la trama del romanzo. Tornato in Carnia all’inizio di ogni secolo, raccontando i suoi ritorni ricostruisce, tra storia e leggenda, anche la storia della Carnia. Con gli altri protagonisti si confronta sui temi dell’immortalità, della vita oltre la morte, del senso della religione nella storia dell’umanità. Non manca neppure una previsione su quello che sarà il futuro dell’umanità nell’Universo.
LinguaItaliano
Data di uscita17 lug 2019
ISBN9788893692151
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    Anteprima del libro

    Barabba, L'Ebreo errante in Carnia - igino Piutti

    978-88-9369-215-1

    Capitolo 1 - IL CRIST DI VAL

    Le montagne riservano sempre piacevoli sorprese. Pagine di storia nei resti delle trincee a ricordo di come l’inferno della guerra sia salito anche nel paradiso delle vette. Miracoli della natura in un fiore che sembra sbocciato dalla roccia. L’incanto dei panorami che si perdono nel rincorrersi all’infinito delle quinte di creste.

    Ma la sorpresa che riservano le montagne sopra Verzegnis è assolutamente unica.

    Dietro al massiccio del monte che domina il paese, e che porta lo stesso nome, alle falde dei monti Cormolina e Lovinzola, s’adagia una piccola valle. Raccolta, incantevole, suggestiva. Una grande conchiglia naturale, con al centro, come una perla, l’edificio d’una malga rimessa a nuovo. Basterebbe il fascino della piccola valle a giustificare la fatica della salita, ma la sorpresa che attende il visitatore è assolutamente originale.

    Sul crinale del monte Lovinzola, dove il pendio erboso lascia spazio alle prime rocce, ci sono delle grotte. Nulla di strano in un ambiente carsico. Ma in una di queste, la più grande, a mezza costa, ci si imbatte nella sorpresa d’un crocefisso scolpito sulla roccia in altorilievo. Ci sono anche altre sculture, simboli, parole e immagini non facilmente decifrabili. Semplici graffiti realizzati probabilmente in tempi diversi. Sulla destra della grotta l’immagine del crocefisso invece, si nota con grande evidenza, come fosse la scultura madre, che ha originato gli altri segni incisi nelle pareti della grotta.

    Una scultura di nessun pregio artistico. Appena abbozzata. Come se ne trovano in tante ancone votive in giro per la Carnia. Opera di artigiani locali. La figura del Cristo statica come nelle sculture medioevali. Ma, scolpita in una grotta in alta montagna, si carica di mistero, del fascino delle cose impreviste.

    Piero era cresciuto avendo sempre nella mente l’immagine di quel crocefisso. Dalla prima volta nella quale il nonno l’aveva portato a visitare la grotta. Portato è il termine giusto, perché non aveva ancora iniziato a frequentare le scuole elementari, e, per lunghi tratti il nonno l’aveva dovuto issare a cavalluccio sulle spalle. Il sentiero è molto lungo e per alcuni tratti impervio, non certo adatto a un bambino di cinque anni.

    A rinfrescargli il ricordo di quel crocefisso ci pensava poi il nonno ogni volta che si presentava un’occasione, a proposito o a sproposito. Si capiva che il vecchio aveva una sorta di infatuazione per quel crocefisso.

    L’aveva così costretto a ripetere la gita a ogni estate. Man mano che, con gli anni, acquistava autonomia nel camminare, il nonno cercava di fargli capire il perché di quella sorta di pellegrinaggio annuale. Un cammino di devozione più che una gita. Una devozione che, raccontava, gli era stata trasmessa dal nonno e che, si capiva, avrebbe voluto trasmettere al nipote. Una sorta di staffetta tra generazioni, per mantenere vivo il rapporto con quel crocefisso.

    Crescendo si era reso conto che il nonno era stato ammaliato da quell’immagine. S’era infatuato per quella grotta, e voleva trasmettere a lui le proprie suggestioni.

    Da come si esprimeva si capiva che era arrivato addirittura a immaginare che non si trattasse dell’opera di un uomo, ma d’una misteriosa realizzazione della natura. Come nelle grotte si formano le stalattiti e le stalagmiti, fantasticava che l’immagine del crocefisso si fosse formata nei secoli, per il concorso del vento e della pioggia, del caldo e del gelo. Un’immagine prodotta dalla natura.

    «Spontaneamente, come una concrezione calcarea che a volte sembra riproporre una figura umana» gli ripeteva.

    «Ma questo è un crocefisso che fuori da ogni dubbio è stato scolpito nella roccia» ribatteva lui, non riuscendo a capacitarsi di come il nonno non riuscisse a ragionare di fronte a un’evidenza così lampante.

    «Non mi pare ricavato dalla roccia. A me sembra quasi sia emerso dalla roccia» insisteva il nonno. Piero lo guardava, come i giovani guardano ai vecchi che a loro giudizio cominciano a sclerare. E con la cortesia che un nipote deve comunque riservare al nonno, educatamente lasciava cadere il discorso.

    Che il crocefisso detto il Crist di Val abbia qualche cosa di particolare è fuor di dubbio. Ma da qui a pensare che sia il risultato di una sorta di magia della natura, ce ne corre...!

    Scolpito da chi? Era questo il mistero che dava un’aura di sacralità all’immagine e che, nei secoli passati, aveva sviluppato la devozione della gente di Verzegnis. Ciò che è inspiegabile, di generazione in generazione, diventa magico. In paese ci si era convinti che quel crocefisso avesse il potere di far scendere la pioggia.

    Come veniva raccontando il nonno a Piero, era nata così la devozione del pellegrinaggio, una volta all’anno, a venerare il crocefisso. Pellegrinaggio che veniva ripetuto all’occorrenza quando le grandi siccità minacciavano i raccolti. Si viveva di ciò che si produceva. Un’estate senza pioggia era una disgrazia. Le piante delle patate non riuscivano a fiorire. I gambi del granoturco ingiallivano senza portare a maturazione le pannocchie. Le poche patate portate alla luce dalla vanga a settembre, e i radi chicchi portati a macinare al mulino non bastavano a nutrire le famiglie durante l’inverno. Ed era la fame, per la quale la gente moriva di stenti per le strade. Così andavano le cose a quei tempi! Per evitare la disgrazia ci voleva il miracolo della pioggia. A fame, libera nos Domine, saliva cantando allora, in processione, tutto il paese. Partivano dalla chiesa di San Martino, e alle prime luci dell’alba, raggiungevano Sella Chianzutan, per prendere poi il sentiero che da Casera Mongranda porta alla Casera di Val.

    Un anno c’era stato il miracolo. La gente era ridiscesa sotto scrosci di pioggia. È rimasta nella tradizione la sensazione del piacere al sentirsi pervasi da quel miracolo, euforici perché fradici di pioggia. Quando? Non si sa! Di certo una volta. Altrimenti non sarebbe rimasta memoria. E se c’è stato il miracolo una volta, può anche ripetersi. Con questa fede, raccontava il nonno, si saliva ancora ai tempi della sua infanzia. Quando c’era la siccità. Pregando che il miracolo si ripetesse, anche accontentandosi d’una pioggia normale. Chiedendo la grazia si saliva a piedi scalzi. Con in mano gli scarpès, le scarpette di stoffa fatte dalla mamma, per evitare si rovinassero sul sentiero sconnesso, ma, soprattutto, perché il sacrificio dei piedi rendesse più credibile la preghiera. I vecchi dicevano che, con la propria sofferenza, era più facile convincere il crocefisso della grotta a far piovere.

    A Piero con l’età cresceva la ragione e diminuiva la fede. Frequentava di rado la chiesa. Pensava che Cristo e i Santi non avessero bisogno di essere pregati per rendersi conto dei bisogni della gente. Ma il Crist di Val era qualcosa di diverso, faceva eccezione sia alla ragione che alla fede. Il nonno era riuscito a trasferirgli la sua suggestione. Con il passare degli anni, sentiva crescere il fascino, perché sentiva crescere il mistero che, sulle orme del nonno, anche lui era finito a credere si celasse nella storia di quella scultura.

    Aveva dimenticato molti dei racconti e delle cose che gli aveva insegnato a fare il nonno, ma questa no. Aveva in qualche modo fatto suo il voto del nonno, e si sentiva impegnato a ripetere come lui l’annuale pellegrinaggio, portando dei fiori al crocefisso della grotta.

    Continuava a salire, almeno una volta all’anno, per il sentiero per il quale erano salite le processioni. Con gli scarponi da montagna, ma pensando ai piedi scalzi del nonno. Portava un mazzetto di fiori e un lumino. Per l’impegno assunto con il nonno, che tuttavia sempre più diventava un impegno verso se stesso.

    Quando entrava nella grotta sentiva viva l’impressione intima di non essere solo. Gli echi del brusio del vento contro gli anfratti di roccia gli parevano respiri, a volte parole indecifrabili, appena percettibili.

    L’ultima volta però, al rientro, si era sentito profondamente insoddisfatto. Aveva avuto netta la sensazione che fosse stata la scultura del Cristo a vibrare, a emettere un soffio di voce. L’impressione che nella grotta ci fossero altre presenze s’era fatta più viva, gli era entrata dentro, gli aveva suscitato l’insoddisfazione per l’insufficienza di quel pellegrinaggio, al quale s’era abituato.

    Doveva fare qualcosa di più! Ma che cosa?

    Gli venne in mente la notte dei morti. Era solito passare in cimitero a salutare i suoi morti, quando si presentava l’occasione, portando dei fiori e un lumino. Ma la notte dei morti non mancava mai di recarsi al cimitero. Era una cosa diversa. Non era un passaggio casuale. Era un incontro importante, come il momento di festa per un compleanno. Non una visita, ma uno stare assieme. Ancora una volta, attraverso la preghiera uniti nei ricordi, nella fantasmagoria del cimitero illuminato da mille lumini.

    Ecco! Doveva trascorrere una notte lassù, assieme al Crist di Val, come la notte dei morti!

    Più si rendeva conto che la sua idea era al limite del nonsenso e più si convinceva che, un’ idea così balzana non poteva essergli entrata nella mente a caso. Peggio del nonno! Era finito per farsi prendere da una suggestione irresistibile, addirittura nella convinzione di essere entrato a far parte d’uno disegno del destino, o della Provvidenza, che dir si voglia.

    Assurdo! Certo! Ma se fosse stato vero, come sosteneva il nonno, che la natura aveva realizzato la scultura, poteva essere credibile che ora la stessa natura coinvolgesse lui. Nella successione dei tempi, poteva essere stato scelto proprio lui per farsi interprete del miracolo di quella scultura, e poi divulgarlo.

    Si sentiva comunque coinvolto in una missione di cui non capiva né il senso né la portata, salvo il fatto di sentirsi in obbligo di realizzarla.

    Qualcosa del genere era già capitato in Carnia a proposito della Madonna del sasso (dal Clàp) di Salino. Un pastore aveva trovato un sasso nel quale era scolpita la Madonna. Trasportato altrove, il sasso più volte, nella notte, si era misteriosamente riportato nel luogo ove era stato rinvenuto. Per questo si gridò al miracolo e si decise la costruzione d’una chiesa per custodire l’immagine.

    Il sasso a Salino aveva parlato muovendosi, l’immagine della grotta, seppure in modo diverso, era come se stesse parlando a lui.

    Perché una notte? Senza nessun motivo particolare. Come non c’è nulla di particolare nella notte dei morti. Ma lo sentiva come una urgenza. Gli pareva che questo sarebbe stato il modo adeguato per rispettare la volontà del nonno, per onorare la sua memoria. Come se, in qualche modo, dall’aldilà, il nonno si tenesse in contatto con lui, per chiedergli questo favore.

    Forse aveva sentito lo stesso bisogno anche il nonno. Ci aveva pensato, ma non aveva trovato il coraggio. Per lui, nei suoi racconti, la notte era popolata di streghe e fantasmi. Al primo calare delle ombre evitava di uscire, anche per le strade del paese. Immaginarsi se avesse potuto trovare il coraggio per trascorrere una notte nella grotta del Crist di Val.

    Ma Piero non aveva di queste fisime. Alle volte gli tornavano sì in mente i racconti del nonno. Però non aveva dubbi sul fatto che fossero solo favole, quei racconti sui dannati che escono dal cimitero per riprendersi il paese nella notte. Lo stuzzicava anzi l’idea di dimostrarsi superiore a quel velo di paura che si era sedimentato nel suo animo per i ricordi del nonno. Così, sin da ragazzo, aveva preso a frequentare nel buio della notte i boschi, i luoghi isolati e persino il cimitero.

    Forse proprio per questa idea di voler sfidare le paure del nonno, dimostrandosi superiore, s’era messo in testa che fosse proprio lui a chiedergli di trascorrere una notte nella piccola valle in montagna, nella grotta accanto a quello strano crocefisso.

    Da giovane aveva preso in giro il nonno per la sua fissazione sul Crist di Val. Ora, diventato nonno a sua volta, riviveva le idee che gli aveva trasmesso, con una convinzione ancora maggiore, con intensità quasi maniacale.

    Negli ultimi anni, durante la sue visite aveva potuto rendersi conto dello stato d’avanzamento dei lavori per la ricostruzione della Malga di Val. Proprio al centro della piccola valle, accanto ai resti della vecchia casera, demolita dalle slavine e dall’incuria, il Comune aveva deciso la costruzione di un edificio, che ricordasse quello del passato. Però, invece che pensare a un restauro, l’Amministrazione aveva ritenuto più conveniente realizzare un edificio completamente nuovo, anche nell’impostazione.

    «Per chi?» era il commento che sentiva più di frequente, quando incontrava qualche raro escursionista che guardava perplesso lo sviluppo della nuova costruzione. «Dal momento che non ci sono più animali, da portare in malga!»

    Era una domanda che si poneva anche lui. Ma tra le tante opere inutili che vengono realizzate con soldi pubblici quella, (non capiva bene perché!) gli pareva un po’ meno inutile. La vedeva come una sorta di pregevole monumento a ricordare la storia, indipendentemente dalla possibilità di diventare di una qualche utilità per l’economia del territorio.

    Conclusi i lavori. Festeggiata l’inaugurazione. Com’era prevedibile, per la nuova malga non c’era alcun progetto e nessuna previsione d’utilizzo. Fu così che nella solita visita annuale alla grotta, gli passò per la mente l’idea che quell’edificio fosse stato costruito, non per ricoverare animali, ma come base d’appoggio in una prospettiva di valorizzazione turistica della grotta del Crist di Val.

    In un certo senso quindi, che fosse stata costruita per lui, per coinvolgerlo in un disegno misterioso voluto da quel Cristo scolpito nella roccia. Non avrebbe dovuto trascorrere la notte proprio nella grotta, come si sentiva chiamato a fare. Ora gli veniva data la possibilità di mantenere l’impegno, alloggiando nella costruzione realizzata ai piedi del pendio nel quale si trova la grotta. Ecco che in qualche modo trovava un senso anche la sua idea balzana d’una notte assieme al Crist di Val. La sua notte, sarebbe diventata la prima di tante notti trascorse da tanti turisti, presi dalla sua stessa suggestione per il crocefisso della grotta.

    Ispezionando la nuova costruzione, complimentandosi con il progettista, con l’impresa e con gli operai per la maestria con la quale era stata realizzata, si sentì come chiamare, come ci si sente attratti per i luoghi della propria infanzia, che pare ci parlino quando li rivediamo.

    D’istinto gli venne l’idea che avrebbe provato piacere a viverci, anche per più di una notte. Per questo si provò a chiedere al Sindaco il permesso di utilizzare la casera della nuova malga. Immaginava ci fosse qualche difficoltà burocratica e invece, dopo alcuni giorni, senza alcuna difficoltà, ottenne le chiavi. Forse perché la sua richiesta consentiva al primo cittadino di sgravarsi la coscienza civica del peso di quel bene comunale tanto costato, quanto di improbabile utilizzazione. Non c’è acqua infatti nella piccola valle e sarà molto difficile se non impossibile gestire in termini economici un alpeggio in quelle condizioni.

    Capitolo 2 - IL PROFESSORE

    Il nonno materno aveva lasciato in eredità alla mamma di Piero una casa enorme. Lei, rimasta vedova, per mantenere la famiglia, vi aveva attivato un’attività di affittacamere. Piero, dopo aver girato l’Italia per il suo lavoro di rappresentante, in pensione, aveva ripreso l’attività della madre. I tempi erano cambiati. Le esigenze erano diverse. L’affittacamere era diventato un moderno B&B ristrutturato e sistemato con ogni comfort, al quale aveva voluto dare il nome originale di La Gerla Blu.

    La gerla è il cesto di vimini, sagomato in modo da poter essere caricato sulle schiena a mo’ di zaino. Il richiamo allo strumento a cui è legata la storia della Carnia, voleva essere di buon auspicio per il successo dell’attività. L’aggiunta del blu come colore dello strumento, era legato al colore con il quale aveva voluto caratterizzare l’edificio rimodernato. Si collegava anche al fatto che il colore blu è legato alla serenità. Era questa la parola, il marchio, con il quale voleva si caratterizzassero i soggiorni nel locale.

    Quello che si è anticipato sulla sua infatuazione sul Crist di Val, non deve trarre in inganno. Non è un poeta con la testa tra le nuvole che si lascia prendere dalla suggestione per i crocefissi. Al contrario è un uomo tutto concretezza e materialità. Tutto preso dalla gestione della sua attività. La piccola impresa lo assorbe. Vuole che cresca. Studia tutte le modalità con le relazioni interpersonali e con l’utilizzo di internet per incrementare l’afflusso dei clienti.

    La sua passione per il Crist di Val era una eccezione. L’unica debolezza che si concedeva. Per colpa del nonno che l’aveva infettato con quell’insano rapporto con quella scultura. Forse con l’idea delle notti trascorse in malga, avrebbe potuto mettere una pietra definitiva su questa sua unica concessione alla fantasia.

    Fu comunque costretto a rimandare di alcuni giorni il progetto delle notti in malga, perché al B&B gli era arrivato un ospite particolare. Gli era stato raccomandato da un professore suo carissimo amico che era solito chiamare l’amico di Cazzaso, unendo al termine amico, usato per antonomasia, quello del paese d’origine. Per deferenza verso l’amico non poteva lasciar solo l’ospite. Ma non l’avrebbe lasciato comunque, perché gli era subito entrato in simpatia. Era rimasto subito interessato e coinvolto dal racconto dei motivi per cui era stato costretto a chiedere ospitalità, e anche dall’argomento su cui stava studiando al momento.

    Anche il nuovo ospite era un professore. Ma non di Liceo, come l’amico di Cazzaso, proprio un professore emerito, da poco in quiescenza, che aveva insegnato storia moderna all’Università di Udine.

    Tra i suoi temi d’interesse, come ricercatore universitario, era entrata anche la Carnia. Era rimasto colpito da come le difficoltà del vivere in montagna avessero sviluppato un forte senso di comunità. Lo stesso sentimento che aveva colpito a suo tempo il Carducci. Il poeta infatti, soggiornando in Carnia, per curarsi alle terme di Arta, in meno di un mese di presenza, aveva saputo cogliere, nella lirica Il Comune Rustico, l’essenza della carnicità in quell’essere comunità. In analogia il professore aveva intitolato uno dei suoi studi sulla storia dei territori della montagna friulana, proprio Comunità di Carnia.

    Ma il suo rapporto con la Carnia non si era fermato a livello di studio, in qualche modo se ne era innamorato, e aveva deciso di venire a risiedervi. Durante una gita nella quale stava portando i suoi studenti a scoprire il territorio carnico, era stato suggestionato dall’incanto dei panorami che si godono dalle frazioni di Tolmezzo, alle falde dei monti Dobis e Diverdalce.

    D’accordo con Sindaco e Parroco aveva individuato nella canonica della frazione di Fusea, inutilizzata e abbandonata, la sua ideale residenza. Con la passione che ci mettono gli uccelli nel realizzare il nido, quando ritengono d’aver trovato il ramo ideale, s’era un po’ alla volta costruito, in conto affitto, un alloggio a sua misura, carico di buone intenzioni e tanti libri.

    Purtroppo il nuovo parroco, per qualche suo motivo, s’era fatto premura di sfrattarlo d’urgenza e s’era così trovato come un uccello a cui è stato distrutto il nido.

    Durante il suo soggiorno a Fusea il professore era entrato in contatto con un suo collega, l’amico di Cazzaso, appunto. Non un ricercatore al suo livello. Un appassionato di leggende più che di storia. Uomo di fantasia più che di scienza, che però era riuscito a coinvolgere anche lui in una ricerca su una leggenda.

    Assieme avevano già fatto un bel lavoro di studio sull’originalità delle frazioni di Fusea e Cazzaso del Comune di Tolmezzo. Due paesi distanti tra loro meno di un chilometro, isolati a mezza montagna, a un’ora di strada dal capoluogo. Logica vorrebbe che nei secoli avessero realizzato una storia di collaborazione intensa. Invece, spulciando negli archivi, i due professori avevano ricostruito la storia di un conflitto continuo. Una competizione senza tregua, legata forse al fatto che Fusea, disponendo di molti prati e anche di malghe era economicamente forte. Cazzaso invece, più piccola, con poco territorio a disposizione e per giunta messa in pericolo da un movimento franoso, sentiva una sorta di complesso di inferiorità nei confronti del paese vicino. Come succede tra le persone, anche tra i paesi, chi soffre la propria inferiorità, invece di ammetterla, cerca di coprire con atteggiamenti di superiorità il proprio complesso.

    Così tra i due paesi, invece di un rapporto di collaborazione, si era sviluppata una competizione pressante e una vivace contrapposizione. Fino al paradosso d’aver sviluppato due dialetti diversi. A Fusea si usa il friulano con la finale in a, a Cazzaso con la finale in e. Ma ci sono anche termini diversi per indicare lo stesso oggetto. Il secchiello con cui si era soliti portare la minestra nei prati a Fusea è la remine a Cazzaso la bandine.

    Ma il paradosso all’incontrario, che aveva incuriosito i due amici, era il fatto d’un termine, quello per indicare il fiore dei mughetti, usato in esclusiva solo nei due paesi. Vìlies si chiamano in friulano in tutto il resto della Carnia, sinsilimins invece, a Fusea e Cazzaso. Alla peculiarità dell’uso, si univa la particolarità del nome, tanto peculiare quanto originale perché non collegabile etimologicamente a nessun altro termine.

    I due erano quindi arrivati a concludere, (ma la conclusione era senza dubbio dell’amico di Cazzaso, noto per i voli pindarici con i quali era solito costruire leggende fantasiose), che il nome avesse a che fare con le leggende del popolo dei piccoli uomini.

    A suo parere infatti il nome dimostrava che il mito degli Sbilf, il popolo dei piccoli uomini di Carnia era nato nei due paesi alle falde del Diverdalce. I miti nell’antichità greco e romana nascevano per personificare i sentimenti. Eros o Cupido dio dell’amore che scocca le frecce con il suo arco, personifica la casualità con cui a volte nasce l’amore tra due persone. Gli Sbilf, i minuscoli gnomi della tradizione carnica, che vivono nel bosco, personificano l’originale modo di sentire la natura dei carnici. Gli Sbilf sentono il brusio delle piante nuove che riescono a spuntare dalla terra, il fruscio dell’erba che cresce, l’alitare delle corolle dei fiori. E allo stesso modo sentono il suono delle piccole campanule dei mughetti che fanno appunto, sin-si-li-min. I carnici hanno inventato il mito degli Sbilf a dire che anche loro sentono il bosco, l’erba i fiori come qualcosa che vive. L’ambiente partecipa dell’anima del mondo, e parla all’anima degli umani che sanno riempirsi del silenzio necessario per sentire il vivere della natura.

    Anche l’amico di Cazzaso aveva insegnato storia, non all’Università però, ma al Liceo Pedagogico di Tolmezzo. Cercando di immaginare e di spiegare ai suoi alunni la storia dell’Italia come è stata vissuta nei secoli dal Friuli, era finito a convincersi che non si poteva capire veramente la storia della sua terra, se non si entrava anche nel mondo delle leggende che si tramandano in Friuli.

    Nei paesi, fino a prima dell’ultima guerra, la gente era solita trovarsi in file. Gli abitanti, radunati nella stalla di qualcuno, per usufruire del tepore creato dagli animali, si raccoglievano attorno a un vecchio che raccontava. Un po’ ripeteva ciò che a sua volta aveva ascoltato, un po’ inventava. Per questo, le leggende si sono venute modificando nel tempo. La versione ultima è il risultato di una sorta di stratificazione. Come avviene con la stratificazione geologica. Attraverso l’esame dei singoli strati che hanno formato le rocce, si riesce a risalire alla storia di come nei millenni s’è venuto conformando un territorio, così con la stratificazione delle leggende si riesce a risalire a qualcosa di più profondo, all’anima di un popolo. Sosteneva lui. La storia, ricostruendo i fatti, ripropone le persone del passato come attori di quei fatti, nelle leggende si ritrova invece il modo di sentire e di concepire la vita di quelle persone: la loro anima.

    Quando era bambino lui, nell’immediato secondo dopoguerra, questa usanza delle file si era già persa. Suo nonno però avrebbe ben potuto fare da conduttore di quelle riunioni. Era l’ultimo erede di quella tradizione dei contastorie. Non avendo più il pubblico delle stalle, usava lui, il nipote, come suo pubblico privilegiato.

    Molto di ciò che gli aveva raccontato, l’aveva dimenticato. Ma con il passare degli anni, diventato anche lui vecchio come il nonno, veniva recuperando nella memoria frasi e nomi che aveva sentito nell’infanzia. Come fogli portati dal vento e recuperati negli anfratti della memoria, si trovava a inseguire e cercare di appuntare parole e scene.

    Gli era così da qualche tempo tornato alla mente un nome, e il foglio strappato d’un racconto. Il nome dell’Ebreo errante e la storia di un ebreo costretto a camminare senza sosta fino alla fine dei secoli, per una maledizione che gli aveva lanciato Gesù, mentre saliva al Calvario. Si era subito appassionato all’argomento, cercando di capire come s’intrecciano realtà e leggende nella storia dell’umanità. In questo caso, gli era riuscito di trasmettere la sua passione anche all’amico professore universitario.

    Talmente infervorato che, sfrattato, aveva cercato una alternativa per restare ancora qualche giorno in Carnia, proprio nella giustificazione di dover completare le sue ricerche sull’argomento. Per questo il collega di Cazzaso gli aveva suggerito di prendere alloggio nel B&B del suo amico a Verzegnis. Così aveva fatto.

    L’ipotesi su cui aveva preso a lavorare, e che aveva preso a raccontare anche a Piero, era che l’Ebreo errante fosse il Barabba che aveva lasciato il posto sulla croce a Jeshù. Un’intuizione che gli era stata passata dall’amico di Cazzaso, che evidentemente era rimasto in qualche modo suggestionato dalla figura evangelica di Barabba. In un suo romanzo, intitolato Quid est veritas, cosa è la verità?, si sostiene infatti la tesi che sia stato Barabba e non Jeshù a essere crocefisso.

    Invecchiando, ci aveva evidentemente ripensato e si era ricreduto. Così non dava più Barabba per morto al posto di Cristo, anzi, al contrario, immaginava fosse diventato immortale.

    Una idea più pazza dell’altra! Una idea legittima per uno storico leggendario, come amava definirsi l’amico di Cazzaso, non per uno come lui, che aveva veramente fatto il ricercatore a livello universitario. Ma non c’è nulla di meglio che riempirsi la testa di qualcosa di diverso, quando la si vuol svuotare di qualcosa che fa male. Per questo s’era dato con impegno a ricostruire come la leggenda si fosse tramandata in Carnia e con quali varianti.

    Capitolo 3 - L’EBREO ERRANTE

    Non la smetteva di raccontare a Piero di come si fosse lasciato coinvolgere a interessarsi a questa leggenda, dal loro comune amico di Cazzaso.

    S’era subito impegnato e aveva così scoperto che risale al Medioevo. Già nel secolo VII, viene attribuita a un tale Giovanni Mosco.

    Protagonista di solito è Malco il soldato che avrebbe arrestato Cristo nell’orto del Getzemani. Sarebbe stato condannato a vivere in un carcere sotterraneo, sino alla fine del mondo. In una prima variante, nel XIII secolo in Sicilia, al posto di Malco si trova un certo Cartafilo, un portiere del pretorio di Pilato, che con malagrazia avrebbe detto di spicciarsi a Gesù che si stava avviando al Calvario. Questi gli avrebbe ribattuto: Io vado ma tu aspetterai finché io ritorni.

    In Italia, in autori come Boncompagni da Signa ma anche in Cecco Angiolieri il protagonista della leggenda è un certo Bottadeo (Joannes Buttadeus), condannato a fare il pellegrino sino alla fine del mondo. In Germania, dopo la Riforma, la leggenda assunse la sua forma completa. Protagonista diventò un tale Aasvero, nei paesi bassi invece Isacco Lakedem. Tutti comunque condannati a non poter morire. Tema su cui si sono poi esercitati diversi poeti romantici.

    È una leggenda che da un lato si richiama al Vangelo e al fatto, attribuito a gloria dell’apostolo Giovanni, che non gusterà la morte fino al ritorno del Figlio dell’uomo. Per un altro verso invece si richiama a Caino, il primo dei sacrileghi grandi peccatori, condannati a sopravvivere in eterno, perseguitati dal tormento del rimorso.

    I poeti moderni, a iniziare da Goethe, hanno visto in Aasvero immortale, l’ironico

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