Variabili Cefeidi
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Collana Sentieri: narrativa italiana
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Variabili Cefeidi - Angelo Pio Villani
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Capitolo 1
L’auto della Polizia Municipale piombò nella Piazzetta dei Frati Cappuccini alle quattro di notte, con una velocità a cui il conducente, il Maresciallo Puzzovivo, non era abituato.
Le ruote, ormai lisce per la scomparsa del battistrada, impedirono il controllo preciso del guidatore, col risultato che la macchina, dopo la frenata, continuò la propria corsa sul selciato per altri quindici metri.
Quando finalmente si fermò, l’autista fu costretto a fare retromarcia, mentre s’intuiva che il passeggero seduto sul sedile posteriore stava imprecando, per la figuraccia e la perdita di tempo.
Il lampeggiante, in disuso da molti anni, più che una luce emanava un alone pallido, e la sirena, che in epoche lontane aveva infastidito ladri di polli e bracconieri, ormai assomigliava al guaito di un cucciolo di chihuahua.
La manovra improvvisa non fu intuita da una seconda auto, che sopraggiungeva a forte velocità dietro quella della Polizia Municipale, con il risultato di un botto sordo fra le due vetture che sancì il decesso congiunto di luce blu e sirena.
Il Comandante dei Vigili Urbani scese dalla vettura e diede un pugno sulla cappotta dell’auto, generando un effimero e ingannevole afflato della sirena e un ultimo semigiro del lampeggiante, che poi si arrestarono definitivamente.
«Puzzovivo, sei il solito coglione!» gridò il Comandante, mentre dalla seconda auto scendeva l’altro conducente, il cui pallore del volto quasi rischiarava il buio della notte, prossima all’alba.
«Comandante, spero non si sia fatto nulla», corse ad assicurarsi l’uomo, lungo e segaligno.
«Certo che no» rispose il Comandante, «ma dovrò sbloccare il concorso per l’assunzione di nuovi Vigili Urbani, nella speranza che fra idioti e raccomandati ci sia almeno uno che sappia guidare!»
Puzzovivo si decise a scendere anche lui dall’auto, rassegnato a subire gli ulteriori insulti del superiore, ma nella concitazione dimenticò di inserire il freno a mano e la macchina, proprio mentre scendeva, si mosse.
Il maresciallo perse l’equilibrio e rovinò a terra, ai piedi di uno sconsolato Comandante; l’auto invece terminò lentamente la propria corsa piantandosi contro un cartello stradale di pericolo che segnalava: Attraversamento animali.
«Pericolo attraversamento coglioni... Dovremo mettere la tua foto su quel cartello!» inveì il Comandante.
Nel frattempo una terza vettura, con i vetri oscurati, arrivò, silenziosa, a chiudere quella piccola carovana: spense motore e fari, e sembrò non dare più alcun segno di vita.
Dalla seconda auto scesero altre due persone, vestite di abiti scuri che li rendevano quasi invisibili a quell’ora della notte; una stringeva fra le mani una valigetta di pelle marrone.
Il plotoncino attraversò la piazzetta e si diresse, deciso, verso la chiesetta dedicata alla Madonna di Guadalupe.
All’interno, a quell’ora inconsueta, si stava celebrando il singolare matrimonio fra Mimmo Fanfulla e Donata Cazzorla.
I due, insieme al testimone di Mimmo, Filippo Totarofila, erano da tutti conosciuti come Warriors, soprannome partorito dalla mente aguzza dei turbolenti ragazzini del paese.
In realtà si trattava di tre ex detenuti del manicomio criminale, chiuso molti anni prima, unici occupanti di un appartamento cadente, situato vicino alla canonica della parrocchia, destinato a essere abbattuto per consentire la costruzione di un centro commerciale.
Il matrimonio fra Mimmo, che innamorato della cantante Mina, si era convinto di esserne il reale compagno, a tal punto da essere conosciuto da tutti come Dottor Quaini, e la dolce e silenziosa Donata, trasformata arbitrariamente dalla mente bislacca dell’uomo in Mina, oltre a coronare quel sogno d’amore, nato fra le mura dell’ospedale psichiatrico, sanciva la costituzione di un vero e proprio nucleo familiare.
Pertanto diventava impossibile effettuare lo sgombero coatto di quella che diventava a tutti gli effetti una famiglia, con conseguenti difficoltà ad abbattere la bicocca.
L’orario strampalato della celebrazione era stato stabilito da Don Franco, non appena questi era venuto in possesso del certificato di morte del marito di Donata, un balordo che aveva messo incinta in giovane età la donna, per poi sparire nel nulla.
Il decesso, avvenuto in Messico, era stato comunicato con un fax pervenuto nell’ufficio dell’avvocato Santoiemma, che aveva curato l’istruzione della pratica legale per l’accertamento di morte.
Il prelato, che mal tollerava i progetti commerciali attigui alla casa del Signore, aveva dunque affrettato i tempi, per impedire che le ruspe iniziassero la loro opera distruttiva.
Appoggiato al portone d’ingresso della palazzina, dopo aver goduto delle emozioni del giuramento d’amore pronunciato davanti a Dio da Mimmo e Donata, non ero stato notato da nessuno.
Evitai dunque di spostarmi: qualsiasi movimento avrebbe fatto gemere quel legno, tarlato e scricchiolante, tradendo la mia presenza.
E la mia amicizia con i Warriors m’inseriva nel gruppo dei nemici degli imprenditori, impazienti di portare a termine la nuova costruzione, sebbene beneficiassi del rispetto che imponeva il ruolo di unico medico condotto del paese.
L’irruzione a cui stavo assistendo, al limite della farsa, poteva significare una sola cosa, e non prometteva nulla di buono: qualcuno era venuto a conoscenza, in tempo reale, della cerimonia e stava provando a interromperla; ma per fare ciò doveva avere argomentazioni ineludibili.
Nell’ultima vettura, silenziosa, intuii potesse trovarsi l’Eccellenza oscura che sovraintendeva all’intera operazione commerciale.
L’autista della seconda auto era, invece, un falso meneghino, prestanome e prestafaccia degli imprenditori che avevano acquistato il terreno su cui sorgeva la palazzina e che scalpitavano, sempre più nervosi, per i ritardi accumulati sulla tabella di marcia che avevano ipotizzato.
La frequentazione di quello spilungone, a quell’ora della notte, con il Comandante della Polizia Municipale, confermava che la stretta alleanza fra politica, istituzioni e interessi economici, anche in quel paesino di poche centinaia di anime, era una realtà immodificabile e pericolosa.
«Puzzovivo, fermati qui fuori», sentenziò il Comandante, «e almeno per dieci minuti dimenticati di essere un coglione! Tieniti pronto a chiamare i rinforzi, se serviranno.»
Puzzovivo si guardò bene dal chiedere a quali rinforzi alludesse il Comandante: l’organico della Polizia Municipale era costituto da soli sei elementi, tre dei quali prossimi alla pensione, con relativi acciacchi e invalidità più o meno riconosciute.
Degli altri due, uno era in congedo matrimoniale, fuori dal continente, l’altro era smontato dal turno della notte precedente e non avrebbe abbandonato il letto a quell’ora, neanche sotto le minacce più orrende, se mai qualcuno fosse riuscito nell’impresa di svegliarlo per potergliele comunicare.
«Signorsì, Comandante» annuì Puzzovivo, sperando di non dovere un giorno pentirsi di non aver esternato preventivamente i propri dubbi.
La cosa peggiore per un sottoposto è intuire qualcosa che un Capo non abbia considerato e, magari, quando le cose vanno male, sentirsi chiedere: ...e tu non ci avevi pensato?
In quel vicolo cieco, a quel punto, qualsiasi risposta risulterebbe sbagliata.
Continuai a rimaner fermo, mentre mi chiedevo come quei manigoldi avessero potuto intercettare le intenzioni di Don Franco; era però tardi per recriminare su delatori e potenze del male.
Un gruppetto di quattro uomini era quasi arrivato al portone della chiesetta.
Si preannunciava un’alba turbolenta.
Capitolo 2
«Prima della benedizione finale, cari Mimmo e Donata, devo leggervi gli articoli di Legge che regolano, anche civilmente, l’unione celebrata davanti a Dio.»
Don Franco avrebbe volentieri evitato le incombenze burocratiche che il Diritto Civile e quello Canonico gli imponevano al termine di ogni matrimonio: che senso avevano quelle paturnie cavillose all’interno di una cerimonia religiosa?
L’impegno sancito davanti a Dio, pensava, è di per sé eterno e indissolubile, e il sì di quel sacramento valeva più di mille articoli di Legge e di centomila parole aride e tecniche.
Per di più il sacerdote era certo che le leggi potevano sempre cambiare, ma l’unica Legge di Dio, l’Amore, non sarebbe mutata mai.
Mentre il corpulento ministro di Santa Romana Chiesa, con disagio evidente, stava per iniziare a declamare quella pappardella ineludibile, il portone d’ingresso della chiesetta si spalancò, silenzioso.
Don Franco sollevò lo sguardo e sgranò gli occhi nel vedere entrare quattro figuri, due dei quali conosciuti.
La sorpresa di quella visione fu contemporanea alla lucida intuizione di ciò che stava per accadere, ma il sacerdote si sforzò d’illudersi che nessuno avrebbe mai osato tanto.
Tacque per qualche secondo, ma gli astanti, che volgevano le spalle all’ingresso, non si accorsero di quell’inaspettata invasione, a eccezione di Vincenzoilsagrestano che tuttavia rimase impassibile sull’altare, accanto al parroco.
L’unico, impercettibile, movimento fu quello di avvicinare appena la mano al turibolo, già pronto per l’incensazione dell’icona della Madonna di Guadalupe, gesto con il quale si concludeva qualsiasi cerimonia nella chiesetta.
«Articolo 143 del Codice Civile: con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono...»
Un colpo di tosse dal fondo della Chiesa tradì la presenza dei nuovi arrivati.
Tutti quelli che erano nei banchi si girarono, fuorché Mimmo e Donata, che continuarono a bearsi dei reciproci sguardi.
I presenti si divisero fra sorpresi e perplessi, poi rivolsero nuovamente lo sguardo all’altare.
Filippo istintivamente si avvicinò agli sposi, che da sempre proteggeva.
Don Franco continuò: «...con il matrimonio s’impegnano a...»
«Don Franco , la prego, si fermi!» implorò il Comandante.
«Come osa interrompere una cerimonia religiosa?»
«Veramente sto interrompendo...»
«Innanzitutto in questo posto si entra facendo un segno di Croce e nessuno di voi lo ha fatto! Dunque uscite, e quando rientrate salutate il Padrone di questa Casa come si conviene.»
Il falso meneghino, uno dei quattro intrusi, stava per replicare, ma il volto paonazzo del Comandante, evidentemente a disagio per l’ingrato compito che stava svolgendo, in quella chiesa che lo aveva visto sposo, padre, e anni dopo orfano, lo convinse a tacere.
«Don Franco ha ragione» sussurrò. «Usciamo!»
Gli uomini retrocedettero verso il portone, ma mentre, per ultimo, il Comandante si accingeva a varcarlo, senza mai dare le spalle all’altare, arrivò una nuova sferzata.
«Segno di Croce e capo scoperto!»
Ancor più contrito, l’uomo si levò il cappello d’ordinanza dalla testa per portarlo sotto il braccio sinistro.
Il plotoncino uscì, per poi rientrare subito; il Comandante intinse la mano destra nell’acquasantiera, simulò una genuflessione incompleta e fece il segno della Croce, imitato, sia pure di malavoglia, dagli altri tre.
Gli sguardi dei presenti in Chiesa erano diventate lame incandescenti.
Filippo si avvicinò ancor di più agli sposi.
La Generalessa delle Sorelle Vincenziane, da sempre nemica del falso meneghino e dei suoi programmi commerciali, contrasse i muscoli e fece vorticare le sopracciglia, esalando odio.
«Cosa cercate, a quest’ora della notte, nella Casa