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Nove C.
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E-book182 pagine2 ore

Nove C.

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Info su questo ebook

Diego Capecchi, trentacinque anni. Responsabile marketing di un’azienda di moda. Un lavoro che odia, ma che va inspiegabilmente a gonfie vele. Anni di convivenza con Giulia. Finiti improvvisamente. Lei amante della montagna e alpinista. Lui no, almeno fino al loro incontro. Una passione profonda per le vette esplosa come l’amore per questa ragazza trentina sensibile, imprevedibile e taciturna. Difficile dimenticare. Poi Dafne. Un meraviglioso incastro imperfetto. Saranno le nevi perenni dell’Islanda e un incontro inatteso in un pub di Reykjavík a ricomporre il puzzle della sua vita. Intanto il climber ceco Adam Ondra sarà impegnato con il progetto più difficile mai realizzato in arrampicata. Silence. Difficoltà Nove C.

Firenze, classe ’82. Adottato dal mare. Appassionato di vette. Umilmente. Con il cuore tra i dischi.
LinguaItaliano
Data di uscita3 mar 2019
ISBN9788835374411
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    Anteprima del libro

    Nove C. - Dario Ricci

    C

    Buongiorno?

    These old streets of shame

    Will they ever look the same

    Will they remember our name

    Just ask the dust

    Love is not enough

    Harper & Musselwhite mi ricordano che sono le sette e mezzo. Blues e numeri. Diciotto più diciassette. Trentacinque. La mia età.

    Un attimo ancora prima di svegliarmi del tutto. Dovrei darmi una mossa. Mal di testa. Una borsa appesa all’appendiabiti mi guarda. Sorride. Sorniona. Beffarda e spietata come chi la portava. Sparita dopo aver donato la vagina a un chicchessia sconosciuto.

    Due anni e mezzo passati insieme in questa casa. Poi via. Andata. La spiegazione non è stata neanche troppo originale.

    «Non sei tu, ma forse nemmeno io».

    Una versione più avanzata e bi-partisan della solita formula.

    Il letto è una fossetta lato destro. Lato sinistro intatto. Si dice che la bellezza di poter dormire da solo in un letto matrimoniale, stia nel poter utilizzare ogni parte del letto. Io dormo rannicchiato, mi rifiuto di riempire il vuoto. Giulia.

    La sveglia mi ricorda della riunione mensile con il Presidente. Ho bisogno di un’aspirina. Una notifica. Succede nel mondo: «Raid. Oltre cento morti in Siria».

    Trenta passi per la cucina. Apro la dispensa. Biscotti. Vecchi. Da una prima stima direi non meno di tre mesi. La spesa è un concetto faticoso in questo periodo.

    Caffè. Macchinetta da due. Facciamo quattro. Il colore della fiamma che ipnotizza.

    Trambusto mi guarda miagolando. Non ricordo se ieri sera abbia mangiato. Rimedio come posso. Ciotola. Croccantini. Finisco il sacchetto. Probabilmente è una dose per almeno due giorni. Sembra soddisfatto.

    Lei. Tornerà? Le domande si aggrovigliano mentre mi scotto la lingua col caffè. Venere in quadratura. Così aveva sentenziato un’amica. Troia. Gli amici. Correnti filosofiche diverse.

    Scaccio i pensieri confusi.

    Chiavi, cellulare, portatile. Sembra esserci tutto. Maniglia. Porta aperta. Esco.

    Incrocio un paio di condomini che mi chiedono come sto.

    Hanno visto Giulia con gli scatoloni in mano, mentre scendeva le scale. Devo fare molta pena visto l’espressione della signora. Bene signora. Bene. Sto bene.

    Scrivania

    Vetro e acciaio. Otto ore della mia giornata in questo anonimo palazzone. Dicono sia al passo con lo stile architettonico mitteleuropeo. Il logo aziendale ben visibile sulla facciata. La Serpe. Un aspide nero su sfondo giallo.

    Il mio lavoro. Head of Global Marketing. Una di quelle posizioni che su Linkedin sembrano interessanti per davvero. Passo la mia giornata a rispondere a richieste assurde di ricche persone annoiate alle prese con l’ansia.

    Scivolo via dall’atrio principale, evitando i sorrisi mattutini delle receptionist. Primo corridoio. Secondo corridoio. Riesco a schivare gli sguardi di tutti. Le mie colleghe sono proprio davanti alla scrivania. Le scavalco. Sguardi infastiditi. Mi sto sulle palle pure io. Contemplo lo schermo nero ancora spento del pc. Il mal di testa è tornato. Aumenta. Proporzionalmente al rumore dei tacchi di Maddalena.

    Prego che non mi stia per chiedere come sto.

    «Ciao Diego».

    Pausa.

    «Come stai?».

    Pausa.

    Il Valahlla. Penso che meriterei uno sconfinato deserto di ghiaccio con molto silenzio.

    «Bene».

    «Non si direbbe».

    Se dicessi la verità, taglierebbe corto. Il mio disagio in fondo la infastidisce. Qui siamo nel mondo del #solocosebelle. Vendiamo vestiti a ragazzine ricche e anoressiche, ma con le tette grandi.

    Ho ancora meno di mezz’ora per recuperare una manciata di dati da dare in pasto alla Direzione. Un paio di tabelle e molti grafici. Colorati. Il più possibile. Servirà a distrarli. In fondo i dati non sono per tutti. Come la verità. Inserisco immagini. Come i bambini guardano le figure. Chiudo e salvo.

    E adesso la Riunione. Con il Presidente. Luca Serpentini. L’appuntamento più temuto in azienda. Le facce tese dei miei colleghi mi ricordano quanto il lavoro possa trasformare le persone.

    Lo stagista ha gli occhi rossi. Vorrei si fosse sfondato di canne, invece ha solo fatto mezzanotte davanti a uno schermo. Come se il suo destino dipendesse da quello che dirà tra pochi minuti.

    Risponde alle mail anche dopocena. La settimana scorsa, mi ha confessato con un certo orgoglio che si è messo a lavorare al ristorante. Era il compleanno della sua ragazza. Me lo immagino lì, preso dai tasti luminosi con lo sguardo rapito dallo schermo. La fidanzata che cerca di parlargli. Se esistesse una giustizia divina lei si dovrebbe almeno far sbattere dall’istruttore di yoga. Così. Anche solo per ristabilire l’equilibrio delle cose.

    Alla Riunione si sopravvive in maniera piuttosto semplice. Sorridere e dire meno verità possibili. Destreggiarsi tra la fauna aziendale. Regine, vassalli e mostri mitologici. Scansare ogni tipo di attrito. Sorridere ancora. Emozionare. Motivare. Una bella presentazione fatta di aforismi sostituirebbe ogni analisi seria e puntuale. Nessun pensiero che possa stridere. Qualunque criticità va inserita nell’ultima slide. Nessuno la leggerà. Saranno già tutti annoiati a quel punto.

    Chiudo il portatile. È ora. In fila verso l’ufficio della Direzione.

    Il Presidente punta il nuovo schermo da un milione di pollici.

    «I miei ragazzi».

    Il suo benvenuto.

    Sul video le foto delle ultime vacanze a Mykonos. Sci nautico. Primo Premio di un torneo sconosciuto. I miei colleghi applaudono compiaciuti le gesta sportive di Serpentini. Devo ricomprare i croccantini a Trambusto.

    Bottigliette d’acqua sparse sul tavolo di vetro. Ne apro una. Un sorso. Sono pronto.

    Un preambolo di venti minuti sulle nostre nuove strategie. Il sopracciglio alzato del Presidente rivela una verità piuttosto banale. Non ha capito un cazzo.

    «Quindi?».

    Un altro sorso. Fingo di trovare una risposta intelligente. Ci guardiamo negli occhi.

    «Quindi, grazie al blasone del nostro marchio, siamo e continueremo a essere la Serpe, nel mondo».

    Il Presidente applaude divertito. Maddalena mi abbraccia.

    Valahlla.

    Carbonara con panna

    Pizza d’asporto. La soluzione ad ogni problema.

    Qualche mese fa avrei passato una ventina di minuti tra lo scaffale del vino e i prodotti DOP. Nebbiolo o Chianti? Paste di Meliga per colazione? Per anni ho fatto la spesa nei piccoli negozi del mio quartiere, tra zucchine bio e arance siciliane. Quelle vere. Il cibo buono è sempre stato il mio vizio. A dire il vero a Giulia non dispiaceva affatto. Adesso torno a casa e rovescio la lattina del tonno direttamente dentro a quella del mais precotto, evitando di sporcare il piatto per non lavarlo. Epoche diverse. Sto vagando tra gli scaffali alla ricerca di un’idea chiara per la cena di stasera. Una visione. Tortellini. Panna e prosciutto. Mia nonna non mi ha mai fatto mangiare cose con la panna. Un tabù. Soprattutto i tortellini. Solo una volta tornato da scuola, mio nonno li cucinò di nascosto. Trasgressione. Passo davanti allo scaffale delle conserve. Panna e prosciutto sia. Panna da cucina e Giulia. Così l’ho conosciuta. Qui. In questo supermercato. Tre anni fa.

    Ero stato assunto da pochi mesi. Il Presidente mi aveva cazziato per un post su Facebook. Una foto con una scritta celeste. Il celeste era cheap. Era la prima volta che mi trovavo ad aver a che fare con il razzismo cromatico. Impalato davanti allo scaffale delle marmellate. More o Prugne? Vicino a me la voce di una ragazza che urlava al telefono.

    «Dai Marta, facciamo che prepariamo una cena così al volo senza perdere troppo tempo. Certo. Marta ho capito! Che cosa me ne frega se non viene un gran che, mica siamo al ristorante Ho capito. Senti io la carbonara la faccio con la panna. Facciamo prima».

    Provai a non far caso a quelle parole. L’idea di una carbonara fatta con la panna però cominciò a farsi strada dentro di me. Con dolore. Il volume della sua voce era sempre più forte. Un paio di passi ancora verso di lei. Aveva un vestito un po’ freak, rosso, di quelli che si comprano ai mercatini d’estate. Degli orecchini di legno che le scendevano fino al collo. Occhi vispi, piccoli. Nocciola. Aveva una bellezza spettinata di quelle che funzionano così come sono. La immaginai distesa su un prato di margherite a piedi nudi.

    «Scus…».

    «Marta hai rotto le palle, ho preso la panna. Non insistere».

    «Scusami posso dirti una cosa?» provai a intervenire. Si girò di scatto.

    «Non lo vedi che sono al telefono? Scusa Marta ti richiamo tra un secondo».

    «Se posso permettermi, chiamare qualcosa con la panna, carbonara, è un po’ azzardato».

    Sgranò gli occhi.

    «Come preparo la mia carbonara sono fatti miei. No?».

    Cercai di non scompormi e risposi con gentilezza.

    «Non esattamente. La cucina è l’unica cosa seria rimasta in questo paese. Se cucini una carbonara con la panna, ecco, rendi l’esistenza di tutti noi un po’ peggiore».

    Inclinò la testa guardandomi come se fossi un oggetto non ben identificato.

    «Guarda che tipo! Certo che ricevere consigli culinari da un mezzo pinguino…».

    Spostai lo sguardo in basso. Aveva ragione. Gessato e cravatta rossa.

    «In effetti sono vestito da cretino».

    Sorrise di nascosto. Una piccola pausa.

    «Quindi due uova e poi?».

    «Formaggio, pepe e cipolla, se ti va. Qui si aprirebbe una discussione infinita tra puristi e non».

    «Posso almeno scegliere sulla cipolla?».

    Diretti verso il banco frigo. Sottilette per me. Poi via verso la cassa.

    «Quindi giudichi una persona da come si veste?».

    Non potevo dargliela vinta così facilmente.

    «Scommetto che fai uno di quei lavori che vanno di moda. Marketing? Tecnologia?».

    Abbassai la testa.

    «Visto?» rispose.

    «A te non capita di trovarti nel posto sbagliato al momento sbagliato? Fai sempre quello che vuoi?».

    «Quasi sempre» ribadì. Sorvolai.

    «Magari un giorno avremo bisogno di una resistenza contro le macchine e la tecnologia. Conoscere il sistema dall’interno è utile».

    «Come Matrix?».

    «Come Matrix» risposi orgoglioso.

    Nel mentre anche l’ultima scatola del mio carrello era finita sul nastro trasportatore della cassa.

    «Tu che fai nella vita?» le chiesi.

    Afferrai due buste di plastica e mi girai di nuovo verso di lei, in attesa di una risposta. Prese il portafoglio e pagò prima di uscire. Io, nella la stessa direzione.

    «Vorrei diventare guida alpina, ma sono disoccupata».

    «Quindi stai studiando?».

    «Possiamo cambiare argomento? Non mi va di parlarne».

    Camminammo fino alla sua macchina. Nel bagaglio una sacca gialla. Una corda e alcuni moschettoni. Mise dentro la spesa. In un momento era già al volante.

    «Beh, allora ciao, strano tipo».

    «Diego, se per caso te lo stessi chiedendo».

    «Giulia, piacere».

    Trenta secondi di silenzio. Avrei voluto tenerla lì ancora un po’. Colpo di coda.

    «Che ci fai con una corda in macchina?».

    Tirò giù il finestrino.

    «Arrampico».

    «Ah sì?» risposi con finto entusiasmo, come se sapessi di cosa stesse parlando.

    «Hai mai provato?».

    La mia faccia doveva essere stata convincente.

    «Anni fa».

    Sapevo che mi stavo spingendo in un territorio sconosciuto e pericoloso. Ma almeno l’avevo incuriosita dal momento che finalmente mi stava guardando negli occhi.

    «Dove ti alleni?» aggiunsi.

    «Qui, a due passi. Se ti va una sera puoi venire con me». Ero finito nella merda. Piano B.

    «È tanto che non lo faccio».

    «Non ti porto a fare i campionati del mondo, è solo per provare».

    Fin da quando ero piccolo ero cresciuto con l’idea che soffrivo

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