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Biglietti di sola andata
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E-book362 pagine4 ore

Biglietti di sola andata

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Info su questo ebook

Qualcosa lega Khaled – piccolo spacciatore tunisino che frequenta lo skatepark e parla in dialetto bresciano – a Carmine – bullo che sogna di essere affiliato al clan ‘ndranghetista locale – e a Maicol – factotum in una carrozzeria industriale alla ricerca di riscatto dopo il fallimento scolastico – ma l’incidente di quest’ultimo, investito da un camion mentre assonnato guidava il muletto, apparentemente allontana le loro vite. 
Col passare dei giorni, dai pensieri sconnessi di Maicol, in stato comatoso, e dalle vicende degli altri due amici, si delinea un intricato quadro di violenza, malaffare, abusi e malavita che porterà i tre amici a pagare prezzi altissimi per i loro errori.
Il tutto all’ombra del fallimento della Forex – l’azienda per cui lavora Maicol – e del suo titolare Alcide che traffica materiale nocivo, del caso di tubercolosi che ha colpito la sorella di Khaled e della conseguente campagna di vaccinazione la cui gestione, da parte del sindaco, scatena le ire dei genitori e di un condominio popolare – quello in cui abitano Carmine e la sua famiglia – in cui tutti hanno un motivo per lamentarsi.
LinguaItaliano
Data di uscita30 mar 2020
ISBN9788869632273
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    Anteprima del libro

    Biglietti di sola andata - Giovanni Locatelli

    Giovanni Locatelli

    BIGLIETTI DI SOLA ANDATA

    Elison Publishing

    In copertina L’abbraccio, illustrazione e progetto grafico di Francesca Reboani.

    Proprietà letteraria riservata

    © 2020 Elison Publishing

    www.elisonpublishing.com

    elisonpublishing@hotmail.com

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    ISBN 9788869632273

    I

    Alcide si fuma una sigaretta al freddo,

    tenendo le braccia, grandi come condotti dell’acqua, incrociate sul petto e le mani sotto le ascelle. C’è un motivo losco e di contrabbando, un motivo made in China, se è arrivato alle 6 del mattino per aprire i cancelli, solo che Alcide maschera la sua preoccupazione con tutt’altri pensieri. Sono quasi le 8, ma del camion manco l’ombra, pensa. Telefonare è inutile, i rumeni non hanno nessuna cognizione della loro posizione, cinque minuti arrivo! dicono solo, poi passano due ore oppure sono già al cancello che strombazzano per entrare senza chiedere permesso.

    TOOO TOOO

    «Amico! Ehi capo!»

    Una faccia rotonda e abbronzata spunta insieme a un braccio tatuato da un finestrino a due metri di altezza. Non dovrebbe fumare visto il materiale che trasporta, ma lui lo fa uguale. Si vive una volta sola, pensa Rudian, l’autista. Sono dieci ore che guido e una bella tzigarra me la merito di sicuro.

    Il bilico con i pannelli isolanti è finalmente arrivato. È termaflon cinese, costa la metà del normale poliuretano espanso, spedizione inclusa. Dopo un anno è già in briciole, adagiato sul fondo delle pareti della furgonatura, ma chi se ne accorge? Chi fa un incidente e apre in due la cella frigo ha ben altri pensieri che l’isolante.

    Alcide fa cenno al camionista di andare da quella parte, allargarsi a sinistra e tornare in retromarcia raddrizzandosi fino a centrare il dock di scarico. Tutto a gesti e orchi zii che il rumeno comprende alla perfezione.

    Se arrivavi alle 6, canchero, ‘ste manovre le facevi senza gente fra i piedi, insiste Alcide, mascherando la verità: dicono che sia nocivo, il termaflon. Non quanto l’eternit, ma quasi. Proprio per via del suo ostinato ridursi in una polvere che prima o poi ti entra nei polmoni e te lo mette in culo.

    «Alcide! Ti cercano al telefono!»

    È Mantovani, il suo socio di minoranza, a richiamarlo in ufficio.

    Mai che prenda lui una telefonata quel pirla. Avrà ben visto che sono impegnato!

    «Infila l’apertura, fermati e spegni il motore. Non scendere e non scaricare il materiale. Capìt?»

    Alcide si decide a spostare i suoi centodieci chili in direzione dell’ufficio, stramaledicendo un mondo così cocciutamente deciso a non farsi sottomettere, scavalcando detriti metallici, rottami, sfridi e semilavorati abbandonati a metà trattamento che riempiono il cortile e dei quali lui non si accorge più.

    Quando sente il botto nemmeno si volta, se lo sentiva, lo sapeva che sarebbe successo. Chissà perché lo percepisce appena sveglio che qualcosa andrà storto: sente un prurito nella pancia, dentro, dove non si può grattare, fra duodeno e pancreas. Sa già tutto al punto che tira dritto e va a rispondere al telefono.

    «Cosa c’è?» dice senza salutare, senza ascoltare ciò che gli riferiscono all’altro capo, standosene lì, affacciato alla finestra con la cornetta in mano, a guardare le operazioni di soccorso necessarie per estrarre un ragazzo privo di sensi dal carrello elevatore con cui si è schiantato contro il camion in retromarcia.

    «Chi è il coglione che guidava il muletto in quel modo?» sbraita dalla finestra spalancata, a telefonata in corso.

    Era Maicol Pedrabissi al volante: perito industriale, buyer, magazziniere, pupillo di Alcide e factotum. L’unico che ci capisce qualcosa qui dentro, porca puttana! Non poteva capitare a un altro? Ce n’è di gente che non fa un accidente… era l’occasione per togliermela dalle palle! pensa Alcide prima di tornare a sgolarsi.

    «State fermi! Non toccate niente, diavolo porco!»

    L’ambulanza arriva in venti minuti. Due infermieri scendono dal portellone e subito sentono polso e fiato a Maicol, ancora a terra privo di sensi. Si guardano intorno per capire la dinamica dell’incidente. Le facce che vedono non promettono nulla di buono. Non caveranno una risposta neanche col forcipe da quelle espressioni sconcertate.

    «Perché l’avete spostato?» dice l’infermiere senior.

    «Era incastrato nel muletto», bofonchia Alcide, a disagio, poi si gira a guardare gli altri con un’espressione di rimprovero. Siete stati voi a farla questa cazzata!

    «Potreste aver provocato danni irreparabili, ve ne rendete conto?» rincara la dose l’infermiere junior.

    «Dovevamo lasciarlo lì? Voi non arrivavate mai!» attacca Alcide e fa per avvicinarsi, ma si trova di fronte il guidatore dell’ambulanza, un uomo corpulento quanto lui, ma quindici anni più giovane, che fa da bodyguard agli infermieri, in caso di necessità.

    «Premesso che ci avete chiamati alle 8 punto 06», dice l’autista con voce impostata, «sono passati solo 18 minuti. La nostra media di intervento si attesta attorno ai 22 minuti, quindi siamo arrivati con abbondante anticipo.»

    L’armadio a due ante occulta la vista ad Alcide che vorrebbe controllare le manovre con cui gli infermieri stanno caricando Maicol sulla spinale e da lì sulla barella. L’incarico gli riesce a dovere, ma nemmeno la sua stazza può impedire, chiuse le porte, che tutti si accorgano della fiancata dell’ambulanza pesantemente ammaccata.

    «Dove lo portate?»

    «Al Civile, che domanda», dice l’uomo rimettendosi alla guida. L’autolettiga parte a sirene spiegate, mancando per un soffio il cancello d’ingresso, aperto il minimo indispensabile perché c’è un punto in cui l’ingranaggio esce dalla cremagliera che nessuno si decide a riparare.

    «È troppo lontano il Civile, santo Dio! Ci arrivate che è morto!» sbraita Alcide intercalando parecchie combinazioni di cane-zio-maiale e girandosi alla ricerca di consensi.

    «E adesso, che facciamo?» chiede Mantovani, incerto.

    «Mettete a posto questo casino! Fate le foto al muletto e toglietelo di mezzo. Portate via i rottami dal cortile. Palmiro, fai dare una ripulita all’officina e in magazzino, già che ci sei. Nascondete il più possibile!» Si rivolge al capofficina, Alcide, ma guarda dritto Mantovani, quasi fosse responsabile dell’incidente. «E tu manda tutti a casa, finiti i lavori. Oggi si chiude. Io vado all’INPS. Qui salta fuori un macello.»

    Mantovani è sorpreso, ma non vuole darlo a vedere. Come se gli altri non fossero stati presenti fino a quel momento, si gira e ripete esattamente le parole del capo, ma al rallenty e con parecchie omissioni: «Mettete… casino. Fate le foto… di mezzo. Portate… i rottami… a Palmiro. Poi nascondetevi… a casa.»

    Gli operai aspettano nuovi ordini, o un chiarimento ulteriore. Passano i secondi, nessuno si muove, Mantovani sbotta.

    «Avete sentito? Sbrigatevi!»

    Gli uomini si mettono al lavoro mentre le donne: la Giusi, la segretaria di Alcide, Camilla e Viviana, le due ragazze del back office, rimangono ferme in mezzo al cortile, lo sguardo perso, in silenzio. Sembrano tre Marie che hanno appena perso il loro Gesù, staccato dalla croce e portato al sepolcro in ambulanza. Non hanno nulla da fare, i rottami vanno spostati coi muletti e l’officina è off limits per le donne: sono gli uomini a maneggiare le scope in quel mondo maschio e tecnologico. Potrebbero tornare in ufficio e rispondere alle telefonate, ma non riescono a spostarsi dal luogo dell’incidente. Restano lì nel cortile, sotto la pioggia di fine aprile che nel frattempo ha cominciato a scendere, impassibili.

    Brescia accoglie chi arriva da sud con la ciminiera del termovalorizzatore, una torre di 120 metri non bella, ma rivestita con pannelli cangianti azzurro cielo dagli illustri natali: Jorrit Tornquist, artista che ha applicato le sue teorie cromatiche anche sulle villette a schiera del Villaggio Violino e sui rivestimenti della galleria Tito Speri che collega downtown alla periferia nord. Ma le nuance della polis non si fermano qui: il cavalcavia dove l’A21 incrocia la bretella per Munticiàr è giallo e verde, i pannelli della Alfa Acciai che si incontrano in autostrada sono rosa, verdi e azzurri e le colonnine per il ticket dei parcheggi hanno una tinta violacea sconosciuta negli altri capoluoghi di provincia. Forse sono tutti ‘sti colori che impediscono alla gente di accorgersi delle sirene di un’ambulanza, pensa Alberto, l’autista, incurante della bella sinestesia che ha coniato. Guardali, nessuno accosta nessuno si ferma, regna l’indifferenza, anzi avere i lampeggianti al culo diventa un ottimo pretesto per accelerare, commettere infrazioni. E se glielo chiedi, ti diranno che è la maniera migliore per non intralciare la corsa dell’autolettiga!

    Alberto si fa via Labirinto e poi via Corsica con una colonna di auto davanti a sé, impugnando il volante come fossero le redini di una slitta trainata dai cani, sentendosi un po’ Jack London un po’ Santa Claus. Purtroppo, il primo semaforo rompe il gioco perché persino i cani, quando guidano, si fermano col rosso.

    «Lo sapevo che sarebbe successo! Tenetevi forte!» avverte Alberto, rivolgendosi a quelli della crew. Si fa un plateale segno della croce e si butta in mezzo. È la certezza di essere brutalmente speronati, e non il doveroso atto di civiltà, a far spostare a destra la colonna di macchine. Ma solo quel tanto che basta, non sia mai, branco di caproni! Dovreste inchinarvi al nostro passaggio, noblesse oblige, invece di stare in mezzo alle palle!

    «Qui non è meglio se vai a sinistra?» se ne esce il suo secondo che sta armeggiando con la radio trasmittente dalla partenza.

    «Vuoi che non sappia dov’è l’ospedale? Tu servi all’andata, quando si deve recuperare il paziente, non al ritorno.»

    «Dicevo perché dritto è pieno di semafori.»

    «Sì, ma a sinistra non si va al Civile. Conosco anch’io strade più scorrevoli di questa, ma non tutte portano a Roma.»

    Fatto sta che alla prima occasione Alberto svolta a sinistra. E trova addirittura più traffico.

    «Alcide! Sono Maurizio della AmericanTruck di Carpenedolo. Sono con Giovannelli, il nostro area manager di FAR Trucks. Stiamo arrivando, siamo un po’ in ritardo…»

    La faccia del venditore si rabbuia: c’è stato un incidente in azienda, a quanto pare. Qualcuno si è fatto male. Non ha senso continuare. Possono tornare indietro, quello non è più giorno di visite.

    «Peccato», dice il venditore, messo giù il telefono.

    «Peccato», replica l’area manager, più preoccupato per la pioggia che per l’appuntamento saltato. Se riesce a rientrare subito in azienda, potrà uscire presto, stasera.

    «Ti stavo dicendo che io ho iniziato a lavorare a tredici anni», riattacca Maurizio, convinto che l’aneddoto sia fonte di interesse urbis et orbis, «vendevo biancheria intima al mercato. Biancheria intima femminile, lingerie, ci tengo a precisare. Le tette che non ho visto in quel periodo! Mai più una cosa simile in vita mia!»

    Giovannelli sorride distratto, strizzando gli occhi nel tentativo di leggere il nome della strada, ma si tratta sempre della stessa Via dell’Artigianato imboccata venti minuti avanti. La vastità della Zona Industriale di Brescia, all’estrema periferia sud della città, la segnaletica inadeguata con i cartelli che riportano le indicazioni della carretera che si percorreva prima dell’arrivo della tangenziale, un passeggero molesto che non ha chiusa la ciabatta da quando è salito sulla station wagon: tutto contribuisce a complicare il suo compito.

    «Le signore salivano nel retro del furgone per provare i capi. Allora io facevo finta di non sapere che lo sgabuzzino era occupato e con la scusa di dover prendere qualcosa aprivo la porta. Che spettacolo! Le beccavo praticamente nude…»

    A Ibiza, di fronte a una cerveza, Giovannelli potrebbe anche godersi questi ricordi calienti di gioventù, ma qui proprio non riesce. Lui, a differenza di Maurizio, nel mondo del lavoro ci sta entrando solo adesso e ha la sensazione di arrivare a un party quando l’alcol è già finito e al posto del rock suona un requiem.

    «Dimostravo persino meno dei miei tredici anni. Non si coprivano, vedendomi, non si voltavano. Mi credevano così innocente che continuavano a spogliarsi… e io potevo stare lì a guardare lo streaptease! Meglio del Moulin Rouge! Appena mi spuntò il primo pelo sul labbro, la pacchia finì. Il titolare della bancarella mi minacciò di prendermi a pedate nel culo se non cominciavo a bussare prima di entrare nel furgone…»

    Altro che Moulin Rouge, questo posto sembra un monumentale cimitero! pensa Giovannelli stizzito. Circondato da avanzi di capannoni, carcasse di macchinari, cartelli arrugginiti indicanti haciendas fallite già da una decina d’anni, Giovannelli vede sfilare le tombe dell’industria italiana, con tanto di insegne marmoree a sempiterna memoria e lungo i viali, al posto dei cipressi, file e file di silos di acciaio inox 310, sempreverde, a dare al luogo una parvenza di eternità. E proprio come sulle tombe di cui nessuno si occupa, che nessuno pulisce, anche sulle pareti di alcuni capannoni sta crescendo il muschio e l’erba. Un giorno l’intera l’area tornerà coperta dalla vegetazione, sogna Giovannelli: piante rampicanti e liane, tetti sfondati dai baobab, strade divelte dalle radici dei banyan, animali selvatici ovunque. Per ora, a bordo strada, ci sono solo sterpaglie secche che fanno assomigliare l’ambiente a un sertao, più che a una giungla, però.

    «Comunque lo faccio ancora oggi, il mercato», persevera nel dare risposte a richieste mai poste, il molesto Maurizio, «ho bisogno di cose concrete… Attento!»

    Immediatamente Giovannelli butta un piede sul freno.

    «Cos’era? Un daino?» dice, guardandosi intorno spaventato.

    «Ma quale daino! Non siamo mica in val Camonica! Sarà stato un cane, che ne so! Se non la guardi tu la strada…»

    «Dovrebbe essere andato di là… lo vedi?»

    Giovannelli si decide ad accostare. Si è perso. Non passa un’auto, un camion, un’anima viva da mezz’ora, a parte il cervo cane sbucato da chissà quale foresta di caccia privata.

    «Senti scusa, puoi spiegarmi dove devo andare, sennò giriamo qui intorno per un’ora…»

    «Certo! Qui vai a destra… Ma non conosci la strada? Non sei di Brescia?»

    «No, lavoro qui, ma sono di Verona…»

    «Possiamo passare da un altro cliente, se ti va», persevera, mai stanco, mai sconfitto, Maurizio.

    «Cerchiamo intanto di tornare in tangenziale», suggerisce Giovannelli, preda sin dall’inizio di una indescrivibile saudade.

    II

    Alcide le conosce bene,

    le procedure per la denuncia di infortunio, nonostante non abbia ancora capito che il posto in cui si reca è l’INAIL e non l’INPS. Non sono stati rari, purtroppo, nel corso di questo 2012 disgraziato, gli incidenti. Azienda a carattere artigianale, del resto, la sua: presse, seghe circolari, trapani, sollevatori, strumenti meravigliosi che in alcune occasioni possono far male. Eppure ogni volta, il faccia a faccia con la burocrazia senza volto lo fa uscire dai gangheri.

    «Questi credono che noi siamo lì per compilare le loro carte, ma noi dobbiamo lavorare. Verrà il giorno che qualcuno perderà le staffe, prenderà il kalashnikov ed entrerà in uno di questi uffici a fare piazza pulita… solo che non troverà nessuno… saranno tutti fuori per un caffè o a fumarsi una paglia!»

    Alcide ripete la frase agli operai prima di uscire, al tabaccaio dove si ferma per le sigarette, al distributore di benzina sulla rotonda di via Borgosatollo, al solito salmodiando a suon di can-signùr-pursèl-madó. È il peggiore incidente mai accaduto alla Forex e Alcide sa cosa lo attende: primo, Maicol non è assunto regolarmente, secondo, non ha il patentino per guidare il muletto e terzo, non indossava alcun tipo di protezione. L’INPS allora può rivalersi sul datore di lavoro chiedendo il risarcimento dei costi assicurativi. Se poi il ragazzo non dovesse riprendersi o dovesse subire danni irreparabili, allora la famiglia potrebbe ottenere un indennizzo. Ci sarà un’indagine, ci saranno accertamenti, ispezioni da parte dell’ASL. E in questo momento in azienda è stipato il carico di termaflon portato dal camion con cui si è scontrato Maicol. Peggiori premesse non potrebbero porsi, ragion per cui in via Corsica, all’altezza della rotonda con via Lamarmora, Alcide, anziché proseguire dritto, sterza a sinistra e imbocca via Orzinuovi.

    Venti minuti dopo è nel quartiere Mandolossa e suona alla porta della signora Pedrabissi, la madre di Maicol. Si affaccia alla finestra una donna già avanti negli anni, disordinata e sciatta.

    «Signora Pedrabissi, sono Alcide Foresti, il titolare della Forex, l’azienda dove lavora suo figlio…»

    «Cosa c’è? Mi può ripetere il suo nome?» dice la donna con un’espressione confusa. Evidentemente la signora non è stata avvisata. Mai che Mantovani prenda l’iniziativa, quell’ostione, pensa Alcide, poi si rende conto che se l’avessero informata, la signora sarebbe corsa in ospedale e lui non avrebbe potuto trovarla a casa. Meglio così. Adesso però tocca a lui spiegare l’accaduto e non sa da che parte cominciare. In ascensore improvvisa tre o quattro approcci con inconsapevole metodo Stanislavskij, degno di quel falsone che è, ma, quando la signora apre la porta, dice solo: «C’è stato un incidente, stamattina…»

    Mentre Alcide descrive l’accaduto per sommi capi, la signora Pedrabissi lo guarda con gli occhi sgranati, quasi stesse osservando un diavolo, cercando di verificare se l’uomo che le sta di fronte stia davvero parlando di suo figlio. Per quel che ne sapeva lei, suo figlio era iscritto all’Universitas Studiorum Brixiae, stava dando gli esami con ottimi risultati e percepiva persino una borsa di studio, motivo per cui aveva smesso da un po’ di chiederle soldi.

    «Sì, signora, sono sicuro che si chiami Maicol Pedrabissi. Scritto proprio Maicol, come si pronuncia, esatto.»

    «Beh, ma potrebbe trattarsi anche di un’omonimia, sono talmente tanti i Pedrabissi, a Brescia…»

    «È un ragazzo un po’ grasso, suo figlio, con i capelli scuri, tagliati a spazzola, giusto?»

    «Non direi grasso, robusto piuttosto… e i capelli non sono scurissimi… non proprio a spazzola…»

    Solo l’insistenza di Alcide convince la signora Pedrabissi a riconoscere suo figlio nella vittima dell’incidente. E da quel momento non riesce a pensare ad altro che a raggiungere gli Spedali Civili. Comincia a fare avanti e indietro fra il salotto e la camera, dimenticando ogni volta qualcosa e intanto Alcide cerca di trattenerla, intralciandola, insinuando step by step il motivo per cui le è piombato in casa.

    «Signora, io ero passato per metterci d’accordo sul risarcimento… Se lasciamo che il caso arrivi nelle mani dell’INPS, non è più finita…»

    La casa non è piccola  – un quadrilocale con bagno, l’ingresso che dà sul salotto da dove si accede a un corridoio che porta alla cucina e alle due camere da letto  – ma il mobilio anni settanta denuncia una certa scarsezza di fondi. Me la cavo con poco, si rassicura Alcide, i poveri hanno meno pretese di solito, non lo sanno quello che valgono. «Voi aspetterete anni per ricevere i soldi che vi spettano e io sarò costretto a seguire una trafila lunghissima… ma noi non abbiamo tutto questo tempo!»

    «Certo che no, dobbiamo sbrigarci, mi accompagna lei in ospedale?» chiede la signora Pedrabissi, indossando delle polacchine nere con un mezzo tacco, scarpe senza alcun vezzo, fuori moda da un pezzo. Abbassate le tapparelle in cucina, sarà pronta a uscire.

    «Sicuro! Ma che ne pensa se pattuiamo una cifra fra noi e non denunciamo l’accaduto? Diecimila euro? possono andare bene? dodici?»

    «E il papà? a chi lo lascio il papà?»

    Quasi la signora Pedrabissi si stava dimenticando del marito, seduto al tavolo, magro e sciupato quanto un vecchio animale domestico.

    «Mario… io devo uscire… Tu rimani qui tranquillo, adesso chiedo alla Valentina se può stare un po’ con te…» dice la signora Pedrabissi tenendo la mano fredda e ruvida del marito che la guarda capendo la minima parte di ciò che lei dice. Quando si stacca, lei si domanda fugacemente cosa ne sarà di lui, se dovessi occuparmi di Maicol per un certo periodo? ma già nel corridoio rimuove il pensiero, troppo ingombrante da analizzare, al momento.

    «Dobbiamo passare dalla vicina, devo chiederle di rimanere qui a badare a mio marito…»

    «Va bene, passiamo, però pensi a quello che le ho detto, alla mia proposta… è importante!»

    Maicol è in coma. Il colpo che ha preso ha interrotto per un attimo l’afflusso di sangue al cervello e questo di riflesso ha spento la luce. Giace in un letto di uno dei padiglioni periferici della struttura con tanti tubicini infilati ovunque, la faccia bendata. I dottori hanno spiegato alla signora Pedrabissi che si tratta di una rottura del setto nasale, niente di grave rispetto al resto, ma è proprio la bendatura, con la sua carica di mistero e di cattività insieme, ad aver scioccato la signora: il coma le è apparso simile al sonno, un placido riposo, naturale a seguito di un così forte trauma. All’opposto, il volto bendato e i tubi che lo legano al letto le hanno dato l’esatta cifra dell’inaccessibilità di suo figlio.

    «Maicol, cosa ti è successo?»

    «Non può sentirla, signora», dice l’infermiera di turno, non sapendo fino a che punto la donna sia consapevole della gravità del trauma.

    La signora Pedrabissi non la degna di uno sguardo e prosegue: «Dovevi essere all’Università a studiare», gli tiene una mano, più calda di quanto lei si aspettasse, «e invece stavi lavorando…»

    Alcide, subito dietro alla signora, per un attimo teme di essere interpellato: è il caso che dica qualcosa? si chiede, poi si scrolla di dosso con un gesto il senso di colpa, no non è il caso e continua ad alternare la gamba sulla quale scarica la parte superiore dei suoi chili.

    «Mi hai detto una bugia… Perché? Avevi paura di deludermi… Ci tenevo tanto che tu facessi l’Università!»

    Uni-verso

    Questa parola balena nella mente di Maicol senza lasciare alcun segno nei monitor.

    «Era il mio unico sogno… Lo speravo con tutto il cuore… un figlio laureato», continua la signora Pedrabissi.

    Verso-unico

    Maicol sembra ridurre le frasi che sente ai minimi termini, tradurle in microonde solo a lui comprensibili, ma che, per la loro stessa semplicità, riesce a gestire.

    «Ma mentirmi che senso aveva?»

    Senso-unico

    «Potevi dirmelo, avrei capito, avrei accettato la cosa, per certi versi…»

    Tanti-versi

    «Mai un accenno, una battuta, un doppio senso… ogni pomeriggio, tornato a casa, mi raccontavi persino com’era andata!»

    La signora Pedrabissi, inginocchiata di fianco al letto, con la testa appoggiata sul busto di Maicol, è così vicina che ha l’impressione di sentire le risposte del figlio alle sue domande. Dal nulla, le spunta in testa una parola che non ha mai sentito, di cui non conosce il significato.

    Pluri-verso

    «Signora, mi scusi, io adesso devo andare. Se vuole l’accompagno, ma deve venire via subito», si intromette Alcide, senza alcuna sensibilità, con un accento nervoso nella voce roca.

    «Non possiamo rimanere ancora un po’?» dice la signora, già in piedi, la borsetta a tracolla, istantaneamente sottomessa. «Ciao Maicol, domani mi organizzo e resto qui tutto il giorno… Lo so che puoi sentirmi… e io posso sentire te… così ci facciamo compagnia.»

    Pluri-senso… prurito… pruri-sento

    Dentro… gratta

    Nella gola… aria

    Entra… goccia

    Contro… picchia

    Pluri-senso… prurito… pruri-sento.

    «Capo, noi qui avremmo finito, possiamo andarcene?»

    I due fratelli Capotorti sono i primi a darsela a gambe, a parte Bruno il pensionato e i due algerini senza permesso di soggiorno, volatilizzati un secondo dopo l’incidente. Il resto della ciurma è lì che cerca di darsi da fare. Mantovani sa benissimo che l’officina è sottosopra, che non hanno finito un bel niente, ma fa finta di nulla e acconsente.

    «Amuninne Alfio. Ci vediamo domani, Mantovani. Poi ci aggiustiamo con gli straordinari arretrati.»

    Il monte-ore sarebbe il meno. Da quando sono stati assunti, durante l’orario di lavoro si sono costruiti di straforo cancello e ringhiera di casa e hanno riparato freezer e boiler ad amici e parenti, sempre utilizzando i macchinari dell’officina e prendendo a prestito svariati pezzi di ricambio dal magazzino.

    Mantovani ne ha parlato con Alcide, anni fa, e di comune accordo hanno deciso che era più conveniente tenere bassi gli stipendi e lasciare libertà alle persone di farsi un po’ li cazzi sua, piuttosto che portare le paghe a livello normale dovendo però versare allo Stato ladrone una montagna di contributi. Anche il commercialista, sottoposta la questione, ha dato loro parere favorevole, adducendo a motivazione il modus operandi comune.

    «Tu rimani?» domanda per scrupolo uno dei due Capotorti.

    «Sì, sto aspettando dei fornitori. Almeno per dirgli di ripassare la settimana prossima…»

    «Noi avremmo alcuni lavoretti da fare a casa», dice il fratello, «possiamo portare fuori una saldatrice elettrica?»

    «Basta che la riportate indietro domani…»

    Chissà cos’avrebbe risposto Alcide, a quella richiesta. Lui è meno accondiscendente con gli operai, ma lo è molto di più con le ragazze dell’amministrazione. A Mantovani invece le donne lo mettono a disagio. L’altra metà del cielo è per lui un mondo sconosciuto, col quale non ha mai preso confidenza. Sua moglie l’ha incontrata la prima volta all’October Fest di Rodengo Saiano. Gliel’hanno gettata fra le braccia piuttosto ubriaca i suoi amici e lui, ugualmente sbronzo, l’ha baciata sulla bocca. Il suo primo bacio, vent’anni fa, e in un certo senso l’unico. Il suo unico primo bacio perché non ha baciato nessun’altra, da quel giorno.

    «Mantovani, ma che senso ha mandarci a casa, oggi?»

    La Giusi si considera una donna attraente sui cinquanta. Il corpo è arrotondato dalla pancia oltre che dai seni e dai fianchi, il bel volto è solcato da qualche ruga, ma ci mancherebbe il contrario, solo quello

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