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E-book203 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Kylie Hanson è il capitano della squadra di calcio femminile di Saint Leo. Tenace e sicura di sé, con i suoi gol sta trascinando i Lions verso le zone alte della classifica, sostenuta da un'intera città che aspetta da sempre la propria rivincita sportiva. Ma la strada verso il successo è ricca di imprevisti. Attraverso un susseguirsi di trionfi clamorosi e delusioni cocenti, Ky affronta una delle partite più entusiasmanti e sofferte, mettendosi in gioco dentro e fuori dal campo con un solo imperativo nella testa: mai fermarsi.
LinguaItaliano
Data di uscita20 apr 2020
ISBN9788831668903
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    Anteprima del libro

    #IOGIOCO - Linda Colombo

    Ky

    Era or­mai po­me­rig­gio inol­tra­to, ma il so­le pic­chia­va an­co­ra for­te. La gior­na­ta era sta­ta splen­di­da e non si scor­ge­va una nu­vo­la in tut­to l’oriz­zon­te. A di­re il ve­ro, era­no gior­ni che il cie­lo era lim­pi­do. Tut­to ciò non fa­ce­va al­tro che in­flui­re po­si­ti­va­men­te sul mio umo­re. Ama­vo tut­to dell’esta­te: le lun­ghe gior­na­te di lu­ce, il ri­so fred­do, i fuo­chi d’ar­ti­fi­cio, gli in­fra­di­to, le t-shirts che la­scia­va­no fi­nal­men­te vi­si­bi­li i miei ta­tuag­gi, quel­la sen­sa­zio­ne di per­de­re la co­gni­zio­ne del tem­po e non sa­pe­re più che gior­no è, ma, so­prat­tut­to, ama­vo la pi­sci­na dei Mor­ris.

    Sdra­ia­ta so­pra il mio sal­va­gen­te a for­ma di fe­ni­cot­te­ro, con le ma­ni e i pie­di im­mer­si nell’ac­qua, mi sta­vo go­den­do le ul­ti­me ore di va­can­za, in uno sta­to di dor­mi­ve­glia.

    Quell’esta­te sa­reb­be ini­zia­ta la mia quar­ta sta­gio­ne ai Lions.

    Ky, sen­ti co­sa scri­vo­no su di te sul Foot­ball Jour­nal! Le­xi mi chia­mò en­tu­sia­sta.

    Le­xi era ap­pe­na tor­na­ta da un lun­go tour nei Ca­rai­bi. Era co­sì ab­bron­za­ta, che il co­lo­re del­la sua pel­le con­tra­sta­va, in ma­nie­ra net­ta, con il bian­co del suo co­stu­me da ba­gno. E di­re che era rien­tra­ta dal viag­gio con una set­ti­ma­na di an­ti­ci­po. Do­po una li­te fu­rio­sa, ave­va pian­ta­to in as­so il suo ul­ti­mo ra­gaz­zo, Sa­muel O’Con­nor, su una del­le iso­le del­le Ba­ha­mas. La lo­ro sto­ria era du­ra­ta ben due me­si, qua­si un re­cord, ma lei non mi sem­brò af­fat­to di­spe­ra­ta per la rot­tu­ra e di Sam non si eb­be­ro più no­ti­zie.

    Un pa­io di gior­ni pri­ma, nel bel mez­zo del­la not­te, ri­ce­vet­ti una sua te­le­fo­na­ta.

    Ciao Ky, mi vie­ni a pren­de­re all’ae­ro­por­to?

    An­co­ra nel mon­do dei so­gni, fa­ti­cai a rea­liz­za­re che avrei do­vu­to sve­gliar­mi, ve­stir­mi e gui­da­re. Far­fu­gliai pa­ro­le in­com­pren­si­bi­li.

    Al­lo­ra?

    Non do­ve­vi ar­ri­va­re mer­co­le­dì?

    Il mio cer­vel­lo co­min­ciò a con­net­te­re.

    Sì, ma so­no qui ades­so. Mi vie­ni a pren­de­re?

    E Sam?

    Sam chi? Non lo so, so­no tor­na­ta da so­la. Al­lo­ra, mi vie­ni a pren­de­re?

    Stai be­ne?

    Sì, vo­glio so­lo tor­na­re a ca­sa.

    Ba­sta­ro­no uno Spri­tz, un pac­chet­to di si­ga­ret­te e un tuf­fo in pi­sci­na, per far­le tor­na­re il buon umo­re.

    Ca­pi­to­lo chiu­so.

    Ora, do­po aver sfo­glia­to le ri­vi­ste di gos­sip più in vo­ga del mo­men­to e aver­mi ag­gior­na­ta sul chi sta­va con chi, si sta­va de­di­can­do a let­tu­re più im­pe­gna­te, co­me il Foot­ball Jour­nal che, al­la vi­gi­lia dell’ini­zio del­la nuo­va sta­gio­ne cal­ci­sti­ca, pre­sen­ta­va le squa­dre e le gio­ca­tri­ci pos­si­bi­li pro­ta­go­ni­ste del cam­pio­na­to.

    Quan­do mi chia­mò, non le die­di ret­ta, spe­ran­do mi avreb­be la­scia­ta in pa­ce; mi sen­ti­vo tal­men­te be­ne in quel­lo sta­to di to­ta­le ri­las­sa­men­to che non mi ba­le­nò, nem­me­no lon­ta­na­men­te, l’idea di ri­spon­der­le.

    Ky! Ov­via­men­te Le­xi non ave­va nes­su­na in­ten­zio­ne di la­sciar­mi in pa­ce.

    Che di­co­no? le chie­si fin­gen­do­mi in­te­res­sa­ta.

    C’è una pa­gi­na in­te­ra de­di­ca­ta ai Lions e qui par­la­no di te: Ki­lie Han­son è l’in­stan­ca­bi­le ca­pi­ta­no e in­di­scus­so lea­der dei Lions. Man­ci­na, si adat­ta a tut­ti i ruo­li di cen­tro­cam­po. Do­ta­ta di buo­na re­si­sten­za, di­na­mi­smo, ve­lo­ci­tà e grin­ta, è in gra­do di aiu­ta­re le com­pa­gne in fa­se di co­per­tu­ra e di sup­por­ta­re at­ti­va­men­te l’azio­ne of­fen­si­va, non di­sde­gnan­do gli in­se­ri­men­ti in zo­na gol. Di­mo­stra di ave­re an­co­ra no­te­vo­li mar­gi­ni di mi­glio­ra­men­to, ma, a Saint Leo, la sua ma­tu­ra­zio­ne co­me cal­cia­tri­ce ha avu­to una svol­ta: cre­sciu­ta in ter­mi­ni di vi­sio­ne di gio­co e sen­so del­la po­si­zio­ne in cam­po, da in­con­tri­sta, che sra­di­ca i pal­lo­ni dai pie­di de­gli av­ver­sa­ri, si è tra­sfor­ma­ta in un’in­cur­so­re con il vi­zio del gol, mi­glio­ran­do di mol­to, ne­gli ul­ti­mi an­ni, la sua me­dia rea­liz­za­ti­va. Caz­zo, sem­bri dav­ve­ro for­te! Le­xi ri­dac­chia­va.

    Che si­gni­fi­ca sem­bro? For­se in quell’ar­ti­co­lo ave­va­no esa­ge­ra­to un po’. Tor­nai a bor­do pi­sci­na con non po­ca dif­fi­col­tà, poi ab­ban­do­nai me­sta­men­te il mio fe­ni­cot­te­ro e mi av­vi­ci­nai a Le­xi. Fam­mi ve­de­re! Le tol­si il gior­na­le dal­le ma­ni.

    Ma que­sta non so­no io! pro­te­stai.

    Co­me no? C’è scrit­to il tuo no­me!

    No, non quel­la dell’ar­ti­co­lo, que­sta nel­la fo­to! Glie­la in­di­cai.

    In ef­fet­ti no, non sei tu. La ti­pa nel­la fo­to è de­ci­sa­men­te più al­ta e slan­cia­ta di te, ag­giun­se con aria di­ver­ti­ta.

    Co­sa vor­re­sti di­re? Fin­si di ar­rab­biar­mi.

    Nien­te… ri­bat­té sor­ri­den­do, poi pro­se­guì, Ma chi è que­sta al­lo­ra?

    Ri­les­si quell’ar­ti­co­lo un’in­fi­ni­tà di vol­te. Le­xi ave­va ra­gio­ne: de­scrit­ta in quel mo­do, sem­bra­vo ve­ra­men­te for­te.

    Lea­der in­di­scus­so… Io? Un lea­der?

    Do­ve­vo ri­co­no­sce­re che, ne­gli ul­ti­mi an­ni, l’in­te­res­se nei miei con­fron­ti era no­te­vol­men­te cre­sciu­to e que­sto mi met­te­va a di­sa­gio.

    Ero piut­to­sto schi­va e ri­ser­va­ta, non ama­vo sta­re al cen­tro dell’at­ten­zio­ne.

    Io vo­le­vo cor­re­re e gio­ca­re a cal­cio, per­ché sa­pe­vo fa­re quel­lo; tut­to ciò che gi­ra­va in­tor­no, gli ar­ti­co­li di gior­na­le e le in­ter­vi­ste, non mi in­te­res­sa­va.

    Ero cre­sciu­ta nel set­to­re gio­va­ni­le del­le La­dy­birds, una del­le squa­dre più im­por­tan­ti del Sun­set.

    A quei tem­pi gio­ca­vo a cal­cio in cor­ti­le, in ca­sa, in clas­se, ovun­que, crean­do non po­chi grat­ta­ca­pi ai miei ge­ni­to­ri. Mio pa­dre non po­té più igno­ra­re la mia esi­sten­za quan­do il si­gnor Bai­ley, il no­stro vi­ci­no di ca­sa, lo chia­mò in­fu­ria­to, mo­stran­do­gli quan­to fos­si sta­ta bra­va a col­pi­re e met­te­re ko, uno do­po l’al­tro, tut­ti i va­si del suo giar­di­no. Fu al­lo­ra che, su ri­chie­sta di­spe­ra­ta di mia ma­dre, de­ci­se di ac­com­pa­gnar­mi al cam­po del­le La­dy e di la­sciar­mi lì a sfo­ga­re tut­ta la mia ener­gia.

    Wow! Quel ret­tan­go­lo ver­de era uno spet­ta­co­lo per i miei oc­chi.

    Ora sei con­ten­ta? mi chie­se lui. I miei ge­ni­to­ri ave­va­no fi­nal­men­te tro­va­to il mo­do per to­glier­si dai pie­di la lo­ro ama­ta bam­bi­na che, con quel pal­lo­ne, era in gra­do so­lo di cau­sa­re dan­ni. Al­zai le spal­le. Sa­rei sta­ta lon­ta­na da ca­sa e avrei do­vu­to cam­bia­re scuo­la, ma avrei gio­ca­to a cal­cio in una ve­ra squa­dra; non era il mas­si­mo del­la vi­ta?

    Esor­dii in pri­ma squa­dra, du­ran­te un’ami­che­vo­le, all’età di tre­di­ci an­ni, quan­do an­co­ra non po­te­vo gio­ca­re ga­re uf­fi­cia­li per que­stio­ni di età.

    Ero co­sì pic­co­la che la ma­gliet­ta mi ar­ri­va­va fi­no al­le gi­noc­chia e do­vet­ti rim­boc­ca­re le ma­ni­che più vol­te per non ve­der­me­le pen­zo­la­re men­tre cor­re­vo.

    Gio­cai l’ul­ti­ma mezz’ora di quel­la par­ti­ta. Pri­ma del mio in­gres­so, co­me un buon pa­dre, il mi­ster mi fe­ce una se­rie di rac­co­man­da­zio­ni: Stai tran­quil­la, fai le co­se sem­pli­ci, non pre­oc­cu­par­ti se sba­gli. A me l’uni­co che sem­bra­va in an­sia pa­re­va es­se­re lui.

    Ti sem­bro pre­oc­cu­pa­ta? Io va­do a di­ver­tir­mi pen­sa­vo tra me e me.

    Per an­ni quel­lo fu lo sta­to d’ani­mo con cui af­fron­tai ogni par­ti­ta, con l’in­co­scien­za di chi non sen­te su di sé al­cu­na pres­sio­ne. Ave­vo un pal­lo­ne tra i pie­di, non po­te­vo chie­de­re di più.

    Gio­cai ester­no di fa­scia si­ni­stra. Su­pe­ra­ta la dif­fi­den­za ini­zia­le, le mie com­pa­gne ini­zia­ro­no a coin­vol­ger­mi nel­le lo­ro gio­ca­te. In po­chi mi­nu­ti, ma­ci­nai chi­lo­me­tri e re­cu­pe­rai un’in­fi­ni­tà di pal­lo­ni. Con­ta­ro­no do­di­ci miei cross in tren­ta mi­nu­ti di gio­co. Al­tro che an­sia o pau­ra. Quell’espe­rien­za fu in­di­men­ti­ca­bi­le.

    Io non ero si­cu­ra se fos­se que­sto che in­ten­de­va­no per ‘es­se­re for­te’ o ‘es­se­re un lea­der’, ma, co­me quel­la pri­ma vol­ta, qua­lun­que fos­se l’av­ver­sa­rio, en­tra­vo in cam­po sen­za pau­ra e cor­re­vo.

    Io ero que­sta.

    Ar­ri­vai a Saint Leo qua­si per ca­so, do­po l’espe­rien­za con le Flies, squa­dra tra le più bla­so­na­te a li­vel­lo na­zio­na­le.

    Mi sta­vo go­den­do Ca­sey, un ti­zio che ave­vo ap­pe­na co­no­sciu­to, il so­le e il ma­re, quan­do lo squil­lo del te­le­fo­no mi di­stol­se dal­le mie spen­sie­ra­te at­ti­vi­tà.

    Ki­lie Han­son?

    Sì so­no io, chi par­la?

    So­no Har­ry Mc­Cain, pre­si­den­te dei Lions di Saint Leo.

    Non co­no­sce­vo Mc­Cain e dei Lions sa­pe­vo, a ma­la­pe­na, che era­no una squa­dra di me­dio-bas­sa clas­si­fi­ca del­la se­con­da ca­te­go­ria. Ciò che mi sor­pre­se fu es­se­re con­tat­ta­ta di­ret­ta­men­te dal lo­ro pre­si­den­te e non da qual­che in­ter­me­dia­rio.

    Mc­Cain ave­va as­sun­to la pre­si­den­za del­la squa­dra da qua­si due an­ni e le sue idee mi con­qui­sta­ro­no. Vo­le­va crea­re una squa­dra com­pe­ti­ti­va che po­tes­se aspi­ra­re, in bre­ve tem­po, al­la pro­mo­zio­ne in pri­ma ca­te­go­ria. Per quan­to il suo sem­bras­se un pro­get­to se­rio di una per­so­na se­ria, par­la­va­mo co­mun­que di una squa­dra obiet­ti­va­men­te di bas­so li­vel­lo.

    In ve­ri­tà, quell’esta­te, ave­vo già fir­ma­to per i Par­ro­ts, squa­dra di pri­ma ca­te­go­ria con buo­ne am­bi­zio­ni di clas­si­fi­ca.

    No­no­stan­te gi­ras­se­ro vo­ci in­si­sten­ti sul­la cri­si fi­nan­zia­ria del grup­po che con­trol­la­va la so­cie­tà, fui ras­si­cu­ra­ta che non ci sa­reb­be­ro sta­ti pro­ble­mi e che io sa­rei sta­ta uno dei per­ni fon­da­men­ta­li sui qua­li pun­ta­re per la sta­gio­ne suc­ces­si­va. Mi fi­dai.

    Il ri­sul­ta­to fu che, a po­chi gior­ni dall’ini­zio del cam­pio­na­to, i Par­ro­ts di­chia­ra­ro­no il fal­li­men­to e si ri­ti­ra­ro­no; io ri­ma­si a pie­di, svin­co­la­ta, al­la di­spe­ra­ta ri­cer­ca di una squa­dra in cui gio­ca­re. De­lu­sa, me ne an­dai al ma­re a di­ver­tir­mi con Ca­sey, con l’orec­chio te­so ver­so il te­le­fo­no, spe­ran­zo­sa che qual­cu­no, chiun­que, mi chia­mas­se per un nuo­vo in­gag­gio.

    Per evi­ta­re il ri­schio di ri­ma­ne­re fer­ma per me­si, in at­te­sa che qual­che squa­dra im­por­tan­te mi cer­cas­se, non eb­bi mol­te esi­ta­zio­ni e fir­mai per i Lions, cer­ta che, al­la ria­per­tu­ra del cal­cio­mer­ca­to a gen­na­io, sa­rei tor­na­ta drit­ta in pri­ma ca­te­go­ria.

    Le oc­ca­sio­ni non man­ca­ro­no. Co­me pre­vi­sto, qual­che me­se più tar­di, ri­ce­vet­ti di­ver­se of­fer­te mol­to in­te­res­san­ti, qua­si ir­ri­nun­cia­bi­li.

    Nel frat­tem­po, pe­rò, da un pa­io di me­si, ero di­ven­ta­ta il ca­pi­ta­no dei Lions, scel­ta all’una­ni­mi­tà dal­le ra­gaz­ze del­la squa­dra.

    Mi in­na­mo­rai di Saint Leo e del­la sua gen­te. In­stau­rai un rap­por­to spe­cia­le con la ti­fo­se­ria che mi di­mo­strò sem­pre gran­de fi­du­cia, an­che e so­prat­tut­to nei mo­men­ti bui del­la squa­dra.

    Mi ver­go­gnai di aver pen­sa­to che i Lions po­tes­se­ro rap­pre­sen­ta­re so­lo un ‘pas­sa­tem­po’ per te­ner­mi al­le­na­ta, in vi­sta di in­gag­gi più al­let­tan­ti.

    Saint Leo di­ven­ne pre­sto la mia ca­sa e l’obiet­ti­vo di Mc­Cain di­ven­ne il mio obiet­ti­vo: por­ta­re i Lions in pri­ma ca­te­go­ria.

    Al­lo­ra, lea­der in­di­scus­so? Pos­so ria­ve­re il mio gior­na­le? La vo­ce di Le­xi mi ri­por­tò al­la real­tà. Vuoi che ri­ta­gli l’ar­ti­co­lo? Col­si un fi­lo di iro­nia nel­le sue pa­ro­le.

    But­ta­lo! Non esi­tai un so­lo istan­te.

    Al­lon­ta­nai tut­ti i pen­sie­ri dal­la mia te­sta e mi ri­tuf­fai in pi­sci­na.

    Testa o croce

    Quan­do ar­ri­vai a Saint Leo, co­me det­to, i Lions gal­leg­gia­va­no nel­le po­si­zio­ni di me­dio-bas­sa clas­si­fi­ca del­la se­con­da ca­te­go­ria na­zio­na­le. I pri­mi non fu­ro­no an­ni fa­ci­li. Lo scet­ti­ci­smo in­tor­no al­la squa­dra era evi­den­te. Ci fu un suc­ce­der­si di al­le­na­to­ri che ave­va­no idee piut­to­sto con­fu­se e non ave­va­no real­men­te né le ca­pa­ci­tà né la pa­zien­za per far cre­sce­re un grup­po di ra­gaz­ze che ave­va­no tut­to da im­pa­ra­re. I ri­sul­ta­ti fu­ro­no de­lu­den­ti e, per un lun­go pe­rio­do, con­ti­nuam­mo ad oc­cu­pa­re le ul­ti­me po­si­zio­ni del­la clas­si­fi­ca. Non che da noi qual­cu­no si aspet­tas­se al­tro.

    Mi fu chia­ro, fin da su­bi­to, che l’am­bi­zio­so pro­get­to di Mc­Cain di por­ta­re la squa­dra ai mas­si­mi li­vel­li avreb­be avu­to bi­so­gno di tan­to tem­po e tan­ti sa­cri­fi­ci.

    Tut­to ciò non mi spa­ven­ta­va e non te­me­vo nep­pu­re la ne­ga­ti­vi­tà dell’am­bien­te. Per que­stio­ni di ca­rat­te­re non ero so­li­ta la­sciar­mi ab­bat­te­re dal­le dif­fi­col­tà;  quan­do le co­se non an­da­va­no per il ver­so giu­sto, al­za­vo le spal­le e con­ti­nua­vo a cor­re­re, cer­ta che, pri­ma o poi, sa­rem­mo riu­sci­te a to­glier­ci le no­stre sod­di­sfa­zio­ni.

    Nell’ul­ti­ma sta­gio­ne, la so­cie­tà de­ci­se di af­fi­da­re la pan­chi­na a Mi­chael Earl.

    Earl era sta­to un cal­cia­to­re di ot­ti­mo li­vel­lo. Ter­mi­na­ta la car­rie­ra di gio­ca­to­re, ini­ziò ad al­le­na­re ot­te­nen­do ri­sul­ta­ti sod­di­sfa­cen­ti, sia in cam­po ma­schi­le che fem­mi­ni­le. Mc­Cain riu­scì ad an­ti­ci­pa­re di­ver­se al­tre so­cie­tà che era­no in­te­res­sa­te al suo in­gag­gio. La pre­sen­za di Earl con­vin­se di­ver­se gio­ca­tri­ci di buon li­vel­lo a tra­sfe­rir­si ai Lions, su tut­te Bon­nie Wil­liams, Ca­rol Ben­nett e Hol­ly Webb, no­mi di as­so­lu­to ri­lie­vo nel pa­no­ra­ma cal­ci­sti­co na­zio­na­le.

    Bon­nie pro­ve­ni­va dal­la pri­ma ca­te­go­ria. Era un’at­tac­can­te ve­lo­ce, for­te fi­si­ca­men­te e, so­prat­tut­to, fa­ce­va gol, in­som­ma, il ti­po di gio­ca­tri­ce che ai Lions era sem­pre man­ca­ta.

    Earl ave­va vo­lu­to a tut­ti i co­sti il suo in­gag­gio. Se ar­ri­va Bon­nie, qui cam­bia tut­to! ri­pe­te­va. Do­po un’este­nuan­te trat­ta­ti­va, Bon­nie ac­cet­tò l’of­fer­ta dei Lions.

    Earl si por­tò dal­le Black Sheep due gio­ca­tri­ci fi­da­te, Ca­rol e Hol­ly. Ca­rol gio­ca­va sul­la fa­scia, men­tre Hol­ly ri­co­pri­va il ruo­lo di cen­tro­cam­pi­sta cen­tra­le.

    Quel­la fu vi­sta da tut­ti co­me una cam­pa­gna ac­qui­sti trion­fa­le e la gen­te ini­ziò a pen­sa­re che l’obiet­ti­vo pro­mo­zio­ne po­tes­se es­se­re fi­nal­men­te per­cor­ri­bi­le.

    Pec­ca­to che, pre­sto, quel­la sta­gio­ne si tra­sfor­mò in un in­cu­bo e la squa­dra non sep­pe sfrut­ta­re le sue buo­ne po­ten­zia­li­tà; fin da su­bi­to, i ri­sul­ta­ti non fu­ro­no quel­li spe­ra­ti e l’in­sod­di­sfa­zio­ne e le po­le­mi­che, all’in­ter­no del­lo spo­glia­to­io, al­la fi­ne eb­be­ro la me­glio.

    Le nuo­ve ar­ri­va­te di­mo­stra­ro­no no­te­vo­li dif­fi­col­tà di in­se­ri­men­to. De­lu­dem­mo le aspet­ta­ti­ve di tut­ti, so­cie­tà e ti­fo­si com­pre­si,  e non riu­scim­mo ad an­da­re al di là di un in­si­gni­fi­can­te no­no po­sto.

    Gli stes­si ti­fo­si, che ave­va­no so­ste­nu­to la squa­dra con en­tu­sia­smo nei pri­mi me­si del­la sta­gio­ne, len­ta­men­te ci ab­ban­do­na­ro­no.

    Earl era uno to­sto. De­di­ca­va pa­rec­chio tem­po al­la pre­pa­ra­zio­ne de­gli al­le­na­men­ti e non la­scia­va mai nul­la al ca­so. Du­ran­te la sta­gio­ne ave­va cer­ca­to di in­cul­ca­re nel­le ra­gaz­ze la sua men­ta­li­tà vin­cen­te. Il ri­sul­ta­to era sta­to una ge­stio­ne di­scu­ti­bi­le del­le scel­te e una squa­dra sen­za per­so­na­li­tà.

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