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7 è il mio numero preferito
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E-book156 pagine1 ora

7 è il mio numero preferito

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Info su questo ebook

Sette racconti raccolti nel tempo.

Storie di perdite e ritrovamenti, tra ampi sorrisi e talune amarezze.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mag 2020
ISBN9788831666558
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    Anteprima del libro

    7 è il mio numero preferito - Marzia Cikada

    tem­po

    Al suono delle Tue Parole

    La ca­sa è una ca­pan­na. La ca­sa è un ri­fu­gio. E’ sta­ta ta­na pri­ma che di­mo­ra. E’ sta­ta brac­cia mor­bi­de quan­do si cer­ca­va l’ab­brac­cio di due brac­cia mor­bi­de. L’at­te­sa ri­com­pen­sa­ta. Il te­po­re del non do­ver cor­re­re più.

    Stan­co di fu­ghe ar­ri­vò il tem­po di na­scon­der­si sol­tan­to, sen­za far trop­po ca­so ad es­se­re tro­va­to, sen­za at­ten­zio­ne al­le trac­ce la­scia­te, al­le or­me tra le fo­glie, ai ra­mi spez­za­ti.

    Un gior­no po­sò bi­sac­cia e bor­rac­cia e de­ci­se che tut­to in­tor­no gli sa­reb­be sta­to asi­lo. La stan­chez­za può di­ven­ta­re amo­re se pas­sa per l’abi­tu­di­ne. Ave­va po­co più dei trent’an­ni al­lo­ra, po­co me­no dei set­tan­ta ades­so. Co­nob­be gli odo­ri del bo­sco e li co­nob­be do­po me­si di fa­ti­ca a strin­ge­re le­ga­mi di fi­du­cia con le ra­di­ci, ad ac­cet­ta­re lo scher­zo del­le ca­du­te, il se­gno dei ra­mi fru­sta­ti ad­dos­so, i ge­sti di stiz­za del­la ter­ra, dell’ac­qua, d’in­ver­no trop­pa d’esta­te trop­po po­ca.

    An­ni di espe­rien­ze da ac­cu­mu­la­re pri­ma, per po­ter­si ri­co­no­sce­re do­po, stan­co lui e stan­co il bo­sco. Lui stan­co di ten­ta­ti­vi di ri­tor­no let­ti nel­le pa­ro­le de­gli al­tri, l’al­tro stan­co di re­sa, per la ca­par­bie­tà del­lo stra­nie­ro. Non si ap­par­te­ne­va­no ma si te­ne­va­no stret­ti a mo­do lo­ro. Non po­te­va­no le­ni­re i do­lo­ri in­flit­ti dal tem­po, dal­le guer­re de­gli uo­mi­ni, que­gli uo­mi­ni che vi­ve­va­no fuo­ri dal con­fi­ne di al­be­ri gros­si, quel con­fi­ne che se­gna­va il pas­sag­gio ver­so il pae­se. Non po­te­va­no le­ni­re il do­lo­re, ma po­te­va­no far­si mu­ta com­pa­gnia, la com­pa­gnia si­len­zio­sa de­gli aman­ti tor­men­ta­ti dall’om­bra dell’amo­re, l’om­bra che in­tra­ve­do­no e san­no non po­ter al­lon­ta­na­re, la com­pa­gnia ta­ci­ta dei ras­se­gna­ti al né con te né sen­za.

    L’uo­mo, non più gio­va­ne, era ora par­te del bo­sco, del­le sue fra­sche, del­le sue zol­le umi­de di ter­ric­cio buo­no, del­le muf­fe a nord e del­le fie­re ti­mi­de, mil­le vol­te ascol­ta­te, mai vi­ste.

    Il bo­sco, vec­chio di sem­pre, era ora par­te dell’uo­mo, dei suoi ca­pel­li ir­ti di pro­mes­se non man­te­nu­te, di­men­ti­ca­te a for­za, del­le sue in­te­rio­ra pul­san­ti, del­le sue ma­ni gros­se a ri­co­strui­re ie­ri, del suo do­lo­re ata­vi­co per una mor­te per ma­no del­la sto­ria che gli bru­cia­va an­co­ra gli oc­chi. La­cri­me ac­col­te dal­la ter­ra che mai le ave­va pe­rò guar­da­te, per de­li­ca­tez­za.

    Qua­rant’an­ni che l’uo­mo vi­ve in que­sta co­stru­zio­ne sbi­len­ca, che è ca­sa. All’ini­zio cre­du­to paz­zo di do­lo­re, la­scia­to sta­re al suo­no dei gli pas­se­rà, poi guar­da­to con il so­spet­to del­la ma­lat­tia che non pas­sa, poi an­co­ra rac­con­ta­to a stra­nez­ze in­ven­ta­te, lui il so­li­ta­rio, lui il fol­le, lui l’ere­mi­ta. La ma­dre era mor­ta di do­lo­re nell’at­te­sa del ri­tor­no. Que­sto si di­ce­va. Que­sto gli ave­va­no det­to, con mal ce­la­to pia­ce­re, die­tro so­pra­bi­ti di con­tri­zio­ne.

    Tua ma­dre è mor­ta in­vo­can­do il tuo ri­tor­no. Ha sem­pre la­scia­to li­be­ro un po­sto a ta­vo­la per il gior­no che di nuo­vo avre­sti pran­za­to con lei. Gli chie­se­ro un gior­no.

    Mia ma­dre è mor­ta per­ché le ma­dri muo­io­no e sa­reb­be sta­to un ma­le vi­ves­se an­co­ra con quell’ama­ro nel cuo­re, per­ché sa­pe­va di es­se­re col­pe­vo­le di un trop­po gran­de amo­re, le ma­dri so­no mo­stri. Non è ve­ro che l’ho di­men­ti­ca­ta o che la odias­si an­co­ra. Mia ma­dre mi ha sal­va­to, ma per far­lo mi ha do­vu­to uc­ci­de­re. So­no un abor­to. Co­me po­trei ama­re mia ma­dre se non ho ma­dre? Non ho che que­sta ca­sa. Ri­spo­se l’uo­mo.

    Nean­che sua so­rel­la riu­scì a far­lo tor­na­re. An­dò una vol­ta, ve­sti­ta a fe­sta e con gli oc­chi di­pin­ti.

    Vie­ni, ri­tor­na, ti fac­cio co­no­sce­re mio ma­ri­to, ho due bam­bi­ni. Uno sa di ave­re uno zio che vi­ve nel bo­sco e ti man­da un di­se­gno. E ti man­da un di­se­gno do­ve sei co­me un eroe, sei un eroe tri­ste pe­rò. Ma non l’ho det­to io, lo ha det­to mio fi­glio. Non puoi da­re col­pe ai bam­bi­ni. Que­sto dis­se la so­rel­la, con gli oc­chi di­pin­ti e la bor­set­ta lu­ci­da in tin­ta. E lei sa­pe­va che non sa­reb­be tor­na­to e che non ave­va più ma­dre e più fra­tel­li. Pen­sa­va a Ne­nè, sua so­rel­la. Il fra­tel­lo, mag­gio­re per po­chi an­ni. Era mor­to Ne­nè, ca­du­to sot­to il fuo­co di un ne­mi­co buo­no a co­struir­ci la­pi­di ai ca­du­ti, da in­di­ca­re a ri­sar­ci­men­to co­me una scu­sa pic­co­la, ma buo­na ab­ba­stan­za ad in­ven­tar­si una mor­te da eroe. E gli eroi pos­so­no man­ca­re al mo­men­to sba­glia­to. Pos­so­no spa­ri­re, di­vo­ra­ti dal lo­ro co­rag­gio al suo­no del­la sto­ria, e so­no eroi per sem­pre. An­che quan­do il lo­ro co­rag­gio li fal­cia per stra­da una not­te per ca­so, che so­no di ri­tor­no da una sem­pli­ce pas­seg­gia­ta e han­no la spe­ran­za buo­na dei vent’an­ni e cam­mi­na­no sen­za pen­sar­ci che è guer­ra, che è me­glio non can­ta­re. Non lo sa­pe­va, quell’eroe in­ge­nuo di suo fra­tel­lo, che quel­la sa­reb­be sta­ta l’ul­ti­ma vol­ta che ur­la­va il no­me del­la sua fu­tu­ra spo­sa. Non da­van­ti al pre­te, o den­tro ad un let­to di co­to­ne buo­no, ma in una not­te gi­ra­ta di do­lo­re dall’al­tra par­te, in mez­zo ad una stra­da di ciot­to­li bian­chi, nel­le orec­chie in ascol­to di un ne­mi­co ac­cor­to e in­vi­dio­so per un amo­re che non avreb­be ri­vi­sto più, il suo di amo­re, il suo di no­me di don­na, lon­ta­na in pa­tria e con qual­cu­no di di­ver­so ac­can­to. Per­ché la guer­ra se­pa­ra an­che sen­za gli ono­ri del­la mor­te. La so­rel­la pen­sa­va spes­so a quel­lo che le man­ca­va. Mor­to di in­ge­nui­tà il fra­tel­lo pic­co­lo, mor­to di con­sa­pe­vo­lez­za il gran­de. Due fra­tel­li mor­ti d’amo­re so­no trop­pi per chiun­que. E quan­to spa­zio inu­ti­le nel­la ca­sa di sua ma­dre. Lo spa­zio va riem­pi­to a ur­la di gio­chi e di chiac­chie­re d’esta­te, lo spa­zio vuo­to fa pau­ra co­me un ur­lo nel­le orec­chie, quel­la ca­sa era le pau­re del­la sua in­fan­zia, rim­bom­ba­va del­le do­man­de sen­za ri­spo­sta che tan­te vol­te ave­va fat­to a quel mo­nu­men­to che era sua ma­dre.

    Do­ve stà pa­pà? E quan­do vie­ne? Quan­do tor­na Ne­nè? E non ve­do più la chi­tar­ra e co­me glie­la fa la se­re­na­ta ad Au­gu­sta? E poi do­ve è an­da­to Sti­no mio e quan­do mi por­ta a ca­val­luc­cio? E quan­do si man­gia tut­ti in­sie­me an­co­ra? Quan­do, mam­ma, quan­do?. Nes­su­na ri­spo­sta che non fos­se un si­len­zio di mar­mo, che le ca­sca­va ad­dos­so du­ro du­ro, e lei si era fat­ta si­len­zio­sa al­le do­man­de e ave­va pre­so ad aspet­ta­re. Due me­si in si­len­zio, ad at­ten­de­re il pros­si­mo pran­zo in­sie­me. Non ci sa­reb­be mai sta­to e lo sa­pe­va, ma co­me po­te­va cre­der­ci se sua ma­dre non la strin­ge­va tra il pian­to e non le di­ce­va che era­no so­le e che le vo­le­va be­ne?

    Dal­la guer­ra non si tor­na, lo ave­va im­pa­ra­to a scuo­la e nel­le la­cri­me del­le ami­che. Ma lei non sa­pe­va co­sa era la per­di­ta di un fa­mi­lia­re, ne co­no­sce­va so­lo la spa­ri­zio­ne. Al­me­no fin­ché non le ave­va­no fi­nal­men­te det­to di Ne­nè, pri­ma, e di suo pa­dre, poi. Con cat­ti­ve­ria e de­so­la­zio­ne, for­se, ma ave­va­no con­fes­sa­to quel­le mor­ti che era­no la sua fa­mi­glia mi­glio­re. Mi­glio­re di quel­la ma­dre ta­ci­tur­na e ge­la­ta, che non avreb­be più ama­to se non con il ran­co­re dei se­gre­ti, che so­no fe­ri­te nel­la sto­ria di ognu­no.

    Più du­ro fu sco­pri­re il de­sti­no del do­ve di quel suo fra­tel­lo gran­de, ro­bu­sto, fie­ro. Il pre­fe­ri­to del­la ma­dre, tan­to da co­strin­ger­la più vol­te a di­scu­te­re con il ma­ri­to, suo pa­dre, il buo­no. Di­scu­te­va­no per le sue idee da ar­ti­sta, per la sua vo­glia di usa­re le ma­ni per scri­ve­re in­ve­ce che per do­ma­re la ter­ra, per quel suo mo­do di par­la­re di pa­dro­ni, per quel suo sguar­do da sa­bo­ta­to­re di real­tà, per co­me la co­no­sce­va­no. So­lo quel suo amo­re stra­nie­ro, la ma­dre, non gli ave­va per­do­na­to. So­lo quell’uni­co, ve­ro, tra­di­men­to non ave­va ret­to. Ma ora che lei non c’era più, che Sa­ra non c’era più, do­ve era suo fra­tel­lo? E do­ve era­no le pa­ro­le di sua ma­dre? An­co­ra fu la gen­te a riem­pi­re i bu­chi del­la sua sto­ria e an­co­ra, tra la sod­di­sfa­zio­ne acre e l’af­fli­zio­ne, le ave­va­no par­la­to del­la fu­ga per i mon­ti di suo fra­tel­lo gran­de. Che era scap­pa­to, ma non per es­se­re eroe, co­me il fra­tel­lo pic­co­lo, eroe di de­bo­lez­za e di un no­me can­ta­to, no. Suo fra­tel­lo, quel­lo che lei chia­ma­va Sti­no per un buf­fo di­mi­nu­ti­vo, di quel­li che si in­ven­ta­no per ne­ces­si­tà di crea­re l’uni­co, quel suo fra­tel­lo, di cui la ma­dre era in­na­mo­ra­ta al pun­to da non ve­der­la nean­che, tan­to era pie­na dell’as­sen­za di lui, quel­lo era im­paz­zi­to. La sua era una fu­ga vi­gliac­ca, un na­scon­der­si tra i bo­schi, a vi­ve­re co­me ani­ma­le, in una ca­sa che era ter­ra e al­be­ri sec­chi. Una vol­ta an­co­ra ti­ra­va le som­me e una vol­ta an­co­ra non po­te­va che sen­tir­si truf­fa­ta. Un pa­dre ed un fra­tel­lo mor­ti am­maz­za­ti da una guer­ra che non ca­pi­va, un fra­tel­lo in­ve­ce per­du­to in av­ve­ni­men­ti che avreb­be ca­pi­to so­lo adul­ta, do­po la rab­bia mu­ta, la so­li­tu­di­ne dell’ado­le­scen­za, un amo­re suo ca­pa­ce di ren­der­la di nuo­vo vi­si­bi­le ed una ma­dre che era una sta­tua di si­len­zi, che avreb­be per­do­na­ta so­lo quan­do sa­reb­be sta­ta an­che lei, per due vol­te e di due ma­schi pu­re, ma­dre.

    Quan­do ri­vi­de suo fra­tel­lo gran­de, ven­ti an­ni do­po, lui era or­mai un uo­mo li­be­ro, la­scia­to al­la de­ri­va nel suo bo­sco, na­sco­sto dal­la stes­sa gen­te che le ave­va con­fes­sa­to la sua fu­ga, pro­tet­to dal­la col­pa di chi, sep­pur non aves­se pre­mu­to nes­sun gril­let­to, pu­re non ave­va al­lon­ta­na­ta la ma­no dal far­lo. Nes­su­no si in­tro­met­te­va nel­la vi­ta da bo­schi di suo fra­tel­lo ades­so, nes­sun ser­vi­zio so­cia­le osa­va an­che so­lo far ca­pi­re che sa­pe­va. Si fa­ce­va fin­ta che or­mai, pas­sa­ti gli an­ni, lui sem­pli­ce­men­te, fos­se sva­ni­to. Emi­gra­to, for­se, co­me cer­ti uc­cel­li di sta­gio­ne.

    Quel gior­no, vent’an­ni do­po, il gior­no dell’in­con­tro, suo ma­ri­to l’aspet­tò all’usci­ta del bo­sco. La ba­ciò pri­ma che en­tras­se. Un ba­cio di quel­li che so­no por­ta­for­tu­na da te­ne­re a men­te per il bi­so­gno.

    Quan­do si vi­de­ro, sa­pe­va­no che non si sa­reb­be­ro po­tu­ti ab­brac­cia­re per una stra­na leg­ge del­le di­stan­ze che

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