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Anteprima del libro
7 è il mio numero preferito - Marzia Cikada
tempo
Al suono delle Tue Parole
La casa è una capanna. La casa è un rifugio. E’ stata tana prima che dimora. E’ stata braccia morbide quando si cercava l’abbraccio di due braccia morbide. L’attesa ricompensata. Il tepore del non dover correre più.
Stanco di fughe arrivò il tempo di nascondersi soltanto, senza far troppo caso ad essere trovato, senza attenzione alle tracce lasciate, alle orme tra le foglie, ai rami spezzati.
Un giorno posò bisaccia e borraccia e decise che tutto intorno gli sarebbe stato asilo. La stanchezza può diventare amore se passa per l’abitudine. Aveva poco più dei trent’anni allora, poco meno dei settanta adesso. Conobbe gli odori del bosco e li conobbe dopo mesi di fatica a stringere legami di fiducia con le radici, ad accettare lo scherzo delle cadute, il segno dei rami frustati addosso, i gesti di stizza della terra, dell’acqua, d’inverno troppa d’estate troppo poca.
Anni di esperienze da accumulare prima, per potersi riconoscere dopo, stanco lui e stanco il bosco. Lui stanco di tentativi di ritorno letti nelle parole degli altri, l’altro stanco di resa, per la caparbietà dello straniero. Non si appartenevano ma si tenevano stretti a modo loro. Non potevano lenire i dolori inflitti dal tempo, dalle guerre degli uomini, quegli uomini che vivevano fuori dal confine di alberi grossi, quel confine che segnava il passaggio verso il paese. Non potevano lenire il dolore, ma potevano farsi muta compagnia, la compagnia silenziosa degli amanti tormentati dall’ombra dell’amore, l’ombra che intravedono e sanno non poter allontanare, la compagnia tacita dei rassegnati al né con te né senza.
L’uomo, non più giovane, era ora parte del bosco, delle sue frasche, delle sue zolle umide di terriccio buono, delle muffe a nord e delle fiere timide, mille volte ascoltate, mai viste.
Il bosco, vecchio di sempre, era ora parte dell’uomo, dei suoi capelli irti di promesse non mantenute, dimenticate a forza, delle sue interiora pulsanti, delle sue mani grosse a ricostruire ieri, del suo dolore atavico per una morte per mano della storia che gli bruciava ancora gli occhi. Lacrime accolte dalla terra che mai le aveva però guardate, per delicatezza.
Quarant’anni che l’uomo vive in questa costruzione sbilenca, che è casa. All’inizio creduto pazzo di dolore, lasciato stare al suono dei gli passerà
, poi guardato con il sospetto della malattia che non passa, poi ancora raccontato a stranezze inventate, lui il solitario, lui il folle, lui l’eremita. La madre era morta di dolore nell’attesa del ritorno. Questo si diceva. Questo gli avevano detto, con mal celato piacere, dietro soprabiti di contrizione.
Tua madre è morta invocando il tuo ritorno. Ha sempre lasciato libero un posto a tavola per il giorno che di nuovo avresti pranzato con lei.
Gli chiesero un giorno.
Mia madre è morta perché le madri muoiono e sarebbe stato un male vivesse ancora con quell’amaro nel cuore, perché sapeva di essere colpevole di un troppo grande amore, le madri sono mostri. Non è vero che l’ho dimenticata o che la odiassi ancora. Mia madre mi ha salvato, ma per farlo mi ha dovuto uccidere. Sono un aborto. Come potrei amare mia madre se non ho madre? Non ho che questa casa.
Rispose l’uomo.
Neanche sua sorella riuscì a farlo tornare. Andò una volta, vestita a festa e con gli occhi dipinti.
Vieni, ritorna, ti faccio conoscere mio marito, ho due bambini. Uno sa di avere uno zio che vive nel bosco e ti manda un disegno. E ti manda un disegno dove sei come un eroe, sei un eroe triste però. Ma non l’ho detto io, lo ha detto mio figlio. Non puoi dare colpe ai bambini.
Questo disse la sorella, con gli occhi dipinti e la borsetta lucida in tinta. E lei sapeva che non sarebbe tornato e che non aveva più madre e più fratelli. Pensava a Nenè, sua sorella. Il fratello, maggiore per pochi anni. Era morto Nenè, caduto sotto il fuoco di un nemico buono a costruirci lapidi ai caduti, da indicare a risarcimento come una scusa piccola, ma buona abbastanza ad inventarsi una morte da eroe. E gli eroi possono mancare al momento sbagliato. Possono sparire, divorati dal loro coraggio al suono della storia, e sono eroi per sempre. Anche quando il loro coraggio li falcia per strada una notte per caso, che sono di ritorno da una semplice passeggiata e hanno la speranza buona dei vent’anni e camminano senza pensarci che è guerra, che è meglio non cantare. Non lo sapeva, quell’eroe ingenuo di suo fratello, che quella sarebbe stata l’ultima volta che urlava il nome della sua futura sposa. Non davanti al prete, o dentro ad un letto di cotone buono, ma in una notte girata di dolore dall’altra parte, in mezzo ad una strada di ciottoli bianchi, nelle orecchie in ascolto di un nemico accorto e invidioso per un amore che non avrebbe rivisto più, il suo di amore, il suo di nome di donna, lontana in patria e con qualcuno di diverso accanto. Perché la guerra separa anche senza gli onori della morte. La sorella pensava spesso a quello che le mancava. Morto di ingenuità il fratello piccolo, morto di consapevolezza il grande. Due fratelli morti d’amore sono troppi per chiunque. E quanto spazio inutile nella casa di sua madre. Lo spazio va riempito a urla di giochi e di chiacchiere d’estate, lo spazio vuoto fa paura come un urlo nelle orecchie, quella casa era le paure della sua infanzia, rimbombava delle domande senza risposta che tante volte aveva fatto a quel monumento che era sua madre.
Dove stà papà? E quando viene? Quando torna Nenè? E non vedo più la chitarra e come gliela fa la serenata ad Augusta? E poi dove è andato Stino mio e quando mi porta a cavalluccio? E quando si mangia tutti insieme ancora? Quando, mamma, quando?
. Nessuna risposta che non fosse un silenzio di marmo, che le cascava addosso duro duro, e lei si era fatta silenziosa alle domande e aveva preso ad aspettare. Due mesi in silenzio, ad attendere il prossimo pranzo insieme. Non ci sarebbe mai stato e lo sapeva, ma come poteva crederci se sua madre non la stringeva tra il pianto e non le diceva che erano sole e che le voleva bene?
Dalla guerra non si torna, lo aveva imparato a scuola e nelle lacrime delle amiche. Ma lei non sapeva cosa era la perdita di un familiare, ne conosceva solo la sparizione. Almeno finché non le avevano finalmente detto di Nenè, prima, e di suo padre, poi. Con cattiveria e desolazione, forse, ma avevano confessato quelle morti che erano la sua famiglia migliore. Migliore di quella madre taciturna e gelata, che non avrebbe più amato se non con il rancore dei segreti, che sono ferite nella storia di ognuno.
Più duro fu scoprire il destino del dove di quel suo fratello grande, robusto, fiero. Il preferito della madre, tanto da costringerla più volte a discutere con il marito, suo padre, il buono. Discutevano per le sue idee da artista, per la sua voglia di usare le mani per scrivere invece che per domare la terra, per quel suo modo di parlare di padroni, per quel suo sguardo da sabotatore di realtà, per come la conoscevano. Solo quel suo amore straniero, la madre, non gli aveva perdonato. Solo quell’unico, vero, tradimento non aveva retto. Ma ora che lei non c’era più, che Sara non c’era più, dove era suo fratello? E dove erano le parole di sua madre? Ancora fu la gente a riempire i buchi della sua storia e ancora, tra la soddisfazione acre e l’afflizione, le avevano parlato della fuga per i monti di suo fratello grande. Che era scappato, ma non per essere eroe, come il fratello piccolo, eroe di debolezza e di un nome cantato, no. Suo fratello, quello che lei chiamava Stino per un buffo diminutivo, di quelli che si inventano per necessità di creare l’unico, quel suo fratello, di cui la madre era innamorata al punto da non vederla neanche, tanto era piena dell’assenza di lui, quello era impazzito. La sua era una fuga vigliacca, un nascondersi tra i boschi, a vivere come animale, in una casa che era terra e alberi secchi. Una volta ancora tirava le somme e una volta ancora non poteva che sentirsi truffata. Un padre ed un fratello morti ammazzati da una guerra che non capiva, un fratello invece perduto in avvenimenti che avrebbe capito solo adulta, dopo la rabbia muta, la solitudine dell’adolescenza, un amore suo capace di renderla di nuovo visibile ed una madre che era una statua di silenzi, che avrebbe perdonata solo quando sarebbe stata anche lei, per due volte e di due maschi pure, madre.
Quando rivide suo fratello grande, venti anni dopo, lui era ormai un uomo libero, lasciato alla deriva nel suo bosco, nascosto dalla stessa gente che le aveva confessato la sua fuga, protetto dalla colpa di chi, seppur non avesse premuto nessun grilletto, pure non aveva allontanata la mano dal farlo. Nessuno si intrometteva nella vita da boschi di suo fratello adesso, nessun servizio sociale osava anche solo far capire che sapeva. Si faceva finta che ormai, passati gli anni, lui semplicemente, fosse svanito. Emigrato, forse, come certi uccelli di stagione.
Quel giorno, vent’anni dopo, il giorno dell’incontro, suo marito l’aspettò all’uscita del bosco. La baciò prima che entrasse. Un bacio di quelli che sono portafortuna da tenere a mente per il bisogno.
Quando si videro, sapevano che non si sarebbero potuti abbracciare per una strana legge delle distanze che