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Anno Domini 367
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E-book609 pagine9 ore

Anno Domini 367

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Info su questo ebook

Il suo coraggio lo consegnerà alla leggenda

L'impero romano è al tramonto
Solo un eroe potrà salvare Roma

Un grande romanzo storico di John Henry Clay

ANNO DOMINI 367.
L’Impero Romano è al tramonto. Solo un eroe potrà salvare Roma. Gaio Cironio Agno Paolo è un soldato romano, dal passato misterioso, la cui vita è stata segnata da una terribile tragedia. Ora l’accampamento presso il Vallo di Adriano non è più un luogo sicuro: una cospirazione minaccia non solo la sua famiglia, ma l’intero Paese. Per riuscire ad avvertire del pericolo che incombe, Paolo è costretto a lottare per sopravvivere nel suo stesso esercito prima ancora che contro i barbari, e deve disertare e intraprendere un avventuroso viaggio verso il sud della Britannia, alla volta della sua casa natale. I suoi sforzi non riescono però a impedire una terribile invasione barbarica, che devasta le regioni in cui è cresciuto e provoca ulteriori lutti nella sua famiglia. Il suo coraggio e la determinazione di cui dà prova di fronte ai suoi concittadini lo condurranno alla sfida decisiva: se porterà a termine la missione sarà osannato come un eroe, altrimenti sarà dimenticato, polvere nella polvere.

Sei pronto per la battaglia?

Una minaccia barbarica
Una cospirazione silenziosa
La pace di Roma è in pericolo


John Henry Clay
È docente di Storia all’università di Durham. Ha studiato all’università di York e ha lavorato come ricercatore all’Accademia Austriaca delle Scienze di Vienna. Anno Domini 367 è il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854152885
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    Anteprima del libro

    Anno Domini 367 - John Henry Clay

    524

    Titolo originale: The Lion and the Lamb

    Copyright © John Henry Clay 2013

    Illustrazioni © John Henry Clay

    Traduzione dall’inglese di Giampiero Cara e Tamara Topini

    Prima edizione ebook: giugno 2013

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5288-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Grafica: Alessandro Tiburtini

    Immagine di cover: © Stephen Mulcahey

    John Henry Clay

    Anno Domini 367

    Per mamma e papà

    mappa1.tif

    Le Quattro Province della Britannia, 367 d.C.

    mappa2.tif

    Territorio dei Dobunni.

    LE QUATTRO PROVINCE DELLA BRITANNIA, 362 d.C.

    Millecentoquindici anni dalla fondazione di Roma

    Trecentosedici anni dalla conquista

    Cinque anni prima della Grande cospirazione barbarica

    moneta1.tif

    Prologo

    Guarda la luce del sole che luccica sul bordo della lama. La spada è silenziosa, affilata e salda, con la punta sospesa a un breve colpo di distanza dal tuo viso. Chi la brandisce ti fissa ma, con il sole alle spalle e il viso in ombra, non sembra avere un’identità. Senti il suo respiro e il tuo fondersi con lo scroscio del fiume in cui giaci. Non sai chi sia l’uomo, né da dove venga. Ti ha in pugno, e tra un istante ti ucciderà.

    Paolo giaceva nel ruscello in mezzo al bosco disteso sulla schiena, nudo, con la testa e le spalle sollevate sui gomiti sopra l’acqua ribollente; attendeva che l’uomo in piedi sopra di lui, con i ruvidi pantaloni inzuppati fino alle ginocchia e la spada sollevata, gli desse il colpo di grazia.

    Le pietre sul letto del ruscello incidevano dolorosamente la carne nuda di Paolo. Questi batteva i denti, e aveva gli arti che tremavano per la paura e l’acqua gelida, che gli aveva già risucchiato tutto il calore dal corpo.

    Non implorare, si disse col cuore che gli batteva forte. La morte non significa nulla per te in questo momento. Pensa alla giustizia della tua fine e accettala. Tutti i meccanismi di questo mondo senza dio ti hanno portato fin qui. Hai cominciato la tua vita nudo e urlante. Ora, almeno, hai la possibilità di terminarla con quel poco di dignità che ti resta.

    Paolo non implorò, ma continuò a tremare e, pur cercando di chiudere gli occhi, non riuscì a smettere di fissare la lama luccicante. Anzi, ne attese il movimento successivo: una stoccata alla gola, che lo avrebbe fatto precipitare nell’oblio.

    Nell’ultimo istante pensò con tristezza a sua sorella. Nonostante tutto, desiderò averle detto almeno addio.

    La lama non si mosse. Paolo udì un colpo sordo e vide il petto del suo assalitore sobbalzare in modo strano. L’uomo barcollò, stringendo ancora la spada, e quasi cadde. Girò verso sinistra e, ciondolando goffamente nell’acqua come un ubriaco, raggiunse l’argine e cominciò a strisciare sul manto erboso, dove si accasciò.

    Alla fine, lo vide steso di fronte a sé con la spada lungo il fianco. Conficcata in profondità nella schiena aveva l’asta di una freccia, con le piume d’oca che ancora risplendevano bianche al sole.

    Paolo rimase dove si trovava, fermo e in silenzio in mezzo all’acqua, a fissare tra l’oscurità degli alberi oltre la riva del fiume, ma non scorse alcun movimento e non udì nulla, a parte lo scroscio del ruscello e il vicino canto di un merlo. Era come se la freccia fosse venuta giù dal cielo. Quando decise di rialzarsi, gli ci volle uno sforzo doloroso per riportare movimento e vita nei suoi arti congelati. Con rigida lentezza si alzò in piedi. Il torace si sollevava con rapidità e il sangue gli pulsava nel collo. Sentì istintivamente di avere ancora al dito l’anello col sigillo della sua famiglia. E in effetti c’era.

    Fermò il tremore della bocca abbastanza a lungo da riuscire a emettere tre brevi parole: «Chi è là?».

    Dagli alberi emerse una figura solitaria. Sembrava avere più o meno la stessa età di Paolo, circa sedici anni, e indossava abiti da contadino – un mantello e una sacca da viaggio, un copricapo di stoffa e una faretra piena di frecce – mentre nella mano destra teneva un arco da caccia. Aveva il viso lungo e la bocca larga. Sorrideva tra sé, senza guardare l’uomo che scendeva lungo la riva verso di lui.

    «Grazie, amico», disse Paolo, desiderando avere una voce più forte. Il suo corpo si scuoteva ancora tutto, come se volesse scoppiare. Poco prima, il suo assassino mancato l’aveva sorpreso mentre faceva il bagno in quel ruscello in mezzo al bosco, aveva tolto i suoi abiti dalla riva e li aveva lanciati in mezzo alla corrente prima di avanzare verso di lui. L’acqua era poco profonda, ma la forte corrente, gonfiata dalle piogge di primavera, aveva trasportato la tunica, il mantello e gli indumenti intimi di Paolo a una certa distanza, fino a farli impigliare in un salice incombente sull’argine.

    Raggiunto il corpo, il giovane contadino lo toccò col dito del piede. Dopo aver appurato che era senza vita, gli tirò via la freccia dalla schiena e guardò Paolo per la prima volta. Sembrò divertito dal fatto che fosse nudo; e quando notò che portava un anello d’oro al dito, e che i suoi abiti erano rimasti impigliati sul salice – il rosso scuro del mantello, la tunica con il suo bordo dorato, i costosi indumenti intimi di lino – lentamente il suo sorriso si allargò fino a diventare prima una risatina soffocata e poi una risata così forte da farlo piegare in due con gli occhi chiusi.

    Qualche istante prima Paolo aveva pensato di essere pronto a incontrare la morte con calma. Ora, invece, si sentiva ridicolo, là in piedi nudo nel fiume, di fronte a un contadino che si burlava di lui. Il fatto di dovere la vita a quel villano non fece che aggravare la sua umiliazione. Con rabbia, cercò di ignorare la risata e cominciò ad avanzare in mezzo alla corrente verso i suoi vestiti. Dopo appena due passi, scivolò su una pietra muschiosa e cadde a faccia in giù nel ruscello. Si rialzò a fatica, si scrollò per togliersi l’acqua dalle orecchie, fece un altro passo in avanti e scivolò ancora. Quando si rialzò di nuovo, si guardò alle spalle e vide che il contadino gli stava accanto, ridendo sempre di più, come se stesse assistendo allo spettacolo di un buffone. A quel punto, Paolo imprecò e, abbandonando qualunque pretesa di dignità, si arrampicò goffamente sul salice, da cui tirò via i propri abiti con forza tale da strappare i pantaloni impigliati a un ramo.

    Poi si diresse barcollando verso l’argine e si lanciò sull’erba, esausto. Gli ci volle un momento per riprendere fiato e scorgere uno spesso ramo nel sottobosco. Sembrava bagnato e marcio, ma non se la sentiva di cercarne un altro. Quindi lo afferrò, lo brandì lungo un fianco e avanzò verso il contadino, che rideva ancora come un pazzo. Non si fermò neppure quando Paolo sollevò il ramo per colpirlo; si fece scudo con un braccio e, al primo colpo, il ramo si spezzò in due.

    Il resto del ramo era inutile. Paolo lo gettò nel ruscello. Pensava di prendere il contadino a calci sulle costole, oppure di conficcargli un tallone in mezzo agli occhi, ma l’istinto glielo impedì; era avvilente colpire degli esseri inferiori a mani nude. Si poteva farlo con fruste e bastoni, certo, ma non con pugni o calci. E poi era ancora nudo, visto che i suoi abiti giacevano in un cumulo inzuppato sull’argine. Il contadino poteva aspettare.

    Paolo tornò a occuparsi dei propri vestiti, cercando di sbrogliare i pantaloni. Era riuscito a strapparli proprio in cima, quindi avrebbe dovuto ricucirli prima di poterli indossare di nuovo. La tunica e il mantello di lana, invece, erano appesantiti e raffreddati dall’acqua, e non si sarebbero mai asciugati prima del tramonto. E lui cosa avrebbe fatto fino a quel momento, con il gelo della sera che già si diffondeva nell’aria della foresta?

    Qualcosa di scuro gli atterrò accanto. Era un paio di stivali.

    «Indossali, signore».

    Paolo si voltò e vide il contadino che, in piedi, sfilava via i pantaloni dalle gambe del cadavere. Quando ci fu riuscito, glieli lanciò.

    Paolo li guardò con disgusto. Erano grossolani, mal cuciti e senza dubbio scomodi. Si chinò per raccoglierli. Avevano ancora il calore del loro ultimo proprietario. «Non indosserò i pantaloni di un morto», disse.

    Il giovane contadino rise di nuovo. «Siamo tutti morti, signore».

    Quando il ragazzo ebbe terminato di vestirsi, il contadino aveva già trascinato il corpo nel sottobosco per lasciarlo ai lupi. Quindi tornò al ruscello per raccogliere la sacca, la faretra e l’arco. Paolo notò che la spada del morto gli pendeva dalla cintura. Era illegale per i contadini portare armi del genere; una spada contraddistingueva un uomo come fuorilegge, punibile con la morte nel foro pubblico per il semplice fatto di possederla. Ma essendo ormai lontano dalle città, con i loro tribunali e i loro giudici, pensò di lasciar correre.

    «Stavo per accamparmi da qualche parte a valle», disse il contadino. Fece un inchino sarcastico. «Se il mio signore desidera cibo e calore, sarò onorato della sua compagnia».

    Paolo annuì, contenendo la propria irritazione. Raccolse gli abiti bagnati e seguì il contadino – un membro della locale tribù dei Cornovi, almeno a giudicare dal suo modo di parlare – lungo un sentiero nella foresta. La tunica e il mantello del morto gli stavano male, ma almeno erano asciutti. Ed era vivo; se non fosse stato per quel ragazzo, il suo corpo nudo sarebbe stato cibo per i lupi. Per la prima volta gli venne in mente quanto sarebbe stato facile per il contadino uccidere pure lui, se avesse voluto, con una rapida seconda freccia che gli avrebbe fatto guadagnare un bell’anello d’oro. Pochi uomini vivevano in quei boschi, in cui uno come lui si era trovato estremamente indifeso. E invece, il contadino gli aveva salvato la vita. Mentre continuavano a camminare, nonostante il prurito che la tunica gli dava, alimentando il cattivo umore, Paolo cominciò a provare un po’ di riluttante gratitudine nei confronti del suo salvatore. «Hai un nome, contadino?»

    «Vittore».

    Paolo attese che, a sua volta, il contadino gli chiedesse il suo nome. Ma visto che non lo fece, gli chiese: «Sei un cacciatore?».

    Il cornovo sbuffò. «Sono la preda».

    Non si spiegò meglio, e non parlò di nuovo fino a poco prima del crepuscolo, quando si accamparono in una radura non lontana sopra il fiume. Paolo aveva percorso quelle foreste per diversi giorni e sapeva accendere un fuoco, ma gli sembrò giusto lasciarlo fare al contadino, standosene in disparte. Solo quando il fuoco prese ad ardere e il cielo sereno cominciò a scurirsi, rivelando le prime luci delle stelle, andò a sedersi accanto a lui. Guardò il contadino tirar fuori una lepre dalla sua sacca e tagliargli via la pelle dalle zampe posteriori con un coltello da caccia.

    «Mi chiamo Gaio Cironio Agno Paolo», disse.

    Intento a spellare l’animale, Vittore si limitò a un breve cenno. Schiacciando le zampe posteriori della lepre per tenerle ferme, tirò via la pelle fino al collo, rovesciandola. I muscoli nudi dell’animale luccicavano color porpora alla luce del falò. Gli tagliò il collo col suo coltello e mise da parte pelle e testa. «Onorato», disse.

    «Mio padre», aggiunse pazientemente Paolo, «è il senatore Gaio Cironio Agno dei Dobunni».

    A quelle parole, il contadino sollevò lo sguardo. «Credo di aver sentito parlare dei Dobunni».

    Paolo si rese conto che lo stava prendendo in giro. Era naturale che un cornovo avesse sentito parlare dei Dobunni, la tribù vicina a sud. Doveva conoscere anche i Cironii, una delle famiglie più ricche e potenti della Britannia, discendente da un’antica dinastia di re tribali il cui sangue nobile scorreva nelle vene di Paolo. Quest’ultimo scrutò da vicino il ragazzo e vide un sorriso increspargli le labbra. Lo stava prendendo in giro, spingendolo ad abbassarsi a spiegare la sua nobile discendenza. Quel pensiero lo fece infuriare. Non aveva mai incontrato una persona che non lo conoscesse, o che addirittura facesse finta di non conoscerlo.

    «Sei molto lontano da casa, Gaio Cironio Agno Paolo», disse Vittore. «Ti sei perso?».

    Era una domanda impudente che non meritava risposta. Per il momento, Paolo decise che avrebbe fatto meglio a mantenere un dignitoso silenzio. Quel contadino si sarebbe reso conto del proprio errore quando sarebbero usciti dai boschi per tornare al mondo civile…

    Fermò quel pensiero. Non puoi tornare, stupido. Te ne sei già dimenticato?.

    Il fatto di essere scampato alla morte per un pelo l’aveva scosso, restituendolo alle vecchie abitudini. Ma in quel momento il ricordo del proprio crimine gli tornò in mente come un corvo, di cui sentì le ali oscurargli i pensieri, avvolgendogli l’orgoglio nell’ombra più oscura. Perché ti trovi in questi boschi?, gli chiese l’immaginario uccello. Il cuore cominciò a battergli forte, e una sgradevole debolezza si diffuse lungo i suoi arti. Hai avvelenato il sangue dei Cironii. Non hai il diritto di rivendicare il loro nome. Sei soltanto un miserabile vagabondo senza onore. Saresti dovuto morire nel ruscello.

    Sì, sarebbe dovuto morire. Per il crimine che aveva commesso, per legge di natura. Il destino si era apprestato a vendicarsi attraverso la lama del bandito. Paolo non aveva implorato per aver salva la vita, non si era appellato contro la sua condanna. Era stato pronto a morire. E ciononostante, era ancora vivo.

    A quel pensiero, l’oscurità si ritrasse; non del tutto, ma abbastanza da consentirgli di scorgere un barlume di luce, forse persino di speranza. Perché era stato risparmiato?

    Il contadino conficcò una specie di spiedo nel collo della lepre, spingendolo per tutta la lunghezza del corpo. «Con questi scarni bastardi non vale neppure la pena di sforzarsi tanto», disse con una risatina. Con una mano, tenne l’animale spellato sopra il fuoco, mentre con l’altra si toglieva il cappello, rivelando una testa rasata di recente ma in modo disordinato, con il cuoio capelluto scarabocchiato dai tagli di un rasoio.

    Tagli del genere potevano significare soltanto una cosa. Paolo non era l’unico fuggitivo in quei boschi. Si schiarì la gola. «Sei un disertore», disse.

    «No». Vittore mostrò a Paolo il polso destro, su cui non c’era il tatuaggio del servizio militare. «Sono stato arruolato dalla tenuta del mio signore un paio di giorni fa, quando mi hanno rasato. Ma stamattina sono fuggito prima che mi facessero giurare. Se non sono un soldato, non posso essere un disertore».

    «Però stai scappando sia dal tuo signore sia dall’esercito».

    «Non ho mai giurato neppure per il mio signore. Sono nato su questa terra; non sono uno schiavo, ma lui mi ha trattato come tale. Era pronto a consegnarmi all’esercito. Perché dovrei dargli la mia fedeltà? Non gli devo nulla, come non devo nulla all’esercito. Non ho famiglia, e sono un cittadino romano come gli altri».

    Era vero solo in parte. Dai tempi dell’imperatore Caracalla, ogni uomo nato libero all’interno dell’impero era tecnicamente un cittadino di Roma. Ma era anche soggetto alle leggi romane, che comprendevano la fedeltà al proprio signore. «Sei un fuorilegge».

    Vittore scrollò le spalle. Sembrava che il sorriso non gli abbandonasse mai il volto.

    Non aveva l’aria di un malvivente. Malgrado la sua abilità con l’arco, malgrado la freddezza con cui aveva ucciso quell’uomo poco prima, i suoi occhi esprimevano una gentilezza che non pareva adatta a quel tipo di vita. Quando si erano accampati, Vittore aveva slacciato l’illecita spada, lasciandola con noncuranza sull’erba vicino al bordo della radura, e da allora se ne era evidentemente dimenticato. Non aveva né minacciato né chiesto ricompense, e non sembrava avere intenzione di trattenere l’uomo che aveva salvato per ricavarne un riscatto. Se era un delinquente, non era molto abile.

    Paolo pensò che quel contadino si fosse ritrovato in un ruolo che non gli si addiceva affatto. Poi pensò a se stesso, però, e per la prima volta immaginò come doveva essere apparso al suo compagno: un giovane nobile, nudo come un verme, che se ne stava tremante nel mezzo di un ruscello boschivo con i capelli neri incollati sulla testa e i bei vestiti impigliati su un salice. E ora se ne stavano entrambi seduti lì a cucinare un miserabile pezzetto di carne nel fitto di quei boschi aridi, uno con la testa rasata e l’altro con indosso gli abiti di un morto. Era tutto così assurdo.

    Per la prima volta dopo molti giorni, Paolo cominciò a ridere.

    «Svegliati».

    Paolo fu svegliato da una mano che gli scuoteva la spalla. Aprì gli occhi e vide il contadino chino su di lui. «Cosa c’è?».

    Vittore parlava con tono incalzante. «Dobbiamo andarcene. In fretta».

    Paolo si alzò a sedere. L’alba era appena spuntata con un riverbero giallo nel cielo aperto, mentre nella foresta risuonavano i richiami degli uccelli. Si trovava accanto ai resti spenti del fuoco di bivacco, di fronte al quale aveva conversato col contadino fino a notte fonda. Pur non avendo rivelato a Vittore il motivo per cui stava scappando da casa, si era accorto di non aver mai avuto tanta familiarità con un coetaneo di rango così inferiore. L’aveva trovato stranamente simpatico. «Cos’è che non va?».

    Vittore era già in piedi con la sacca e l’arco. «Il maledetto esercito. Non senti i cani?».

    Paolo si alzò, afferrando il mantello che aveva usato come coperta. Ascoltò con attenzione. Tra gli alberi poté udire un branco di segugi uggiolanti. Un’improvvisa sensazione di panico gli strinse il petto. Aveva già visto, una volta, una squadra di coscrizione inseguire un fuggitivo nella tenuta di suo padre. Aveva messo in fuga greggi, divelto steccati e terrorizzato i fittavoli, senza curarsi di chi fosse il loro padrone, pur di raggiungere finalmente la sua preda.

    «Pensavo di averlo seminato ieri, ma il vento deve avergli portato il nostro odore. La mia solita fortuna. Andiamo!».

    Vittore partì di corsa tra gli alberi, giù verso il fiume. Paolo stava per seguirlo quando notò la spada ancora appoggiata sull’orlo della radura. «Aspetta… la spada!».

    «Lasciala stare!», gridò Vittore. «Non voglio che mi becchino con quella. Ora forza, corri!».

    Incespicando a tratti, attraversarono il sottobosco fino a raggiungere il ruscello, per poi guadarlo fino alla riva opposta. Paolo seguiva, senza avere idea di dove Vittore sperasse di scappare. I latrati si facevano sempre più forti, e ormai si potevano udire anche le urla degli uomini dietro di loro, una squadra di coscrittori che si avvicinava alla loro preda. Anche se avessero corso come indemoniati, lui e Vittore non sarebbero mai riusciti a seminare dei cani nella foresta, e appena giunti all’aperto gli uomini a cavallo li avrebbero catturati in fretta.

    Finiti gli alberi, si ritrovarono in un accidentato pascolo di erba e cespugli. La nebbia avvolgeva il terreno piatto e paludoso che si estendeva in lontananza, interrotto solo da qualche tratto di macchia di sottobosco. Vittore si diresse verso il grosso folto d’alberi più vicino. «Là, corri! Se siamo stati fortunati, i cani avranno perduto le nostre tracce giù al fiume».

    Attraversarono di corsa il terreno aperto fino al boschetto di noccioli e si fecero strada tra i rovi, mettendosi a strisciare per alcuni tratti. Nel cuore buio del boschetto si accovacciarono e restarono immobili. Paolo non sentiva più i cani né le voci degli uomini. «Forse siamo riusciti a seminarli», disse.

    «Shh». Vittore strizzava gli occhi per concentrarsi mentre drizzava le orecchie in ascolto. «Potrebbero averci visto».

    Attesero immobili. I soli suoni, a parte il loro respiro affaticato, erano i canti degli uccelli e il fruscio degli animali nel sottobosco.

    Dopo un po’ Vittore, come colto da un’illuminazione improvvisa, guardò Paolo con gli occhi sbarrati e disse: «Tu puoi dirgli di lasciarmi in pace».

    «Cosa?»

    «Ti ho salvato la vita, no? Tu puoi dirgli di lasciarmi andare. Tu sei nobile, puoi dirglielo».

    Paolo scosse la testa. «Non mi compete. Tu hai il tuo signore. Non posso semplicemente…».

    «Io ho salvato la tua stramaledetta vita!». Vittore si scagliò contro di lui, afferrandolo per la gola e tenendolo con la schiena per terra. «Diglielo!», gli intimò con stizza mentre lottavano. Per un istante, il giovane contadino mollò la presa, ma solo per afferrare il coltello da caccia dalla cintura e portarlo rapidamente alla giugulare del compagno.

    Non appena l’affilata lama di ferro gli toccò la pelle, Paolo smise di lottare. Era difficile parlare con una mano che ancora gli schiacciava la gola, ma fissò Vittore e si sforzò di farlo. «Ieri mi salvi la vita e condividi con me il tuo falò, e stamattina vuoi tagliarmi la gola?».

    In qualche modo, Paolo sapeva che Vittore non gli avrebbe tagliato la gola a sangue freddo. Aveva ragione. Vittore non lo lasciò subito, ma rilassò lentamente la fronte; gli si restrinsero le narici, e la lunga linea della bocca e delle labbra carnose passò dalla rabbia alla disperazione. Alla fine il ragazzo gli tolse la mano e la lama dalla gola.

    Paolo si alzò a sedere, tossendo per riprendere aria. Vittore se ne stava seduto con le braccia avvolte intorno alle ginocchia, la testa bassa e il volto nascosto.

    Si udì una voce provenire da fuori del boschetto. «Villici! Uscite fuori, altrimenti vi tireremo fuori noi col fuoco!».

    I loro inseguitori dovevano averli visti entrare tra gli alberi. Paolo non dubitava che, se lui e Vittore fossero rimasti nel boschetto, l’avrebbero incendiato.

    «Uscite fuori, canaglie!».

    Paolo cercò disperatamente di schiarirsi le idee. Secondo la legge imperiale, tutti i vagabondi potevano essere arruolati a forza o costretti alla schiavitù. Se fosse uscito facendo finta di essere un cittadino comune, avrebbe condiviso lo stesso destino di Vittore. Se invece l’esercito avesse appreso la sua vera identità, lo avrebbe rimandato da suo padre, e lui sarebbe stato costretto a rispondere del suo crimine. Forse non sarebbe stato condannato. Se fosse tornato e avesse chiesto pubblicamente perdono, forse suo padre si sarebbe sentito obbligato a concederglielo. Avrebbe potuto vivere il resto dei suoi giorni in disgrazia, ma anche in condizioni di comodità e di sicurezza.

    La voce da fuori tuonò ancora: «Questa è la vostra ultima possibilità!».

    No, non andava bene. Gli si torsero le budella al solo pensiero di tornare a casa. Non era soltanto una questione di vergogna: era spaventato a morte. Poteva già vedere la furia negli occhi di suo padre, il disprezzo sul viso di sua madre, la severa freddezza del tribunale penale nella basilica di Corinium. Non ci sarebbe stato mai alcun perdono. Se il destino si fosse vendicato di lui, l’avrebbe accettato; ma non aveva il coraggio di tornare a casa e affrontare un giudizio. Non ancora, almeno.

    Strisciò fino a Vittore e gli scosse una spalla. Il ragazzo sollevò lo sguardo terrorizzato. «Ti devo la vita, è vero», disse Paolo. «E prometto di ripagarti. Ma non posso far sapere loro chi sono; non ancora. Perciò ti chiedo un altro favore: non dir loro nulla. Lascia che mi arruolino insieme a te, e giuro che, quando sarò pronto a tornare a casa, quando deciderò di lasciare l’esercito e dovranno farmi andar via per forza, ti porterò con me».

    Vittore sembrò dubbioso. «Tra quanto tempo?»

    «Non lo so. Settimane. Mesi».

    «Giuralo sugli dèi».

    «Non credo negli dèi. Te lo giuro sulla vita di mia madre».

    Vittore ci pensò su per qualche istante. «D’accordo».

    «Bene». Girò la testa in direzione della voce proveniente dall’esterno e gridò nel suo migliore accento rustico: «Stiamo venendo fuori!».

    Si fecero strada entrambi tra i rami fino a emergere in mezzo al prato. Trovarono ad attenderli cinque uomini a cavallo che indossavano dei copricapo e dei lunghi mantelli marroni. Le squadre di coscrizione preferivano farsi notare il meno possibile. Paolo li avrebbe scambiati per civili, se non fosse stato per le loro ampie cinture di pelle tipiche dell’esercito e per i finimenti di bronzo dei loro cavalli. A qualche metro di distanza, tre cani rosicchiavano felici delle ossa, sorvegliati dal loro padrone, che indossava anche lui un mantello civile con tanto di cappuccio. Ma era impossibile equivocare il comportamento del loro capo: nonostante una barba non regolamentare, il suo viso aveva i tratti duri di un veterano, un biarchus al comando di quella squadra. Era stato lui a chiedere la loro resa e a minacciare di stanarli con il fuoco, e ora guardava Paolo e Vittore con tutta la soddisfazione di un cacciatore vittorioso. «Ne abbiamo perduto uno e ne ritroviamo due!», disse per il divertimento dei suoi uomini. Allungò un bastone di betulla verso Paolo. «Dimmi il tuo nome, contadino».

    «Paolo dei Dobunni».

    «Chi è il tuo signore? E cosa ci fai nella terra dei Cornovi?».

    Paolo non disse nulla. Era stato abbastanza in compagnia dei lavoratori delle tenute di famiglia da poterne imitare il dialetto, ma sapeva che una voce da contadino non bastava. Tenne la testa bassa, abbassò le spalle e si forzò a imitare il contegno umile di un cittadino comune di fronte a un superiore arrabbiato.

    «Quell’anello», osservò il biarchus. «Dove l’hai preso?».

    Paolo sentì il cuore sobbalzargli nel petto. Aveva dimenticato di togliersi l’anello d’oro che recava il sigillo senatoriale dei Cironii. Se lo sfilò dal dito. E guardando ancora per terra, disse: «L’ho trovato».

    «L’hai rubato».

    «No».

    «Dammelo».

    Il biarchus prese l’anello, alzandolo verso la luce per esaminarlo con attenzione. Prima che potesse parlare si udirono zoccoli di cavalli in avvicinamento. Tutti i presenti si voltarono e videro un gruppo di circa una dozzina di cavalieri palesarsi da dietro il boschetto. In contrasto con gli opachi mantelli cerati del biarchus e dei suoi uomini, i nuovi arrivati luccicavano come gioielli; la luce del sole si rifletteva sui loro elmi dalla piuma rossa, sulle lastre delle loro armature e sulle strisce di ferro che pendevano dai fianchi dei cavalli. Quando si avvicinarono, le cavalcature dei coscrittori si mossero nervosamente. Paolo aveva già visto cavalieri del genere: erano i catafratti, i corazzati, la cavalleria pesante dell’armata.

    Il giovane ufficiale che guidava i catafratti sollevò un braccio per far segno ai suoi uomini di fermarsi a una certa distanza, mentre lui continuava al trotto verso la squadra di coscrizione. Cavalcò tra i suoi componenti e si fermò di fronte al biarchus. Sul suo imponente cavallo da guerra, faceva apparire piccoli gli altri cavalieri che gli stavano intorno. Mentre i grandi zoccoli pestavano le zolle morbide, l’animale lanciò indietro la testa in un gesto di dominio, sbuffando nuvole di polvere dalle griglie di ferro che gli coprivano il muso.

    Paolo guardò il giovane ufficiale, con l’espressione dura incorniciata dai copriguance dell’elmo, per poi distogliere rapidamente lo sguardo. Gli era venuto subito in mente un nome: Flavio Agrio Rufo.

    Rufo era il figlio di una famiglia rivale. Quattro anni prima, lui e Paolo erano andati a scuola insieme a Londinium. Ricordava poco di lui, a parte il fatto che una volta si erano ritrovati in fazioni opposte di una rissa tra studenti: Galli contro Britanni. Negli uffici governativi di Londinium c’erano molti Galli, tra cui il padre di Rufo, che mandavano i loro figli nelle scuole locali, e le zuffe tra questi e i rampolli delle famiglie britanne erano piuttosto comuni. Ma Paolo ricordava che proprio quella zuffa era stata particolarmente accesa. Aveva devastato il mercato cittadino, lasciandogli anche un orecchio sanguinante. A un certo punto della lotta, aveva fatto uscire il sangue dal naso a Rufo, che aveva un paio d’anni più di lui. Poco dopo questi era partito da Londinium, e lui non l’aveva più visto né sentito nominare. Ora pregava che non l’avesse riconosciuto.

    Rufo si rivolse al biarchus nel suo latino con inflessione gallica. Sembrava non aver notato Paolo. Chiese all’ufficiale d’identificarsi e di spiegare la sua presenza in terra imperiale. Il biarchus rispose in modo incerto, non trovandosi a suo agio con il latino parlato dagli ufficiali e dagli amministratori. Disse a Rufo che stava dando la caccia a due imboscati.

    Paolo si fissò i piedi, facendo di tutto per nascondersi il viso.

    Ci fu una pausa, dopo la quale udì Rufo dire: «Prosegui».

    Rufo si voltò per tornare dai suoi uomini. Con grande sollievo di Paolo, questi si rimisero in formazione per farsi guidare dal loro capo lungo il pascolo fino a scomparire in lontananza.

    «Sparapose», borbottò il biarchus. I suoi uomini risero. «Sei un ladro», continuò poi, guardando Paolo, «e un fuggitivo. Dovresti perdere una mano, ma si vede che oggi gli dèi ti sorridono. Come il tuo amico qui, potrai riparare ai tuoi errori passati servendo la Sua Divina Eccellenza Giuliano Augusto». Allargò un braccio come per imitare un oratore. «I nemici di Roma si nascondono nell’ombra, fratelli miei, in attesa di colpirci. I Pitti stanno recuperando le forze dietro il Vallo. Gli Ibernici e i Sassoni si aggirano per le nostre coste furtivi come lupi. Abbiamo bisogno di uomini coraggiosi, di nobili guerrieri, per proteggere la Britannia, per badare ai nostri fuochi di guardia affinché i nostri bambini possano dormire tranquilli nei loro letti. Cosa mi dite, contadini? Risponderete alla chiamata dell’imperatore?».

    Paolo lanciò un’occhiata prima al biarchus e poi agli altri uomini a cavallo. Sui volti di ognuno di loro vide un sorriso sadico che lasciava presagire cosa aspettasse lui e Vittore, e per questo li odiò tutti. Ma avrebbe sopportato. Aveva guadagnato un po’ di tempo, e giurò a se stesso che un giorno sarebbe tornato a casa, pur non sapendo ancora come avrebbe trovato il coraggio per farlo.

    Fino a quel momento, però, avrebbe affrontato il suo destino.

    QUATTRO ANNI DOPO

    Un anno prima della grande cospirazione barbarica

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    I

    Il nostro desiderio anticipa l’approdo, getta la speranza come un’ancora verso la riva.

    getta la speranza come un’ancora verso la riva.

    Sant’Agostino d’Ippona

    Era libera.

    Eachna si arrampicò con difficoltà sulla siepe spinosa della fattoria, ruzzolò dentro il fosso al di là di essa e risalì con le unghie il pendio opposto. Si fermò un attimo per guardare di nuovo l’area cintata che si era lasciata alle spalle. Il suo padrone stava ancora inginocchiato per terra, tenendosi la faccia sanguinante con entrambe le mani. I cani gli correvano intorno, selvaggi e frenetici, quasi affogando il suo urlo di dolore e di rabbia. Altre grida cominciarono a provenire dall’estremità opposta del recinto, dai campi coltivati, dalle capanne tutt’intorno.

    Eachna vide tutto questo in un istante che pareva sospeso fuori dal tempo. Lo sentì imprimersi nella sua memoria come l’immagine di un fuoco guizzante afferrata solo per un attimo. Le rimase davanti agli occhi anche mentre si voltava per correre lungo la steppa verso la foresta.

    Era libera.

    Scappò giù per valli ricoperte di foreste e guarnite di fiumi gorgoglianti. Si arrampicò con mani e piedi sulle rocce; con l’immagine del proprio padrone e della sua furia sempre a inseguirla, s’insinuò tra i tronchi degli alberi, e sotto gli archi formati dai rami che, come braccia, sembravano sforzarsi di afferrare qualcosa, in un’oscurità apparentemente interminabile, animata da fruscii e ululati. Annusò l’aria e, attraverso la calotta spaccata della foresta, i cui rami di quercia in fiore pendevano scuri e pesanti sopra la sua testa, scrutò il cielo alla ricerca di tracce di fumo.

    Non riusciva a sentire nessuno che la seguisse, ma ciò non significava nulla. Il suo padrone era piccolo, snello e muscoloso, in grado di muoversi nella foresta come uno spettro. Anche se la pietra scagliata da Eachna lo aveva mezzo accecato, lui aveva trascorso abbastanza notti in giro per la foresta da non aver quasi più bisogno degli occhi per attraversarla. Diverse volte la ragazza vide delle ombre prendere la forma di quell’uomo, con le spalle alte e la testa tenuta bassa come quella di un cinghiale. Ma se era davvero lui, si trattava soltanto del suo spirito.

    Fa’ pure che mi trovi, pensò. Gli squarcerò la gola con i denti.

    Per giorni continuò, senza sapere quanta strada avesse percorso né in quanto tempo, ignara di ciò che l’attendeva. Una notte sognò che, attraverso i rami, lui le era caduto addosso e aveva cominciato a strapparle gli occhi. Si svegliò con un sussulto e si accorse che le dita di un albero le stavano graffiando il viso. In preda al panico, colpì quella mano scheletrica: afferrò il ramo, lo piegò, lo strappò dal tronco e, con un urlo, lo gettò nel sottobosco. Gli alberi erano cresciuti intorno a lei durante la notte, cercando di soffocarla nel sonno. Stavolta non c’erano riusciti, ma stavano diventando sempre più pericolosi man mano che la ragazza s’inoltrava sempre di più all’interno del bosco, allontanandosi dalle preghiere e dalle offerte lenitive degli uomini.

    Doveva sfuggire agli alberi, che ormai l’imprigionavano come aveva fatto il filo spinato della fattoria per quattro anni. Allora si arrampicò verso la brezza, verso il cielo promettente della prima estate. Nel tardo pomeriggio, esausta e affamata, aveva raggiunto la cima di una collina da cui poteva godere di una visuale aperta. Guardando verso ovest, riusciva a scorgere un lago lungo e stretto, oltre il quale sorgevano altre colline boscose, digradanti a sud verso la costa e la linea azzurra del mare.

    Non vedeva il mare dal giorno in cui i pirati gliel’avevano fatto attraversare, il giorno in cui il suo padrone l’aveva trascinata tra le montagne con i polsi legati alla coda sudicia di un mulo. Oltre quel mare c’era la sua patria. Ricordava di essere tornata dalla spiaggia, molti anni prima, con un grembiule pieno di cozze nere luccicanti di schiuma delle onde, di aver sorseggiato del brodo caldo avvolta in una coperta di pelle di pecora, con il cane che guaiva nel sonno davanti al focolare. Come si chiamava?

    Soffocò i ricordi, come faceva sempre. Per quanto ne sapeva, quello poteva essere un mare diverso, dalla parte opposta del mondo. Pensò che il posto che aveva conosciuto da bambina, e da cui era stata strappata per essere portata via dalle onde, fosse distante e onirico come l’Aldilà.

    Quando l’avevano rapita i pirati stava per diventare donna. Aveva avuto la sua prima perdita di sangue in cattività, da sola, senza nessuno che si prendesse cura di lei. Non era stata lavata nel sacro ruscello da sua madre e sua nonna come richiedeva la tradizione; non aveva ricevuto le preghiere e le offerte che, attraverso la seconda nascita, trasformavano ogni bambino in adulto. Era rimasta un’anima da bambina in un corpo da donna; un’aberrazione, un’oscenità.

    Non era stata abbastanza forte da resistere al suo padrone la prima volta che lui l’aveva posseduta, pur avendoci provato. E in quel momento, nel dolore della profanazione, aveva perso qualcosa che non si sarebbe mai potuto rimpiazzare. Anche se, per qualche magia divina, le nuvole l’avessero trasportata fino alla sua famiglia, le avrebbe ispirato solo vergogna e disgusto. Suo padre non l’avrebbe offerta in matrimonio a un vicino, così come non avrebbe mai offerto a un ospite un pezzo di carne caduto nel letame e masticato dai cani.

    Si guardò i piedi nudi, con la sporcizia e il sangue secco appiccicati sulla pelle bianca, sulle piante dei piedi intorpidite, tagliate e graffiate in profondità, simili a pezzi incalliti di carne insensibile che la portavano verso una morte vuota. Presto il suo corpo avrebbe barcollato per la fame, troppo debole per continuare ad andare avanti, e lei sarebbe morta nel ventre di quei boschi, noti soltanto agli animali selvatici che avrebbero dilaniato il suo cadavere, e agli spiriti che avrebbero osservato il suo trapasso senza curarsene.

    Dolore e amarezza le trascinarono una sensazione bruciante su e giù per la gola. Il grande cielo aperto la guardava dall’alto in basso con disprezzo. Lei ne sentiva il peso risospingerla nell’abbraccio spinoso della foresta, che le si confaceva.

    Le si piegarono le ginocchia. Chiuse gli occhi così forte che presto il nero dietro le sue palpebre s’inondò di dolore. Cominciò a scendere di corsa la collina. Cadde quasi subito, rotolando su tronchi e foglie, per poi rialzarsi a fatica e continuare, con gli occhi ancora chiusi. Non voleva più vedere il mondo. Si lanciò alla cieca nella foresta, continuando a correre, senza sottrarsi alle punizioni che le arrivavano: uno stinco contuso, la pianta di un piede trafitta da una scheggia di legno, la mano lacerata sulle rocce. Alla fine cadde in un oceano di spine e ortiche. Si contorse e gridò, assorbita dal dolore al punto da non provare più nulla, almeno finché tutto il suo corpo non s’incendiò.

    Si voltò sullo stomaco, seppellì il volto tra le braccia e pianse. Restò in quel punto fino al calare della notte, quando finalmente scivolò in un sonno inconsapevole.

    Eachna si svegliò con l’odore di pesce cotto che le solleticava le narici. Il sole era appena sorto, e lei udì delle voci nei paraggi. Non era più circondata da rovi. Contorcendosi sul posto, attraversò con lo sguardo una piccola radura erbosa fino a raggiungere il punto in cui un gruppo di quattro uomini stava cucinando una colazione a base di salmone arrostito. Erano inginocchiati intorno a un piccolo falò, ognuno con le braccia distese davanti e le palme delle mani rivolte verso l’alto, cantilenando in una lingua che lei non aveva mai udito prima. L’istinto le suggeriva di scappare di nuovo tra i cespugli, ma si rese conto che qualcuno le aveva messo sopra una coperta di lana. Dunque, sapevano già della sua presenza.

    Gli uomini smisero di cantilenare e si sedettero. A quel punto, uno di loro la vide. Come gli altri, indossava una lunga tunica, legata alla vita da una spessa corda. Le porse un pezzo di pesce. «Hai fame?», le chiese. Poiché lei non rispose, continuò a parlare. «Abbiamo cercato di svegliarti, ma dormivi come una morta». Anche gli altri uomini presero a guardarla. «Come ti chiami?», le chiese un altro.

    Quel dialetto era strano per Eachna, che però li capiva. «Eachna», rispose.

    «Ah», disse il terzo uomo. «Ibernica, vero? Qual è il tuo popolo?»

    «Delbhna».

    Toccò al quarto uomo parlare, assaggiando il suo nome con lingua straniera. «Ak-na?». Non somigliava agli altri. Aveva la pelle scura e gli occhi neri. Era un po’ più vecchio dei suoi compagni, forse sulla quarantina. E mentre le teste e i volti degli altri uomini erano coronati da fitti capelli e barbe, lui era quasi calvo e portava soltanto una barba sottile. Gli altri sembravano rispettarlo come il loro capo, perché quando aveva cominciato a parlare si erano zittiti. L’uomo guardò Eachna e le disse subito: «Sei una schiava».

    Quelle parole, pronunciate all’improvviso, spaventarono Eachna, che non riuscì a rispondere.

    «Non aver paura di noi», disse l’uomo. «Non vogliamo farti del male». Le porse un altro pezzo di pesce, e lo stomaco di Eachna si spalancò. La saliva le inumidì la bocca secca. Con cautela, la ragazza si alzò, tenendo la coperta avvolta intorno a sé per coprirsi il braccio sinistro, che terminava in un moncherino all’altezza del polso, e si sporse lentamente in avanti. Prese il pesce dalla mano protesa, per poi tornare a distanza di sicurezza, accovacciandosi e riempiendosi la bocca di pesce.

    «Dove sei diretta?», le chiese uno degli altri uomini.

    Eachna fece un gesto vago verso sud. Quello era un paese senza nome per lei.

    «Verso la costa, forse?».

    Lei annuì.

    «Noi stiamo andando a Luguvalium», disse l’uomo. «Magari possiamo viaggiare insieme. Una ragazza non dovrebbe andare da sola per le colline».

    «Già, non dovrebbe andarsene in giro da sola», concordò un altro. «Pensavamo che fossi morta quando ti abbiamo vista».

    «No», disse Eachna. «Devo andar via in fretta».

    «Be’, i nostri piedi si muovono abbastanza leggeri su questo terreno. La gente qui intorno ci conosce. Nessuno ci darà fastidio, e così potremo scortarti fino a casa tua».

    «No».

    «È meglio viaggiare in compagnia, sorellina. Dov’è casa tua? Tra la gente di Herne?»

    «Devo andare», disse Eachna, masticando l’ultimo pezzo di pesce. Si leccò le dita e si alzò, lasciando cadere la coperta.

    «Stiamo andando verso la costa, per poi dirigerci a oriente in barca fino a Luguvalium», disse l’uomo che le stava più vicino, alzandosi a sua volta. «Potremmo portarti fin dove hai bisogno, se vai da quella parte». Eachna scosse la testa. Quando cominciò ad allontanarsi, lui le afferrò un braccio. «Dov’è il tuo padrone, ragazza?», grugnì. «Da dove vieni?». La tirò più vicino a sé, e i loro corpi si toccarono. Eachna si divincolò, ma la sua forza era nulla in confronto a quella dell’uomo. «Diccelo, o ti puniremo per conto suo!».

    Al che l’uomo scuro di pelle, che fino a quel momento aveva assistito in silenzio a quello scambio, saltò in piedi. «Noli illae obstare!», gridò, e il suo compagno lasciò andare il braccio di Eachna. «In nomine Dei…», insistette lo straniero, continuando a rimproverare l’altro in una lingua che la ragazza non aveva mai sentito prima. Il suo viso, largo e rotondo, era rosso come se fosse stato sul punto di scoppiare. Eachna non stette lì ad aspettare e sgattaiolò via, seguendo il ruscello che scendeva fino alla foresta.

    Non era ancora andata lontano quando udì una voce alle sue spalle. «Ragazza! Aspetta!». Era l’uomo scuro, che ansimava nella corsa per raggiungerla. «Se andrai da sola, morirai!».

    Eachna non lo ascoltò. Lui la sorpassò e cercò di bloccarle il cammino, con le gambe corte che si muovevano goffamente tra le felci. «Ti proteggeremo», disse. «Il mio compagno ha molto da imparare. È dispiaciuto per il suo gesto. Ti prego di fermarti; voglio parlarti un momento, tutto qui».

    La ragazza si fermò, rendendosi conto che altrimenti quell’uomo l’avrebbe tormentata per un bel pezzo prima di arrendersi. «Devo continuare», disse. «Non posso fermarmi con la gente. Devo tornare a casa da mio padre…».

    «Tu hai paura», la interruppe lui, senza nemmeno ascoltare le sue bugie. «Non sai dove ti trovi. Non conosci questo paese, e non hai idea di dove andare. Ti chiami Eachna, vero? Io mi chiamo Ludone». Fece una pausa, come per darle la possibilità di rispondere. Ma poiché lei non lo fece, continuò. «Sento di sapere perché sei qui, Eachna. Naturalmente non ti fidi di me. Ma se vieni con noi, io posso salvarti».

    Eachna lo spinse via. Poteva salvarla? Era fuggita da sola; era sopravvissuta da sola fino a quel momento; non aveva bisogno di nessuno, men che meno di uno straniero. I soli stranieri che avesse mai conosciuto erano ladri e mercanti di schiavi, avidi e crudeli fino alla punta delle dita: gli uomini arroganti che prendevano il cibo della sua famiglia come tributo quando lei era piccola, i pirati che l’avevano rapita, il fattore che l’aveva trascinata sulle colline.

    «Se continuerai da sola, morirai», disse Ludone, implacabile. «Le terre a sud di qui sono piene di gente. Forse durerai qualche altro giorno come una specie di cadavere ambulante. Se riuscirai a sopravvivere all’estate, congelerai d’inverno e, se non morirai di fame prima, verrai uccisa come un cane selvatico dal primo che incontrerai. Non c’è molta pietà in questo paese».

    Quelle parole la fecero fermare. Si voltò per affrontarlo. «La pietà è per i bambini malati e per gli invalidi».

    «Tu sei invalida», disse Ludone, facendo un cenno verso il braccio sinistro monco. «E mi sembri soltanto una bambina. Ma io non mi riferivo alla pietà che intendi tu. Esiste un tipo di pietà più grande, che non comporta né vergogna né disonore». Le si avvicinò. «Non accettare la mia pietà, allora, visto che non la capisci. Ma accetta il mio cibo e la mia compagnia. Vieni con noi nella città di Luguvalium. Posso prometterti la libertà. Con l’acqua santa del battesimo potrai rinascere. Cristo nostro Signore può lavare via la crudeltà e l’ignoranza di questo mondo e mostrarti la luce offerta a ogni tribù in qualunque terra. Abbraccerà ognuno di noi, Eachna, se solo risponderemo alla sua chiamata».

    Ludone le porse una mano. Eachna la guardò. Lanciò un’occhiata giù verso il ruscello, e nel profondo degli alberi intrecciati vide una morte fredda e senza nome ad attenderla, un luogo buio dove lei avrebbe vagato nella sofferenza eterna, senza mai poter raggiungere l’Aldilà. Quell’uomo parlava con un accento strano, ma la sua voce gentile aveva il tono di chi è abituato a essere obbedito. Eachna non aveva mai sentito nessuno parlare in quel modo. Lui le aveva promesso una rinascita attraverso l’acqua, e questo le diceva qualcosa. Così, nel volto segnato di quello straniero gentile che la supplicava instancabile, intravide per un istante una risposta all’assurdo squallore del mondo.

    Quel momento passò, ma la mano di Ludone rimase.

    Eachna continuò a viaggiare con Ludone e i suoi compagni. Portavano i loro sacchi in spalla, camminando verso sud fino alla costa lungo sentieri forestali prima di uscire sotto un cielo nuvoloso. Con un gesto che lei non capiva, quell’uomo le aveva dato il proprio mantello e le proprie scarpe, apparentemente contento di camminare scalzo. Lei fu felice di quella rara comodità. Gli uomini non le parlavano, ma per la maggior parte del tempo cantavano canzoni nella stessa lingua straniera che Ludone aveva usato quando si era arrabbiato. Ora, però, quella lingua suonava dolce e cadenzata, quasi danzando leggera nell’aria, molto diversa dalle funeree ballate dei Britanni e dalle cantilene gutturali dei Pitti. Eachna ascoltava con attenzione, cercando di cogliere le inflessioni e gli accenti, e le parve di udire alcune menzioni del Signore Cristo di Ludone, ma non riuscì a capire nulla di più.

    Al crepuscolo, il gruppo aveva raggiunto un villaggio di pescatori alla foce di un estuario. I quattro uomini sembravano conosciuti e amati da quelle parti, perché la gente del posto li accolse con calore. Soprattutto Ludone, il quale presentò Eachna come una ragazza smarrita del nord che stavano portando a Luguvalium, e anche lei venne circondata all’improvviso da un gruppo di donne sorridenti, gioiose fin quasi alle lacrime, che alzavano le voci e le braccia per aria in lode a Cristo. A Eachna che, esausta e debole, si sforzava di vedere chiaramente con la luce che si affievoliva, parve quasi di essere scivolata in un sogno, persa tra tante facce che mutavano sotto il bagliore rossastro delle torce, chiacchierando e cantando.

    Il giorno successivo portò un cielo di nuvole spezzate e un bel vento verso est. Dopo la colazione, Ludone e il suo gruppo s’imbarcarono su una piccola barca da pesca guidata da un uomo del posto e presero a navigare lungo la costa. Eachna sedeva a prua della piccola imbarcazione che rollava sull’acqua, intenta a guardare le masse di gabbiani che le volteggiavano sopra la testa, riempiendo l’aria di un coro stridente. Sensazioni tutt’altro che familiari come quelle date dagli arti caldi e dallo stomaco pieno le provocarono un sorriso di gioia e di sfida. Decise che non avrebbe più temuto la bionda dea Cliodhna, regina della Terra Promessa, la protettrice che si era trasformata in traditrice, lasciandola cadere in schiavitù. Il regno di Cliodhna cominciava sulle sponde della lontana terra di Ériu, non lì. E mentre la barca procedeva verso Oriente, Eachna sentiva la presa della dea indebolirsi su di lei.

    «Vengo da un posto chiamato Massilia», disse una voce, gridando per farsi sentire sopra il vento e le onde, lo scricchiolio della barca e lo sbattere delle vele. Ludone si sedette a prua vicino a lei. «L’oceano è azzurro là», disse. «E limpido, come il cielo. Non ho mai pensato che l’oceano potesse essere così grigio». Indicò il cielo e il mare. «Grigio sopra, grigio sotto. Freddo, vento, nebbia». Scrollò la testa e rabbrividì. «Il tuo paese è diverso da questo?».

    Eachna non conosceva i nomi degli dèi che vivevano in quello che gli uomini chiamavano l’impero di Roma, a parte il signore chiamato Cristo, che lei supponeva si trattasse del padre-dio di Ludone. Senza conoscerli, era difficile capire gli umori e i cambiamenti del tempo. Il suo era un paese in cui le voci di altri dèi percorrevano il cielo. «Certi giorni»,

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