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Dark Blue
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E-book270 pagine4 ore

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Captive Series

Caleb è un uomo con un unico obiettivo: la vendetta. Rapito da ragazzino e venduto come schiavo da un mafioso affamato di potere, da allora non ha mai pensato ad altro che a vendicarsi. Per dodici anni ha esplorato il mondo degli schiavi del piacere alla ricerca dell’uomo che ritiene responsabile del suo tremendo passato. Finalmente riesce a trovare l’artefice della sua sofferenza: ha una nuova identità, ma la stessa natura di un tempo. Per avvicinarsi abbastanza da colpirlo, Caleb deve trasformarsi in ciò che più odia e rapire una bellissima ragazza perché sia la vittima che lui stesso è stato.
Olivia Ruiz ha diciotto anni e si è appena svegliata in uno strano posto. Bendata e legata, ad accoglierla c’è soltanto una calma voce maschile. Si chiama Caleb, ma vuole essere chiamato Padrone. Olivia è giovane, bellissima, ingenua e testarda. Possiede una sensualità oscura che non riesce a nascondere. Pur essendo terrorizzata dall’uomo forte, sadico e arrogante che la tiene prigioniera, l’irresistibile attrazione che prova per lui la tiene sveglia nel buio.
CJ RobertsÈ una scrittrice indipendente. Predilige storie oscure ed erotiche con elementi tabù. Le sue opere sono definite sexy e disturbanti allo stesso tempo. Il suo romanzo d’esordio, Dark Blue, ha venduto più di 150.000 copie ed è il primo della serie bestseller Captive Series. È nata e cresciuta in California. Si è arruolata nel 1998 nell’aeronautica militare, ci è rimasta dieci anni e ha viaggiato molto. Scrive anche racconti con lo pseudonimo di Jennifer Roberts.
LinguaItaliano
Data di uscita14 lug 2016
ISBN9788854196964
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    Anteprima del libro

    Dark Blue - CJ Roberts

    Prologo

    Vendetta, ricordò Caleb a se stesso. Tutto per quell’unico scopo. Vendetta. Dopo dodici anni passati a pianificarla, la realizzazione era ormai solo questione di mesi.

    Nella sua carriera di addestratore di schiave, aveva formato come minimo un discreto numero di ragazze. Alcune erano arrivate per libera scelta, offrendosi come schiave del sesso per fuggire all’indigenza, sacrificando la libertà in nome della sicurezza. Altre erano state costrette, figlie di contadini impoveriti che cedevano volentieri il peso di doverle mantenere in cambio di un tornaconto economico. Alcune erano le quarte o quinte mogli di sceicchi e banchieri, inviate dai mariti perché imparassero a soddisfare i loro desideri. Ma questa schiava in particolare, quella che lui stava guardando dall’altro lato della strada affollata, lei era diversa. Non era venuta di sua spontanea volontà, non era stata costretta e non gli era stata inviata da nessuno. Lei era pura conquista.

    Caleb aveva cercato di convincere Rafiq che avrebbe potuto addestrare al loro scopo una qualsiasi delle altre ragazze. Che loro sarebbero state meglio preparate per una missione così importante e potenzialmente pericolosa. Ma Rafiq non si era smosso di un passo. Anche lui aspettava da lunghissimo tempo di prendersi la sua vendetta, e non voleva lasciare nulla al caso. La ragazza doveva essere qualcuno di veramente speciale. Un dono così prezioso che tutti avrebbero parlato di lei, e del suo addestratore.

    Per anni, Caleb non era stato altro se non l’apprendista di Muhammad Rafiq, ma poi si era andato lentamente costruendo una sua reputazione, e ora era riconosciuto come un uomo efficiente e determinato, in grado di svolgere qualsiasi compito gli venisse affidato. Non aveva mai fallito e tutti quegli anni non erano stati altro che una preparazione per questo momento. Era giunta l’ora di provare il suo valore a un uomo al quale doveva tutto, e anche a se stesso. Rimaneva solo un ostacolo a separarlo dalla vendetta. L’ultima dimostrazione che fosse davvero un uomo senz’anima: privare deliberatamente una persona della propria libertà.

    Di schiave ne aveva formate così tante che non riusciva nemmeno a ricordarne i nomi. Avrebbe potuto farlo anche con questa. Per Rafiq.

    Il piano era semplice. Caleb sarebbe tornato in America e avrebbe cercato una candidata per la Fiera dei fiori, quella che gli arabi chiamano Zahra Bay’. L’asta avrebbe avuto luogo nel suo Paese adottivo, il Pakistan, di lì a quattro mesi. Sicuramente sarebbe stata invasa dalle donne dei Paesi dove tradizionalmente il potere era nelle mani degli uomini, dove gli unici limiti a quel genere di acquisto erano costituiti dall’offerta e dalla domanda. Ma una ragazza che provenisse da un Paese occidentale, quello sarebbe stato considerato un vero successo. Le ragazze europee erano molto ricercate nel mercato del sesso, anche se i gioielli della corona erano le americane. Una schiava così avrebbe rafforzato la reputazione di Caleb come vero campione del mercato del sesso, e gli avrebbe guadagnato l’accesso nel circolo privato più potente al mondo.

    Il suo compito era di trovare qualcuna che somigliasse alle donne a cui era abituato: una ragazza di una bellezza squisita, povera, inesperta e predisposta alla sottomissione. Una volta che avesse fatto la sua scelta, Rafiq gli avrebbe inviato quattro uomini per aiutarlo a farla passare illegalmente in Messico.

    Rafiq si era messo in contatto con un amico che gli avrebbe fornito un rifugio sicuro a Madera per le prime sei settimane, durante le quali Caleb avrebbe dovuto aiutare la prigioniera ad ambientarsi. Una volta che fosse stata ragionevolmente sottomessa, avrebbero compiuto un viaggio di due giorni verso Tuxtepec, a bordo di un aereo privato. E alla fine sarebbero atterrati in Pakistan, dove Rafiq avrebbe aiutato Caleb nelle ultime settimane di addestramento prima dello Zahra Bay’.

    Troppo facile, pensò Caleb. Ma per un attimo ebbe come la sensazione che invece sarebbe stato tutt’altro che tale.

    Dal suo punto di osservazione dall’altro lato della strada, Caleb scrutò la ragazza che aveva studiato per l’ultima mezz’ora. Aveva i capelli tirati indietro e la bocca incurvata in un’espressione incupita, e teneva gli occhi fissi a terra davanti a sé. A volte si agitava un po’, lasciando intuire di essere in preda a una sorta d’inquietudine che non riusciva a nascondere. Si chiese come mai sembrasse così in ansia.

    Caleb era abbastanza vicino per vederla, ma doveva tenersi nascosto, perciò l’unica cosa che saltava all’occhio era la sua auto scura, dal colore intenso ma anonima. Era invisibile quasi quanto tentava di esserlo la ragazza che stava osservando.

    Riusciva a percepire che la vita così come lei l’aveva conosciuta era appesa a un filo? Sentiva i suoi occhi su di lei? Aveva un sesto senso per i mostri? Quel pensiero lo fece sorridere. Perversamente, una parte di lui desiderava che la ragazza possedesse un sesto senso che la rendesse capace di individuare i mostri alla luce del giorno. Ma l’aveva tenuta d’occhio per settimane; era del tutto inconsapevole della sua presenza. Caleb sospirò. Lui era il mostro che nessuno avrebbe pensato di cercare alla luce del giorno. Era un errore comune. Spesso la gente si sentiva più sicura sotto il sole, immaginando che i mostri uscissero solo di notte.

    Ma la sicurezza, come la luce, era solo una facciata. Dietro a quella facciata, tutto il mondo era immerso nelle tenebre. Caleb lo sapeva. E sapeva anche che il solo modo per tenersi al sicuro era accettare le tenebre, camminarci dentro con gli occhi ben aperti, diventarne parte. E questo aveva fatto lui. Si era tenuto vicino ai suoi nemici, molto vicino, in modo che nessuno potesse distinguere dove cominciassero e dove finissero. Perché la sicurezza non esisteva; i mostri erano in agguato ovunque.

    Abbassò gli occhi all’orologio e poi li sollevò di nuovo per guardare la ragazza. L’autobus stava tardando. Apparentemente frustrata, la ragazza sedette a terra con lo zaino sulle ginocchia. Se fosse stata una fermata normale, ci sarebbero state altre persone a camminare su e giù dietro di lei o ad aspettare sedute su una panchina, ma quella non era una fermata normale. E Caleb aveva potuto osservarla tutti i giorni, seduta sotto lo stesso albero, al lato della strada trafficata.

    Proveniva da una famiglia povera, ecco il secondo fattore di maggiore importanza dopo la bellezza. Per i poveri era più facile scomparire, anche in America. Soprattutto quando erano dell’età giusta perché si potesse ipotizzare una semplice fuga. Era la tipica scusa che fornivano le autorità quando non riuscivano a ritrovare qualcuno. Doveva essersi trattato di un allontanamento volontario.

    Nonostante i quarantacinque minuti di ritardo, la ragazza non dava segno di voler lasciare la fermata, e Caleb, per qualche ragione, trovò la cosa interessante. Le piaceva così tanto andare a scuola? Oppure detestava restarsene a casa? Se fosse stata vera la seconda ipotesi, le cose per lui sarebbero state più semplici. Magari avrebbe visto il rapimento come una via d’uscita. Gli venne quasi da ridere. Giusto.

    Guardò i vestiti che indossava, sciatti e sformati: jeans larghi, felpa grigia, auricolari e zaino. Vestiva sempre così, almeno finché non arrivava a scuola. Lì, di solito, si cambiava per indossare qualcosa di più femminile, addirittura sexy. Ma a fine giornata si cambiava di nuovo. Ripensò alla possibilità che odiasse starsene a casa. Si vestiva così perché viveva in un ambiente repressivo o instabile? O per evitare di essere fatta oggetto di attenzioni indesiderate quando, per andare e tornare da scuola, doveva attraversare una zona poca tranquilla? Non lo sapeva. Ma voleva scoprirlo.

    C’era, in quella ragazza, qualcosa di interessante che aveva spinto Caleb a saltare subito alla conclusione che fosse lei la ragazza che stava cercando, qualcuno con la capacità di mimetizzarsi. Qualcuno che avesse il buon senso di fare ciò che gli veniva detto quando si confrontava con l’autorità, o di fare ciò che doveva quando affrontava il pericolo. Una che sapesse sopravvivere.

    Dall’altra parte della strada, la ragazza giocherellava con gli auricolari, gli occhi fissi a terra senza alcun entusiasmo. Era carina, molto carina. Non avrebbe voluto farle questo, ma che scelta aveva? Si era rassegnato al fatto che lei fosse solo un mezzo per raggiungere uno scopo. Se non lei, allora un’altra, in ogni caso le sue difficoltà sarebbero rimaste le stesse.

    Continuava a fissare quella ragazza, la sua potenziale schiava, chiedendosi se si sarebbe dimostrata adatta al compito. Le voci dicevano che tra i partecipanti all’asta, quell’anno, ci sarebbe stato Vladek Rostrovich, uno degli uomini più ricchi del mondo, e senza alcun dubbio uno dei più pericolosi. Era a quest’uomo che la schiava sarebbe stata destinata, per tutto il tempo che si sarebbe reso necessario a Caleb per arrivargli abbastanza vicino da distruggere tutto ciò che aveva di più caro. E poi ucciderlo.

    Caleb si chiese ancora, non per la prima volta, cosa l’avesse condotto proprio a lei. Forse erano stati i suoi occhi. Riusciva a vedere anche da lontano quanto fossero neri, misteriosi e tristi. Quanto sembrassero aver vissuto.

    Scosse la testa, scacciando quei pensieri, quando sentì un motore tossire e delle ruote stridere sull’asfalto: in fondo alla strada stava arrivando il pulmino della scuola. Osservò attentamente il viso della ragazza rilassarsi per il sollievo. Sembrava che non si trattasse semplicemente dell’arrivo del pulmino, ma di qualcosa di più. Fuga, forse addirittura libertà. Alla fine, il pulmino arrivò, in perfetta sincronia col sole che finalmente brillava al culmine del suo splendore. La ragazza alzò lo sguardo stringendo gli occhi, ma indugiò un attimo, lasciandosi accarezzare il viso dalla luce, prima di scomparire nel pulmino.

    Una settimana più tardi, Caleb era appostato nel suo solito angolo ad aspettare la ragazza. Il pulmino era arrivato e ripartito. Lei non era a bordo, perciò si era messo ad aspettare per vedere se si sarebbe fatta viva.

    Stava quasi per andarsene quando la vide svoltare l’angolo, correndo a perdifiato verso la fermata. La raggiunse senza fiato, quasi disperata. Era una tipa emotiva. Di nuovo, Caleb si domandò come mai lei ci tenesse così tanto a non perdere la scuola.

    La guardò attraverso il finestrino dell’auto. Ora stava camminando, forse aveva realizzato di aver perso il pulmino. Era davvero ingiusto che la settimana prima avesse dovuto aspettare quasi un’ora mentre oggi l’autista non si era fermato nemmeno un attimo. Niente ragazza, niente fermata. Si domandò se avrebbe aspettato un’ora anche oggi, prima di convincersi che non c’erano speranze. Scosse la testa. Una cosa del genere sarebbe stata indice di un temperamento drammatico. Sperava che aspettasse e insieme sperava che non lo facesse.

    Quei pensieri sconnessi lo infastidivano. Non avrebbe dovuto avere speranze di nessun genere. Aveva degli ordini da eseguire, i suoi programmi da rispettare. Lisci. Semplici. Lampanti. Il momento della vendetta era arrivato, e non c’era posto per la morale.

    La morale era per le persone per bene, e Caleb era quanto di più distante da una persona per bene. Non credeva all’esistenza di nessuna entità superiore o di una vita dopo la morte, anche se, essendo cresciuto in Medio Oriente, conosceva molte cose sulla religione. Ma se ci fosse stata una vita dopo la morte, dove le persone avrebbero raccolto ciò che avevano seminato, allora lui era già condannato. Tuttavia, una volta che Vladek fosse morto, sarebbe arrivato all’inferno felice.

    E poi, se esisteva un Dio, o degli dèi, non dovevano sapere nulla di Caleb; altrimenti significava che se ne erano fregati quando aveva avuto bisogno di loro. Se ne erano fregati tutti di lui, tranne Rafiq. E senza una vita dopo la morte dove ognuno avrebbe pagato per il male commesso, Caleb voleva essere certo che Vladek Rostrovich pagasse per i suoi peccati su questa terra.

    Venti minuti dopo, la ragazza cominciò a piangere, proprio lì, sul bordo della strada, di fronte a lui. Caleb non riusciva a distogliere lo sguardo. Le lacrime avevano sempre l’effetto di confonderlo. Gli piaceva guardarle, assaporarle. A dire il vero, glielo facevano venire duro. Un tempo aveva odiato questa risposta condizionata, ma ormai la fase dell’autosvalutazione l’aveva superata da un pezzo. Queste risposte, queste reazioni, adesso facevano parte di lui, nel bene e nel male. Soprattutto nel male, ammise tra sé con un sorriso, e si sistemò l’erezione nei pantaloni.

    Cosa suscitava quelle manifestazioni di un’emozione che gli scavava nelle viscere senza lasciarsi andare? Era lussuria allo stato puro quella che lo attraversava, come un dolore violento, portando con sé l’intenso desiderio di possederla, di avere il potere sulle sue lacrime. Ogni giorno che passava, la pensava più come una schiava che come qualcuno che ancora doveva comprendere. Anche se manteneva un seducente alone di mistero che teneva celato nello sguardo abbassato.

    Nella mente gli scorsero le immagini del suo viso dolcemente innocente bagnato di lacrime mentre lui la teneva piegata sulle sue ginocchia. Poteva quasi sentire la morbidezza del suo culo nudo sotto le mani, la certezza del suo peso premuto contro la sua erezione mentre la sculacciava.

    La fantasia fu breve.

    All’improvviso, una macchina frenò davanti alla ragazza. Merda. Scacciò quelle immagini con un grugnito. Quasi non riusciva a crederci. Qualche coglione aveva deciso di provarci con la sua preda.

    Rimase a guardare mentre la ragazza scuoteva la testa, declinando l’invito a salire in macchina. Ma il tipo non sembrava averla sentita. Lei cominciò a camminare, allontanandosi dalla fermata, ma il tizio nell’auto continuava a seguirla.

    C’era solo una cosa da fare.

    Caleb uscì dalla macchina all’angolo, più che sicuro che la ragazza non avesse fatto caso da quanto tempo era parcheggiato lì. Per il momento, sembrava troppo terrorizzata per notare qualsiasi cosa non fosse l’asfalto davanti ai suoi occhi abbassati. Camminava in fretta, lo zaino davanti, come uno scudo. Lui attraversò la strada e camminò piano nella sua direzione. Valutò con disinvoltura la scena, mentre si spostava dritto davanti a lei, le loro strade destinate a uno scontro frontale.

    Accadde tutto così in fretta, inaspettatamente. Prima che Caleb avesse modo di escogitare una semplice strategia per rimuovere la minaccia esterna, all’improvviso lei gli si gettò tra le braccia, lasciando cadere con un tonfo lo zaino sull’asfalto. Lui guardò la macchina, l’ombra e la forma incongruente di un uomo. Un altro predatore.

    «Oh, mio Dio», mormorò lei contro il cotone della sua T-shirt. «Reggimi il gioco, ok?». Serrava le braccia attorno alla sua cassa toracica, la voce una supplica convulsa.

    Caleb rimase scioccato per un attimo. Che svolta interessante avevano preso le cose. Era diventato l’eroe della situazione? Gli veniva quasi da ridere.

    «Lo vedo», disse incrociando lo sguardo dell’altro cacciatore. Stupido imbecille, se ne stava seduto là e sembrava confuso. Caleb circondò la ragazza con le braccia, come se la conoscesse. Un impulso giocoso lo spinse a far scorrere le mani sui suoi fianchi. Lei si irrigidì, il respiro bloccato in gola.

    La macchina alla fine se ne andò a tutta velocità, sgommando in una nuvola di gas di scarico, e con essa svanì anche la competizione. Non avendo più bisogno della sua protezione, subito le braccia della ragazza si allentarono.

    «Mi dispiace», disse in fretta. «Ma quel tipo non mi voleva lasciar stare». Sembrava sollevata ma ancora scossa dall’incidente.

    Caleb la guardò negli occhi, questa volta da vicino. Erano proprio scuri, seducenti e privi di gioia così come li aveva immaginati. Si ritrovò a desiderare di prenderla subito, portarla in un posto nascosto dove avrebbe potuto esplorare le profondità di quegli occhi, svelare il mistero che nascondevano. Ma non ora. Ora non era né il momento né il luogo.

    «Siamo a L.A. Pericolo, intrighi e star del cinema. Non è questo, si dice, ciò che si trova sotto l’insegna di Hollywood?». Provò a sollevarle l’umore.

    Confusa, la ragazza scosse la testa. A quanto pare non era ancora pronta a scherzare. Ma mentre si chinava a raccogliere lo zaino, mormorò: «Uhm, veramente, penso di sì. Fa molto L.A. Ma non sotto all’insegna di Hollywood. Lì sotto non c’è proprio niente».

    Caleb ricacciò indietro un grosso sorriso. Non stava cercando di essere divertente. Era più come se cercasse di spostarsi su un terreno sicuro. «Devo chiamare la polizia?», le domandò fingendosi preoccupato.

    Ora che si sentiva più tranquilla, la ragazza sembrò notarlo davvero, circostanza sfortunata ma del tutto inevitabile. «Uhm…». Il suo sguardo andava e tornava sui suoi occhi, indugiando sulla sua bocca un po’ troppo a lungo, prima di tornare alle scarpe da ginnastica che portava ai piedi. «Non credo sia necessario. E comunque non farebbero nulla, questo posto è pieno di stronzi del genere. E poi», aggiunse imbarazzata, «non ho nemmeno preso la targa».

    Lo guardò di nuovo, lasciando vagare lo sguardo sul suo viso per poi mordersi il labbro inferiore e tornare a guardare a terra. Caleb cercò di mantenere un’espressione preoccupata, mentre avrebbe voluto solamente sorridere. Quindi, la ragazza mi trova attraente.

    Immaginava di esserlo per la maggior parte delle donne, anche se capivano tardi, o troppo tardi, cosa significasse davvero quell’attrazione. Eppure, questo genere di reazioni ingenue, quasi innocenti, lo divertivano sempre. La guardò mentre sceglieva di abbassare lo sguardo, dondolandosi da un piede all’altro.

    Mentre se ne stava lì, beatamente inconsapevole che il suo comportamento timido e sottomesso stava forgiando il suo destino, Caleb avrebbe voluto baciarla.

    Doveva tirarsi fuori da quella situazione.

    «Probabilmente hai ragione», sospirò, rivolgendole un sorriso comprensivo, «rivolgersi alla polizia non servirebbe a nulla».

    Lei annuì piano, dondolando sempre nervosamente sui piedi, ora ancora più timidamente. «Ehi, potresti…».

    «Credo che dovrei…». Questa volta si permise di sorridere apertamente.

    «Scusa, prima tu», mormorò lei, resa ancora più bella dal lieve rossore. Il suo comportamento da ragazza dolce e timida era inebriante. Era come se avesse un cartello appeso al collo che diceva: Lo prometto, farò tutto quello che mi dirai.

    Sapeva di doversene andare. Subito. Oh, ma era così divertente. Guardò la strada vuota. Presto qualcuno sarebbe arrivato, ma non ancora.

    «No, dài, cosa stavi dicendo?». Osservò i suoi capelli neri corvini mentre lei continuava a giocherellarci con le dita. Erano lunghi, mossi, e le incorniciavano la faccia. Le punte si incurvavano sulle colline dei seni. Seni che avrebbero riempito proprio bene le sue mani. Mise fine a questi pensieri prima che il suo corpo reagisse in risposta.

    Lei alzò lo sguardo. Col sole in faccia, strizzò gli occhi quando incontrò i suoi. «Oh… Uhm… Lo so che è strano dopo quello che è appena successo… ma, ho perso l’autobus e…», agitata, cercò di tirare fuori in fretta le parole. «Sembri un tipo a posto. Voglio dire, ho delle faccende che devo sbrigare oggi, e ho pensato, mi stavo chiedendo… Potresti darmi un passaggio a scuola?». Il suo sorriso non ebbe nulla di breve o di perfido. E quello di lei era così grande che riuscì a vedere tutti i suoi bei denti bianchi. «Scuola? Quanti anni hai?». Lei arrossì ancora di più.

    «Diciotto! Sono all’ultimo anno, sai, mi diplomerò in estate». Gli sorrise. Aveva ancora il sole in faccia e strizzava gli occhi ogni volta che incontrava i suoi. «Perché?»

    «Niente», mentì lui, e giocò con l’ingenuità della sua età. «Solo sembri più grande». Un altro grande sorriso. Altri bei denti bianchi.

    Era arrivato il momento di finirla.

    «Ascolta, mi piacerebbe molto darti un passaggio, ma devo incontrare un’amica proprio in fondo alla strada. Di solito condividiamo la macchina ed è il suo turno di affrontare il traffico sulla 405». Controllò l’ora. «E sono già in ritardo». Dentro, sentì un’ondata di soddisfazione quando vide il suo viso adombrarsi. Alla parola no, alla parola amica. Non ottenere quello che desideri era sempre la prima lezione.

    «Sì, no, certo… Ho capito». Si riprese come se niente fosse, ma arrossì ancora. Scrollò le spalle con indifferenza e distolse lo sguardo. «Chiederò a mia madre. Non è un problema». Prima che avesse modo di scusarsi ancora, lei lo oltrepassò e infilò gli auricolari. «Grazie per avermi aiutata con quel tipo. Ci si vede in giro».

    Mentre scappava via, riuscì a sentire vagamente la musica che le pompava nelle orecchie. Si chiese se fosse alta abbastanza da sommergere il suo imbarazzo.

    «Ci si vede in giro», mormorò.

    Aspettò che avesse svoltato l’angolo prima di tornare alla macchina, e poi scivolò dietro al volante mentre apriva il cellulare. Era tempo di prendere accordi per il suo nuovo arrivo.

    Capitolo uno

    Mi svegliai con un fortissimo mal di testa e mi accorsi contemporaneamente di due cose: era buio e non ero sola. Ci stavamo spostando? Con la vista offuscata, i miei occhi scrutarono attorno, quasi per istinto, per trovare una parvenza di oggettività, riconoscere qualcosa di familiare. Ero in un furgone, il corpo buttato senza riguardi sul pavimento.

    Sconvolta, provai a muovermi solo per scoprire che i miei gesti erano bloccati e inefficaci. Le mani mi erano state legate dietro alla schiena, le gambe erano libere ma decisamente pesanti.

    Cercai di nuovo di mettere a fuoco qualcosa nel buio. Entrambi i vetri posteriori erano oscurati, ma anche nella tetra oscurità riuscii a distinguere quattro forme. Dalle voci capii che si trattava di uomini.

    Parlavano tra di loro in una lingua che non capivo. Ad ascoltarli, sembrava un torrente ininterrotto di parole, di suoni troncati. Qualcosa di ricco, molto straniero… forse Medio Oriente. Importava? Il mio cervello disse di sì, era un’informazione. Poi anche quel piccolo conforto sfumò. Vedere l’iceberg non aveva impedito al Titanic di affondare.

    Il mio primo istinto fu di gridare. È quello che si fa quando ci si accorge che il nostro peggior incubo si sta trasformando in realtà. Ma serrai la mascella per impedirmi di farlo. Volevo davvero che sapessero che mi ero svegliata? No.

    Non sono completamente stupida. Ho visto abbastanza film, letto abbastanza libri e ho vissuto in un ambiente di merda abbastanza a lungo da sapere che attirare l’attenzione su di me era la cosa peggiore

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