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Il segreto dei Medici
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E-book344 pagine4 ore

Il segreto dei Medici

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Info su questo ebook

Un grande thriller
Tradotto in 40 Paesi

Un antico mistero
Una pericolosa congiura
Un segreto da proteggere a costo della vita

Nelle cripte delle cappelle medicee a Firenze, la paleopatologa Edie Granger e suo zio, Carlin Mackenzie, stanno esaminando i resti mummificati di una delle più potenti famiglie del Rinascimento. Sembra che gli imbalsamatori dell’epoca abbiano fatto un buon lavoro, ma… sotto la pelle raggrinzita del cadavere di Cosimo de’ Medici c’è uno strano oggetto. La sua presenza lì è assolutamente inspiegabile. Per Mackenzie è la più affascinante e pericolosa delle scoperte, per Edie l’inizio di un’ossessione che non la abbandonerà più. E solo Jeff Martin, suo grande amico e storico di fama con un passato doloroso da dimenticare, può aiutarla a fare luce sull’enigma e a proteggere la sua stessa vita. Sì, perché ben presto una catena di omicidi e delitti insanguina il ritrovamento dell’oscuro reperto… Attraverso colpi di scena, minacce, tensione e svolte narrative inaspettate Il segreto dei Medici tiene il lettore avvinto fino all’ultima, imprevedibile rivelazione.

Un autore tradotto in 40 Paesi

Un antico mistero
Una pericolosa congiura
Un segreto da proteggere, a costo della vita

«Firenze, i Medici e il misterioso mondo rinascimentale… Non mi appassionavo così da secoli!»

«L’ho finito in un giorno, non riuscivo davvero a metterlo giù. È ricco di dettagli e avvincente, perfetto per gli amanti del thriller storico!»
Michael White
È stato musicista, docente di scienze, giornalista e consulente televisivo prima di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. È autore di più di 30 libri, ha vinto il Bookman Prize con il romanzo Newton. L’ultimo mago ed è tradotto in 40 Paesi. Con la Newton Compton ha pubblicato L’anello dei Borgia e Il segreto dei Medici. È Honorary Research Fellow alla Curtin University di Perth e vive a Sidney con la moglie e i quattro figli.
LinguaItaliano
Data di uscita14 set 2016
ISBN9788854199194
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    Anteprima del libro

    Il segreto dei Medici - Michael White

    Capitolo 1

    Firenze, 4 novembre 1966

    Quando Mario Sporani, guardiano delle cappelle medicee, aprì di scatto gli occhi alle 5:45 del mattino e sentì sbattere le persiane della camera contro il muro, pensò che la fine del mondo fosse imminente. In un lampo era perfettamente sveglio, e le parole dell’Apocalisse gli trafissero il cervello con la forza di un proiettile: «E il serpente gettò dalla sua bocca, dietro alla donna, dell’acqua a guisa di fiume, per farla portar via dalla fiumana».

    Per un istante pensò di essere intrappolato in un incubo troppo vivido, ma poi le persiane volarono all’indietro con tanta violenza che ruppero il vetro della finestra, spedendo frammenti scintillanti per tutta la camera. La pioggia sferzava le mura con una forza così impetuosa che Sporani temette che la vecchia struttura di pietra potesse andare in frantumi da un momento all’altro, facendo collassare l’intero edificio. Non era un sogno, poco ma sicuro.

    In un solo istante, era già sceso dal letto e spingeva sua moglie Sophia fuori dalla porta, lungo il corridoio che portava alla camera del figlio. Sentiva il piccolo che gridava, le sue urla erano più forti del pandemonio del temporale. Sophia lo prese dalla culla e cercò di calmarlo.

    «Sophia, prendi Leo e chiudetevi nello stanzino, sbarra le finestre. Ti porterò una coperta e una torcia. Poi devo andare alle cappelle».

    «Mario, non puoi uscire in questo inferno».

    «Devo», rispose. «Solo Dio sa che danni ci saranno già stati. La camera sepolcrale potrebbe allagarsi, e i corpi…».

    Si diresse verso la porta. Pochi momenti dopo, era di ritorno con un biberon per il piccolo, una torcia, un po’ di pane e la coperta del letto. Mario baciò moglie e figlio, si voltò, scattò fuori e chiuse a chiave la porta prima di lanciarsi in una corsa disperata per il corridoio, giù lungo la stretta scala di legno – così buia che vedeva a stento gli scalini davanti a sé – e nel corridoio che portava all’ingresso.

    Per poco la porta non lo buttò a terra, non appena rimosse il chiavistello e il vento si riversò all’interno. Incapace di richiuderla, la lasciò inchiodata al muro e a testa bassa fece due lenti passi fuori. Era buio pesto. Nuvole di tempesta avevano cancellato la luna; era evidente che l’elettricità era saltata.

    Mentre Mario si guardava intorno, fermo sull’uscio del suo edificio, il cielo venne illuminato a giorno da un impressionante fulmine. La strada era completamente allagata. L’acqua fangosa rombava per le vie, alta fino al ginocchio. Puzzava di fogna. Vide una ruota di bicicletta che veniva trascinata via su via de’ Ginori, verso piazza San Lorenzo. Fece un profondo respiro e cominciò ad avanzare nell’acqua.

    Il gelo gli strappò il fiato. Non aveva modo di vedere dove metteva i piedi e l’asfalto sotto gli stivali era scivoloso, infido. Intorno a lui, nulla a cui aggrapparsi, tranne i mattoni umidi e la pietra degli edifici. Il cielo si illuminò parzialmente e i raggi della luna riuscirono a fendere l’oscurità, gettando ovunque una luce debole e spettrale, appena sufficiente per permettergli di scorgere via de’ Ginori e le mura della basilica di San Lorenzo, di fronte a lui.

    Mario cercò di muoversi più velocemente ma era impossibile. Doveva lottare contro la corrente per avanzare, un centimetro alla volta. Non poté far altro che schiacciarsi contro il muro, mentre un ramo, poi uno pneumatico, poi una scatola vuota e un cesto dell’immondizia gli passavano accanto, rapiti dalla corrente e spinti dal vento, per schiantarsi infine contro un edificio o finire nel gorgo del fango montante.

    Quando raggiunse l’angolo in cui via de’ Ginori incontrava via de’ Pucci era esausto e completamente inzaccherato di fanghiglia. Mille aghi gli pungevano le guance per colpa del gelo terribile, non sentiva più le dita dei piedi. La strada, di solito affollata, era deserta. La stessa melma marrone correva lungo tutta la via infrangendosi contro gli antichi edifici di pietra su entrambi i lati. Lontano, molto lontano, Mario sentì uno schianto. Metallo che si contorceva, poi un urlo. Mentre fissava stupefatto e inebetito dallo shock la devastazione davanti a lui, un altro fulmine squarciò il cielo e la pioggia si trasformò in chicchi di grandine che rimbalzavano giù dai tetti colpendolo in faccia.

    Continuò ad avanzare sulla strada principale, trovando un po’ di riparo sotto la basilica. Lì la corrente era più impetuosa e ci volle tutta la sua forza per resisterle. Ma poi, mentre si avvicinava alle porte della cappella, un altro ramo corse verso la sua testa. Si abbassò, ma era troppo tardi. Il pezzo di legno lo centrò in pieno volto. Cadde indietro nella corrente.

    La fanghiglia lo ricoprì, lo avvolse, lo ribaltò sotto la superficie marrone. Qualcosa di duro lo colpì con la forza di un pugno tra le costole, poi si ritrovò ad annaspare nel putridume, cercando disperatamente di rimettersi in piedi. Ce l’aveva quasi fatta, ma poi scivolò e finì di nuovo in acqua, la bocca piena di fango. Sputò disgustato, agitò le braccia. Improvvisamente era terrorizzato. Con la mano destra afferrò un anello di metallo nel muro della basilica. Si aggrappò con la forza della disperazione e si tirò su, sputacchiando e annaspando, tentando di immettere un po’ di aria nei polmoni, con un sapore terribile in gola.

    Era quasi arrivato all’entrata della cappella e riuscì a tirarsi in avanti, abbrancando il muro. Sostenendosi a un contrafforte di pietra si issò con la massima attenzione e per la prima volta intravide le porte della cappella. Erano state divelte dai cardini, l’acqua si riversava all’interno con la forza di una cascata.

    Con rinnovata determinazione, Mario fendette il torrente, superò l’entrata e scese i pochi scalini di pietra che portavano alla sala principale della cripta. Lì l’acqua gli lambiva i polpacci; era sempre più profonda e i detriti venivano vomitati dentro dal liquame marroncino che superava di getto l’entrata e inondava gli scalini. Appena superato l’ingresso c’era una vetrinetta che conteneva una torcia e un’ascia. Ruppe il vetro e afferrò la torcia.

    Rischiò di scivolare di nuovo ma riuscì a raggiungere la sala principale. Il rombo dell’acqua riecheggiava sotto il soffitto basso ad arco. Intorno a tutto il perimetro si ergevano monumenti che celebravano più di cinquanta membri della famiglia Medici, sepolti in semplici casse di pietra sotto il pavimento. Quei sepolcri erano rialzati sopra il livello del pavimento, ma l’acqua continuava a gonfiarsi e ben presto avrebbe raggiunto le statue e gli elaborati sarcofagi. Ma non era questa la prima preoccupazione di Mario Sporani. Molto più terrificante era la possibilità che l’acqua riuscisse a infiltrarsi sotto il pavimento e a raggiungere le camere sepolcrali vere e proprie. Doveva fare tutto ciò che era in suo potere per impedirlo.

    Andò all’altare, sollevando alti schizzi, e raggiunse la zona sopraelevata in fondo alla cripta. Lì torreggiavano due enormi angeli di pietra, appollaiati sui lati di una piattaforma di marmo. Subito dietro c’era l’entrata alla cripta della famiglia Medici.

    Mario avanzava più velocemente che poteva in mezzo all’acqua gelida. La botola che portava alle camere sepolcrali era sorprendentemente leggera e si aprì senza difficoltà. Dentro, intravide una scaletta. Cercò di mettere a fuoco nell’oscurità, muovendo la torcia, ma non vide altro che degli scalini che si perdevano nel vuoto. L’acqua rombava davanti a lui, la sentiva baciare il pavimento di pietra sottostante. Si chinò in fretta, si lanciò nel buco, richiudendosi la botola sulla testa. La chiusura non era perfetta, l’acqua continuava a fluire, scendendo lungo la scala, riversandosi nella camera.

    Pochi istanti dopo, Mario toccò il pavimento, e il raggio della torcia illuminò le antiche mura e le file di nicchie di pietra su entrambi i lati. L’aria era rancida, puzzava di muffa, terra vecchia e marciume, ma erano odori che conosceva bene e non gli causavano più alcun disturbo. Poi sentì qualcosa che si spezzava, un suono orribile. Si voltò di scatto, vide un blocco di pietra che si staccava dal muro e crollava a terra. L’acqua entrò a fiotti, minacciando di buttarlo giù.

    Spinto da una paura primitiva, raggiunse uno scudo di roccia subito dietro di lui. A poca distanza riusciva a vedere l’apertura di una delle nicchie sepolcrali e il bordo di un sudario, sfilacciato e grigio. Un secondo schianto, un’altra pietra che cadeva, l’acqua che schizzava in alto, bagnando le pareti della camera. Gli cadde la torcia di mano, finì nella corrente. La guardò affondare e poi spegnersi istantaneamente, brutalmente. La stanza era completamente buia. Una voce urlava nel suo cervello: perché era stato tanto idiota da scendere laggiù? Che cosa pensava di fare? Adesso, insisteva la voce, sarebbe morto in quella trappola. Sarebbe andato a fare compagnia agli altri corpi che lo circondavano.

    Ma il panico passò, e venne rimpiazzato da una ferrea determinazione. Non vedeva nulla, ma sapeva dov’era l’uscita. Si calò giù dal suo rifugio di roccia, immergendosi nell’acqua ghiacciata. Gli arrivava alle cosce, raggiungeva già i cornicioni in cui riposavano gli antichi cadaveri. Ignorando il torpore che gli annebbiava i muscoli e lo stordimento che minacciava di oscurare la sua mente, si spinse fino al punto in cui doveva trovarsi la scala. Nella più completa oscurità, annaspò alla ricerca della salvezza rappresentata dagli scalini di metallo, ma erano ancora troppo lontani, irraggiungibili. Con le mani ben tese, avanzò alla cieca, affrontando l’acqua impetuosa che continuava a filtrare dal buco nel muro.

    Proprio quando cominciava a perdere le speranze, i suoi polpastrelli toccarono il metallo. Afferrò il bordo della scala e si issò sul primo scalino.

    Sollevò il piede per raggiungere lo scalino successivo e sentì la scaletta tremare e sussultare. Si stava staccando dal muro. Mario si lanciò in avanti, e il peso del suo corpo scagliò di nuovo la scaletta contro la pietra della parete. Sopra di lui vedeva una pozza di luce dal bordo della botola – non l’aveva chiusa per bene. Acqua putrida gli scendeva sulla testa, una cascata che gli inzuppava la schiena. Sentiva il cuore che batteva impazzito nel petto, mentre saliva faticosamente un altro scalino. La scaletta tremò di nuovo. Altri sei scalini e avrebbe raggiunto l’apertura.

    E poi avvistò qualcosa che galleggiava nell’acqua, a meno di un metro di distanza. Era un tubo scuro, lungo una trentina di centimetri.

    Mario si girò con tutta la calma e la delicatezza di cui era capace. Allungò il braccio, le sue dita sfiorarono l’oggetto e miracolosamente riuscì a stringerlo. Se lo ficcò sotto la cintura, si inerpicò verso l’alto con ogni grammo di energia che gli restava, proprio nel momento in cui i supporti della scaletta scivolavano fuori dai loro vani nella parete. Con uno sforzo quasi sovrumano, afferrò il bordo della botola. Le sue dita toccarono l’orlo metallico dell’apertura. L’acqua si abbatté con violenza sul suo viso, non riusciva nemmeno a respirare. Guidato solo dal puro e semplice terrore, si tirò su, con i piedi che grattavano contro la grezza parete di roccia. Aprì la botola e si gettò attraverso l’apertura, boccheggiando sul pavimento dell’altare.

    Capitolo 2

    Firenze, oggi

    Edie Granger lasciò la Fiat rossa nel parcheggio privato dietro le cappelle medicee e attraversò ad ampie falcate la strada acciottolata che portava all’ingresso. Senza scarpe era alta uno e settantacinque e, grazie all’esercizio fisico quotidiano, era in perfetta forma. L’eleganza nel vestire era una delle prime voci nella sua lista delle priorità, una caratteristica piuttosto inusuale nell’ambiente accademico inglese e molto apprezzata dai suoi amici italiani, che scherzando le giuravano che era la sosia identica dell’attrice Liv Tyler.

    Ignorò risolutamente le figure incappucciate e armate di cartelloni che con le loro tuniche marroni marciavano davanti alle porte della cappella, come ogni giorno negli ultimi mesi. I manifestanti erano membri di uno strano gruppo: si chiamavano I Lavoratori di Dio. Erano guidati da un domenicano fanatico, tale padre Baggio, e cercavano di impedire che venissero condotte ricerche scientifiche all’interno delle cappelle medicee. Per Edie, erano da tempo diventati parte del paesaggio.

    Agitò il suo pass al gabbiotto della sicurezza subito dopo le porte, fece le scale due alla volta, entrò di buon passo in quella parte della cripta dove folle di turisti campeggiavano ogni giorno, leggendo le iscrizioni sulle tombe dei Medici.

    All’estremità opposta della cappella un cordone recintava una zona proibita al pubblico. Tendaggi color crema nascondevano l’entrata; dietro, una stretta scaletta scendeva nelle camere sepolcrali, dove profonde nicchie, su entrambi i lati, ospitavano i sarcofagi. Entrando nella zona riservata alle ricerche, Edie superò un paio di tavoli da dissezione e percorse un corridoio fino a raggiungere il primo dei due laboratori sulla sinistra.

    La camera sepolcrale sotto la cripta delle cappelle medicee era una stanza dal soffitto basso, più o meno di dieci metri per sei. Era soffocante e calda ma l’aria non era ferma, grazie a un potente sistema di condizionamento portatile. Lungo tutte le pareti del laboratorio si allineavano macchine a raggi X, spettrometri e analizzatori di DNA. Dall’altra parte della camera principale c’era l’ufficio di Carlin Mackenzie: casse sigillate piene di ossa giacevano accanto a un paio di Mac superpotenti, un accostamento piuttosto incongruo.

    Edie si era appena seduta al suo tavolo da lavoro e stava esaminando i risultati di una spettroscopia infrarossa quando Mackenzie entrò con due uomini elegantemente vestiti. Li aveva già visti: il più basso era Umberto Nero, vicerettore dell’università di Pisa; l’altro, più giovane, era un politico locale piuttosto noto, Francesco della Pinoro, grande favorito alle elezioni comunali.

    «Ah, Edie», disse Mackenzie. Il professore era un uomo basso, in carne, vicino ai settanta. Sfoggiava occhiali alla John Lennon, aveva una spruzzata di capelli bianchi e sottili sul capo, e un volto dolce e affascinante che gli garantiva una certa popolarità tra i registi e lo staff dei documentari televisivi. «Signori, lei è mia nipote, la dottoressa Edie Granger».

    Della Pinoro le diede la mano e Nero annuì. Lui e Edie si erano già incontrati in diverse occasioni e si erano quasi sempre cordialmente ignorati.

    «Ehi, puoi ritagliarti qualche momento per i nostri ospiti? La loro vettura dovrebbe arrivare tra poco; puoi fargli fare un breve tour?»

    «Ma certo». Edie riuscì a fatica a iniettare un briciolo di entusiasmo nella sua voce.

    «Eccellente. Gentiluomini, vi ringrazio per i vostri preziosi commenti. Mi farò vivo molto presto». Mackenzie strinse la mano a tutti e si voltò.

    «Da questa parte». Edie scortò della Pinoro e Nero nella camera centrale e li fece avvicinare a un lungo tavolo metallico. Mentre percorrevano il pavimento di pietra, descrisse le modalità con cui i corpi nelle nicchie erano stati imbalsamati e preservati all’interno della cripta. Fece il giro del tavolo e guardò i visitatori. In mezzo a loro era steso un corpo vecchio di 470 anni.

    Scostandosi una ciocca di ricci capelli neri che le era ricaduta sul viso, spalancò bene gli occhi, dello stesso colore del legno bruciato, incrociò le braccia e si tirò su in tutta la sua altezza, torreggiando sopra i due visitatori.

    «Questo è Ippolito de’ Medici, figlio illegittimo di Giuliano de’ Medici, duca di Nemours. Per quasi mezzo millennio, la sua morte è stata avvolta dal mistero. Alcuni hanno teorizzato che questo giovane uomo – aveva solo ventiquattro anni quando morì – fu ucciso da suo cugino Alessandro, a sua volta poi eliminato da un altro amichevole parente, Lorenzino de’ Medici. Finora, comunque, non c’erano prove. Abbiamo appena finito di lavorare su questi resti e abbiamo trovato degli indizi inconfutabili che dimostrano che Ippolito venne avvelenato».

    Nero alzò lo sguardo dalla mummia sul tavolo. Edie si accorse che era impallidito. Si affrettò a condurre i suoi ospiti in una stanza più piccola, lontano dalla camera principale. Sulla panca era seduto un uomo, chino su un grande microscopio, completamente assorbito dal lavoro.

    «Questo è il cuore pulsante dell’operazione», disse Edie. «Questa stanza e il laboratorio subito accanto una volta ospitavano fino a una dozzina di sepolture, che però in gran parte sono state danneggiate durante l’alluvione del 1966. Ai corpi – appartenevano ai membri minori del clan dei Medici – venne data nuova sepoltura in un’altra parte della cappella. Questo ora è il laboratorio principale, dove analizziamo i materiali estratti dalle mummie nella cripta».

    «Come potete essere sicuri che quest’uomo sia stato ucciso?», chiese della Pinoro. Nel corso degli ultimi minuti aveva iniziato a mostrare un interesse crescente verso la scollatura a V del camice da laboratorio di Edie. «Immagino che qualsiasi prova sia andata perduta da secoli, no?»

    «Ottima domanda», disse Edie, rincuorata dalla possibilità di poter sfoggiare la propria competenza. «Lo scopo principale del nostro lavoro è accertare la causa della morte di membri particolarmente in vista della famiglia Medici. Questi corpi possono sembrare gusci vuoti e privi di vita», aggiunse, facendo un vago cenno a indicare la camera che avevano appena abbandonato, «ma ci forniscono un’incredibile quantità di informazioni rimaste nascoste fino al giorno d’oggi».

    «Per esempio?»

    «Spesso siamo costretti a ricostruire uno scenario plausibile a partire soltanto da resti dello scheletro. Di solito, dopo cinquecento anni, non rimane altro. Ma persino delle ossa quasi sbriciolate possono rivelarci molte cose. Malattie diffuse all’epoca, come la sifilide e il vaiolo, lasciano segni rivelatori nella struttura delle ossa della vittima, che noi possiamo studiare utilizzando l’analisi immunoistochimica e ultrastrutturale».

    Della Pinoro sembrava confuso. «Nel caso di Ippolito», proseguì Edie, «siamo riusciti a effettuare un’analisi dettagliata dello scheletro, che ha rivelato livelli insoliti di sostanze chimiche conosciute con il nome di salicilati».

    «Il che ci fa capire che…».

    «Be’, Alessandro l’ha fatta franca: nessuno è venuto a sapere del suo crimine, perché Ippolito, sul letto di morte, mostrava tutti i sintomi classici della malaria: febbre, rigor, emicranie lancinanti e dolore addominale acuto. Ma l’avvelenamento da salicilato di metile produce effetti quasi identici».

    Della Pinoro stava per dire qualcosa quando un movimento alle sue spalle catturò l’attenzione di Edie. «Ah, stanno tirando fuori l’ultima pietra dello scandalo».

    «Pietra dello scandalo?», chiese Nero, mentre la dottoressa correva alla porta.

    «Lui sarebbe Cosimo de’ Medici, Cosimo il Vecchio», rispose lei, conducendo i due uomini verso un altro tavolo da dissezione rivolto in direzione opposta rispetto a quello che conteneva i resti di Ippolito. Mackenzie era già lì insieme al nipote, Jack Cartwright, l’esperto di DNA del team.

    «Sarebbe?». Mackenzie interrogò Edie con un’espressione dubbiosa.

    «Abbiamo opinioni discordanti sull’identificazione di questo corpo», spiegò lei. «Mio zio è sicuro che sia Cosimo, io invece non ne sono ancora convinta».

    Jack Cartwright, l’uomo alto con le spalle ampie al fianco di Mackenzie, fece un passo in avanti e si presentò ai visitatori. Era appena tornato da una mattinata all’università di Firenze.

    «E qual è la sua posizione al riguardo, dottor Cartwright?», chiese il vicerettore, distogliendo lo sguardo dal cadavere.

    Cartwright stava per rispondere quando furono interrotti da una giovane donna che pareva piuttosto accaldata. «Scusate», disse. «È arrivata la macchina dei nostri ospiti».

    Il vicerettore non riusciva a nascondere il proprio sollievo, e prima che della Pinoro potesse aprire bocca, si era già lanciato in un frettoloso saluto a Mackenzie. «Le sono molto grato per il tempo che ci ha dedicato», disse. «… e grazie anche a lei, dottoressa Granger, per il giro».

    Edie accompagnò i visitatori alla limousine e tornò pochi istanti dopo. Mackenzie e Cartwright stavano esaminando il corpo sul tavolo. Mackenzie, con una lente attaccata all’occhio, stava scostando i lembi di una tunica di seta ottimamente conservata, utilizzando un paio di pinzette. Per due settimane avevano studiato il materiale tratto da quel corpo, effettuando test su campioni di tessuto e strutture ossee grazie a macchine a raggi X portatili. Ma solo quella mattina avevano concordato di rimuovere il corpo dalla sua nicchia per un’ispezione più approfondita. Il cadavere divideva la nicchia con un altro corpo; Mackenzie era convinto che si trattasse di quello di Contessina de’ Medici, moglie di Cosimo I, morta nel 1473.

    «Mi piacerebbe molto che evitassi di lavare i nostri panni sporchi in pubblico», disse Mackenzie, senza alzare lo sguardo.

    «Ho solo ammesso che degli studiosi sono in disaccordo; non ci vedo nulla di male», rispose Edie, afferrando un altro paio di pinzette da un vassoio.

    «Be’, io invece sì. Non mi fido di quella gente. Sono sempre alla ricerca di un pretesto per tagliarci i fondi».

    «Credo che il loro obiettivo principale fosse scappare di qui il più in fretta possibile».

    «Forse sì, ma secondo me della Pinoro è una vipera».

    «È per questo che mi hai tirata in mezzo?», ribatté Edie.

    Mackenzie la fissò. Edie guardò da un’altra parte e si affrettò a cambiare argomento.

    «Questa giubba di seta ha una squisita fattura».

    «Puoi dirlo forte. Dà un’occhiata a questo», Mackenzie passò la sua lente di ingrandimento a Cartwright. Il corpo era avvolto da un tessuto di seta color crema e da un soprabito di velluto che un tempo doveva brillare del viola più intenso e magnifico che si possa immaginare. I bottoni erano di oro puro. «Un punto a favore della mia teoria, non credi?», mormorò Mackenzie.

    Edie scrollò le spalle. «Con ogni probabilità Cosimo sarà stato sepolto con i migliori abiti e il massimo della pompa, ma lo stesso si può dire di qualsiasi membro particolarmente in vista della famiglia».

    «Forse. Trovato qualcosa di interessante con i campioni di DNA, Jack?»

    «Ci stiamo ancora lavorando», Cartwright restituì la lente a Mackenzie. «Si sta rivelando un compito più arduo di quanto ci aspettassimo».

    Mackenzie sospirò, scostando con la massima delicatezza il fragile indumento e rivelando la pelle secca e marrone della mummia sottostante. Sembrava un corpo di cartapesta. «Be’, è proprio per questo che abbiamo tirato fuori questo povero tizio», disse.

    Cosimo de’ Medici, o Cosimo il Vecchio come veniva talvolta chiamato, era stato uno degli esponenti più importanti dei Medici, dando lustro alla famiglia come nessun altro e garantendole il suo prestigioso posto nella Storia. Nato a Firenze nel 1389, era stato de facto il governante della città per una generazione. Aveva acceso la prima scintilla del Rinascimento italiano e aveva guadagnato una vera fortuna per la sua casata, l’equivalente di miliardi al giorno d’oggi. Alla morte, nel 1464, era stato insignito del titolo di Pater Patriae, padre della patria.

    Mackenzie passò un bisturi lungo il torso essiccato. La lama fendette la pelle senza il minimo sforzo, la fece scendere seguendo una linea diagonale fino a formare un’incisione a Y. Gli imbalsamatori avevano mostrato una notevole abilità. L’antico corpo era molto diverso da quello di Ippolito, il cui cadavere, seppur sepolto da minor tempo, si era ridotto a poco più di uno scheletro quasi polverizzato. Ma lì, sotto la pelle rinsecchita, si apriva una cavità arida: gli organi si erano rimpiccioliti fino a ridursi a una frazione esigua delle dimensioni originali, e non erano meno secchi della pelle.

    Mackenzie rimosse dei brani di ogni organo e posizionò i singoli campioni all’interno di provette, ciascuna con la propria etichetta, disponendole poi in una rastrelliera sul tavolo. Infilando la lama più a fondo, grattò via un piccolo pezzo di sterno e di una costola, depositando i frammenti all’interno di altri contenitori.

    Sporgendosi in avanti, Mackenzie esaminò la cavità all’interno del petto. «Strano», disse un attimo dopo. «A quanto sembra, c’è un oggetto estraneo riposto contro la spina dorsale. Non riesco a vederlo troppo bene. Edie, guarda tu».

    Lei spostò una lente d’ingrandimento con supporto sopra il cadavere e fissò l’area intorno al cuore rinsecchito. «Scorgo qualcosa, una superficie nera, penso che sia racchiusa negli strati superiori dell’epidermide. Di certo non sembra una formazione naturale».

    «Aiutatemi a girare il corpo di lato», disse Mackenzie.

    Edie e Jack Cartwright rivoltarono con delicatezza il cadavere, sollevando di qualche centimetro un lato. Non pesava quasi niente.

    «Solo un altro po’», disse Mackenzie, ficcando testa e spalle sotto l’antica mummia. Con precisione chirurgica, passò il bisturi lungo la spina dorsale, accertandosi di aver inserito la lama a una profondità minima, per non rischiare di danneggiare le vertebre. Poi si raddrizzò, sollevò un paio di pinzette metalliche che brillarono alla luce. Stringevano nella loro morsa un rettangolo sottile, nero, perfettamente liscio.

    Carlin Mackenzie era solo nella camera sepolcrale delle cappelle medicee. L’orologio digitale sulla scrivania diceva che erano quasi le nove di sera, ma non si sentiva affatto stanco, e di certo non aveva alcun desiderio di spegnere i computer e tornarsene a piedi al suo appartamento su via Cavour, poco lontano da lì.

    Era stato un giorno straordinario, forse il più straordinario della sua vita, e certamente il più notevole della sua quarantennale carriera di paleopatologo. La natura dell’artefatto che avevano scoperto dentro il corpo di Cosimo de’ Medici rimaneva un totale mistero; ma anche la sua semplice esistenza rappresentava un rompicapo. A parte il cataclisma naturale dell’alluvione del 1966, quei corpi non erano stati toccati sin da quando erano stati sepolti. Eppure, c’era quello strano oggetto rettangolare, nascosto nel tessuto epidermico secco di un uomo morto più di cinquecento anni prima.

    L’oggetto adesso risposava su una piastra di Petri vicino al computer di Mackenzie. Lui, Edie e Jack Cartwright lo avevano studiato con attenzione, pur non volendo correre rischi non necessari. Era completamente nero, una pietra simile a

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