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Prova di innocenza
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E-book286 pagine4 ore

Prova di innocenza

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Info su questo ebook

Un grande thriller

Un uomo a caccia della verità. Anche a costo di violare la legge...

Daniel Connell, ex avvocato in carriera della City, ora esercita in un piccolo ufficio della periferia. Quando un vecchio conoscente gli chiede aiuto per denunciare un abuso di potere da parte della polizia, Daniel pensa sia meglio lasciar perdere. Gli eventi però prenderanno una piega inaspettata, facendolo finire nel mirino dei poliziotti e della malavita locale. Non solo: presto dovrà fare i conti con i fantasmi del suo passato, ritrovandosi a seguire le tracce della madre, scomparsa quando lui era appena un neonato…

«Non ero un grande fan del thriller prima di leggere questo romanzo, ma ora lo sono. Non sono riuscito a chiudere il libro e non vedo l’ora che arrivi il prossimo. I personaggi sono convincenti, la narrazione ha buon ritmo, sempre.»

«Ben scritto, mi ha catturato fin dall’inizio. Molti romanzi di questo genere mancano di tridimensionalità. Non questo. Lo consiglio vivamente. Non vedo l’ora di leggere il prossimo.»
David Thorne
ha studiato letteratura inglese e poi ha lavorato come pubblicitario. Ha quindi cominciato a scrivere per la BBC e Channel Four. Sketch, gag. Quest’esperienza è stata preziosa per l’elaborazione dei suoi personaggi, che poi ha collocato in un genere completamente diverso, il thriller. Nel 2010 è arrivato nell’Essex, ed è lì che è ha trovato l’ispirazione per scrivere Prova di innocenza.
LinguaItaliano
Data di uscita6 feb 2017
ISBN9788822704818
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    Anteprima del libro

    Prova di innocenza - David Thorne

    1

    È una vecchia e logora battuta. Qual è la differenza tra Dio e un avvocato? L’uomo seduto di fronte a me dall’altra parte della scrivania non pare avere apprezzato il finale. Dio non pensa di essere un avvocato? No, il problema è un altro. Quell’uomo sembra credere che io sia la sua salvezza, una sorta di potente divinità vendicatrice sostenuta, e pertanto resa invincibile, da tutto il peso della legge. Ma in realtà non ho idea di cosa diavolo si aspetti da me.

    Si chiama Terry Campion e l’ho conosciuto per caso ai tempi della scuola. Suo padre era TJ Campion, un uomo sfuggente e tormentato che aveva una rivendita di auto usate sul lato nord della Southend Arterial Road prima che la sfortuna, o più verosimilmente un fiammifero al posto giusto, la incenerisse. Dopo l’incendio girò voce che avesse venduto una parte della sua società ad alcuni malavitosi locali che erano rimasti insoddisfatti dai risultati, molto inferiori alle promesse, di TJ. Queste storie erano soltanto pettegolezzi che circolavano nel parchetto quando ero bambino, alimentati dall’aspetto di Terry, un ragazzo schivo e solitario ma spavaldo, che reagiva agli scherzi dei compagni alzando subito le mani. Ricordo che una volta aveva difeso la reputazione della sua famiglia con i denti, lasciando in lacrime un ragazzo molto più grande di lui con i segni dei suoi morsi sullo stomaco. Il figlio di suo padre, dissero tutti. Ma lui dimostrò che almeno in questo si sbagliavano.

    «Mi hai sempre cercato», dice Terry. Ha un’aria disperata. Io l’ho cercato? Il Terry che ricordo era due anni indietro rispetto a me e molto alla periferia della mia coscienza. Con ogni probabilità è un’autoillusione, una sorta di persuasione emotiva subliminale per destare il mio entusiasmo per il suo caso. Perché, ora come ora, non sembro affatto entusiasta.

    «Non so da chi altri andare», dice. «Non ho nessuno».

    Ha ragione. Dopo tutto, non può andare dalla polizia. Lui è la polizia, una scelta di carriera che mi ha sempre sorpreso, ma immagino fosse un modo per sfuggire all’ombra dei misfatti del padre. E di questo, come chiunque altro, non posso che rendergliene merito.

    «Vorrei aiutarti», dico. Ed è vero. Lo vorrei proprio. «Ma con questi…», gli indico i CD che ha posato sulla scrivania, «non posso farci nulla».

    Quello che Terry ha portato con sé, e che ho appena guardato, sono riprese registrate cinque notti prima dalle videocamere a circuito chiuso della stazione di polizia di Gaynes Park. Gli avevano chiesto un favore e Terry aveva domandato al sergente di turno, che era in debito con lui per qualcosa che non ha specificato, di occuparsene al posto suo. Le registrazioni non erano state rubate ma copiate, ci aveva tenuto a precisare, temendo forse che mi sarei rifiutato di visionarle per qualche cavillo legale. Si vede che non mi conosce come crede.

    Considerata la sua educazione, la storia che mi ha raccontato mi sembra ancora più ingiusta. Alcuni di noi sono semplicemente nati sotto una cattiva stella, con la sfortuna che li perseguita senza sosta e una catastrofe che sembra incombere su di loro in ogni istante?

    Terry mi ha descritto il suo servizio nella polizia con l’aria disillusa e incredula di chi è appena sfuggito alle grinfie di una setta e non riesce a capacitarsi di come abbia potuto farsi abbindolare tanto facilmente. Ma dopo un esordio nella vita così incerto e confuso, non c’è da sorprendersi se si era arruolato nella polizia con tanto ardore e cieco abbandono; nella sua inequivocabile rettitudine e nel suo arrogante cameratismo trovava una certezza morale la cui esistenza lui non aveva mai sospettato. Il suo ingenuo entusiasmo e rassegnato conformismo non erano passati inosservati, e nel corso degli anni gli erano stati assegnati gli incarichi di cui nessun altro voleva occuparsi. Pattugliare quartieri degradati dove bambini selvaggi gli sputavano e pisciavano addosso dalle passerelle al terzo piano, irrompere in covi di drogati con l’odore di feci umane che ristagnava nelle stanze; lavori che soltanto un vero fervente avrebbe svolto senza lamentarsi. All’epoca accettava i suoi compiti senza fare domande, considerandoli un’opportunità per dare prova del proprio impegno. Adesso li vedeva per quello che erano: lo sfruttamento di uno stupido ingenuo.

    Sta di fatto che questa disponibilità ad andare dove nessun altro sarebbe andato spiega come una calda notte Terry si sia ritrovato a svolgere un compito «primario», che era però completamente al di fuori della sua portata: lavorando sotto copertura doveva contattare e poi acquistare un ingente quantitativo di marijuana da un turco con orribili bruciature sul dorso delle mani, il quale gestiva una rete di coltivazioni di cannabis nelle soffitte di case in affitto nell’Essex.

    L’uomo fu arrestato dalla squadra narcotici locale nel preciso istante in cui Terry stava caricando cinque chili di marijuana nel bagagliaio della sua auto della polizia senza contrassegno. Si era trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, quasi dovesse scontare qualche terribile crimine commesso nella sua precedente incarnazione. Non volendo compromettere la propria copertura, Terry alzò le mani e si fece arrestare, ammanettare e caricare sul sedile posteriore del furgone con le luci rotanti blu.

    «I problemi sono cominciati una volta arrivati alla stazione», mi ha detto Terry. «Uno degli ufficiali, Baldwin, era una specie di fanatico. Un autentico caso clinico. Parcheggiamo, mi tirano giù dal furgone e mi fanno sedere accanto al turco, che continua a sputare e mi guarda come se fossi la causa dei suoi guai. Come se l’avessi incastrato o infamato. Così decido di provare le mie credenziali, mostrare che non c’entro con la polizia, e faccio il duro con Baldwin. Niente di eccessivo, gli dico soltanto che voglio il mio avvocato, gli do dello stronzo. Ogni sbirro si sente dire di continuo queste cose. E poi tutto quello che ricordo è il suo gomito sulla mia gola».

    Baldwin colpì Terry con la noncuranza di chi allontana il muso di un cane dal tavolo su cui sta cenando. Ansimando, con i polsi ammanettati, Terry indietreggiò verso il furgone nel parcheggio della stazione di polizia. Cercò di dire qualcosa, di protestare che Baldwin non era autorizzato a comportarsi in quel modo, preparandosi a svelare la sua vera identità se le cose si fossero messe al peggio. Baldwin lanciò uno sguardo afflitto a un collega, il quale, visibilmente abituato a soddisfare senza battere ciglio i capricci del suo superiore, sfoderò il manganello, fece un passo indietro e colpì due volte Terry ai reni e poi alle ginocchia, facendolo crollare sull’asfalto.

    Erano ormai passati vent’anni da quando Terry doveva alzare le mani per difendersi al parchetto, ma il suo istinto di conservazione, a lungo affinato e in qualche modo rafforzato dai pericoli affrontati nel lavoro di poliziotto, era ancora ben desto. Attese che la sua mente si schiarisse, poi si sollevò puntellandosi su un braccio e prese a calci i poliziotti che lo circondavano. Loro inspirarono all’unisono, più divertiti che scioccati dal fatto che quell’ometto sull’asfalto potesse pensare di competere con il loro indiscusso potere. Qualcuno intonò ridacchiando il tema di Rocky. Erano rilassati e a proprio agio, come se stessero guardando un telefilm sul divano di casa.

    Poi, tossendo per riprendere fiato, Terry saltò sui talloni e, con entrambe le mani, allungò un pugno alle palle di Baldwin.

    Terry mi ha descritto il seguito come un «trattamento vecchio stile». Dopo aver visto le riprese delle videocamere a circuito chiuso, non posso impedirmi di pensare che stia dissimulando la propria rabbia. Lo presero a calci, facendolo crollare di nuovo a terra, per poi risollevarlo e tempestarlo di pugni, calpestarlo e picchiarlo con i manganelli sotto gli occhi del trafficante turco, che lo fissava come se gli fosse grato di non essere al suo posto. Le riprese erano buie e troppo sgranate per distinguere i particolari, l’azione era confusa e non si vedeva granché, tranne quando le luci del parcheggio illuminavano un pugno sollevato o una mano che impugnava un manganello. Ma davano un’idea di quello che era successo. E la faccia gonfia e tumefatta di Terry di fronte a me ne dava un’idea ancora migliore.

    «E allora?», gli ho chiesto. «Denunciali, falli radiare dalla polizia. Hai le prove, no? Fagliela pagare».

    Terry mi ha confessato che era quello che aveva pensato di fare mentre giaceva pesto e sanguinante sul pavimento della cella. Ma poi, dieci minuti o due ore dopo, non ricordava quanto tempo fosse passato, il sergente Baldwin entrò con due colleghi, gli stessi che l’avevano picchiato prima. Baldwin gli disse di avere ricevuto la conferma che Terry era quello che alla fine aveva sostenuto di essere, ovvero un fratello poliziotto, e si augurava che non nutrisse nessun rancore contro di loro.

    «Nessun rancore?», rispose Terry. «Mi avete rotto il naso».

    «Il problema», disse Baldwin, alzandosi, «è che pensavo ci stessi provando con me. E così ti ho rimesso in riga». Parlava con la sicurezza di un uomo convinto che il suo posto nel mondo sia inviolabile. «Un errore. Tutti possiamo sbagliare».

    Terry guardò Baldwin con un occhio solo, l’altro era già chiuso, e rimase colpito dalla sua assenza di rimorso, dalla sua incrollabile autostima, rendendosi conto che era un uomo estremamente pericoloso. Ma i lunghi anni in cui aveva dovuto badare a se stesso l’avevano reso poco incline a perdonare e dimenticare.

    «Vedremo allora cosa ne penserà il tribunale, testa di cazzo», disse Terry.

    Dopo aver inspirato a fondo, Baldwin lo fissò senza battere ciglio.

    «Meglio che lasci perdere», rispose.

    Mentre Terry era sul pavimento della cella, Baldwin aveva scavato nella sua vita privata, scoprendo che i suoi unici familiari ancora in vita erano la madre e una sorella, raccogliendo così tutte le informazioni che avrebbe potuto usare per fare leva su di lui.

    «Se aprirai bocca brucerò le loro fottute case e farò violentare tua sorella. Hai capito?».

    Terry, per quanto frastornato, sapeva quando il gioco era finito, quando doveva abbassare la cresta. Si sdraiò nel suo sangue e, chiuso l’unico occhio che si apriva, dopo un lungo sospiro disse: «Fottiti!».

    «Cosa vuoi che faccia?», chiedo a Terry. La sua famiglia è stata minacciata e lui ha subìto le percosse di un gruppo di poliziotti che non esitano a picchiare a sangue un sospetto, mettendo la loro autorità morale al di sopra della legge. Questo non è il mio territorio, come gli ho già detto prima, non c’è nulla che possa fare per lui.

    Terry deglutisce e scuote la testa. Non sa perché è venuto da me. È disperato, ridotto allo stremo, e forse pensa che, poiché sono un avvocato, potrò dargli delle risposte. Ma a quanto ne so, ce n’è soltanto una.

    «Se vuoi il mio consiglio, lascia perdere, dimenticatene. Ti hanno pestato. E allora?», gli chiedo inarcando le sopracciglia, sforzandomi di essere convincente. «Sei sopravvissuto». Ma guardando il suo corpo rigido sulla sedia, con i pugni stretti, so che non accetterà mai il mio consiglio.

    «Oppure presenta una denuncia, così faranno un’inchiesta interna».

    «Baldwin e i suoi compagni verrebbero sospesi e ci sarebbe un processo. Tutti saprebbero che sono stato io a denunciarli. Sarebbe la fine della mia carriera, e prima ancora di finire in tribunale Baldwin si vendicherebbe sulla mia famiglia».

    «E allora…?».

    Lo lascio riflettere. Terry sospira e curva le spalle. Se sperava di trovare una qualche magica soluzione nel decrepito ufficio di Daniel Connell & Nobody, adesso sa che non è così. Nessuna protezione, nessuna esposizione mediatica, nessuna gloria. Nessun avvocato militante pronto ad assumersi il rischio e a dare la caccia ai cattivi. Devi cavartela da solo, ragazzo mio, come hai sempre fatto. C’è un breve silenzio, poi un autobus che passa fa vibrare la finestra.

    «Conservali tu», dice indicando i CD. «Se mi succederà qualcosa, fanne l’uso che riterrai più giusto».

    L’uso più giusto? In verità non voglio essere nemmeno nello stesso fuso orario di quei CD. Non voglio avere nulla a che fare con loro, con questo caso, con il sergente Baldwin e i suoi colleghi fuori controllo o con l’infelice Terry Campion e le sventure che lo perseguitano. Ma guardandolo non riesco a impedirmi di rivedere il ragazzino ribelle e coraggioso, che nel parchetto difendeva il proprio spazio con le unghie e con i denti anche contro quelli più grandi e più forti di lui. E così annuisco e lo fisso negli occhi, cercando di dargli qualcosa, di fargli capire che c’è qualcuno in questa vita che dedica una frazione del proprio tempo al suo dramma.

    «Okay, consegnameli pure. Ma dammi retta, lascia perdere».

    Lui mi guarda. «D’accordo», dice. E so che non è vero.

    Esco presto dall’ufficio. Da quando ho visto Terry continuo a chiedermi come sia possibile che l’influsso di un padre possa plasmare le nostre vite anche a decenni di distanza, costituendo una tangibile minaccia alla nostra esistenza quotidiana. Il mio quartiere è una triste sfilata di negozi, pizzerie take away, agenzie immobiliari e magazzini di mobili a buon mercato alla periferia del groviglio di quartieri pendolari di Chadwell Heath, Collier Row, Seven Kings, Romford; fuori da Londra, fuori dalla società civilizzata, una caduta vertiginosa rispetto all’ufficio precedente, al sedicesimo piano nel cuore della City. Anche io, come Terry, ho i miei problemi. Chiudo la porta, controllo l’orologio e decido che è quasi ora di andare a trovare mio padre.

    2

    Lo trovo in giardino, già mezzo ubriaco, deve essere appena rientrato dal pub. È loquace e di buon umore, nel suo solito modo spiacevole, allungato su uno sdraio con il bicchiere posato sull’erba tosata di fresco.

    «Oh, guarda, c’è Perry Mason», dice indicando il tavolo da giardino sul quale ci sono una bottiglia di gin e una di acqua tonica. «Serviti pure. E servi anche il tuo vecchio padre», aggiunge porgendomi il suo bicchiere.

    Gli verso una dose meno generosa di quanto avrebbe voluto, a giudicare dallo sguardo che mi lancia riprendendo il bicchiere. «Hai dimenticato il gin, figliolo», dice.

    «Complimenti per il giardino».

    Per tutta risposta lui grugnisce. Per uno come mio padre che considera i sentimenti un’aberrazione, questa passione per i fiori è incongrua. Crisantemi, gerbere e rose, tante rose, nei vasi d’inverno e fuori d’estate. Ci sono ornamenti sparsi dappertutto, mulini a vento di falsa pietra, un porcospino che spinge una carriola carica di peonie. Nel giardino c’è un senso di pace guastato soltanto dalla presenza di mio padre. Mentre si rilassa sullo sdraio, sembra un ladro che si concede una breve pausa sul prato della vittima prima di rientrare in casa a finire il lavoro.

    Mio padre vive in una piccola casa tetra, la stessa nella quale sono cresciuto, intonacata di ghiaietto e con i pavimenti lastricati a mosaico irregolare e dove dagli anni Settanta non è cambiato nulla. È in periferia, solitaria, isolata, circondata da discariche di lavatrici e fattorie abbandonate, a una ventina di minuti a piedi dal centro. È una camminata che conosco bene perché mio padre dedicava più tempo al giardino che alla famiglia, e un passaggio in auto a scuola era fuori questione. Non pensava nemmeno ai soldi per la mia divisa scolastica. Dovevo stare alla larga da lui, soprattutto quando beveva. Scomparire.

    «Ricordi TJ Campion?», gli chiedo.

    «Chi?». Lo ricorda, ma da mio padre non si cava mai nulla facilmente.

    «Vendeva auto. Il suo negozio era bruciato e tutti avevano detto che era stato lui, per intascare i soldi dell’assicurazione».

    «Quello stronzo che ha avuto un infarto e che non riusciva a staccarsi dalla bottiglia? Sì, lo ricordo. Ci stai guadagnando qualcosa?».

    «Oggi ho incontrato suo figlio. Lo sapevi che fa il poliziotto?»

    «Oh, cazzo! È per questo che il padre ha avuto l’infarto!». Ride e tossisce convulsamente, sobbalzando sullo sdraio a ogni colpo di tosse con il gin tonic che gli cola sulla camicia aperta e sulla pancia. Mio padre non è molto alto, ma se avesse fatto il pugile sarebbe stato senza dubbio un peso massimo. I suoi avambracci sono massicci, e io li ho ereditati da lui. Due prosciutti coperti di tatuaggi che riesci a cingere a malapena con due mani. L’ho visto spesso ridere gettando la testa all’indietro ed emettendo un sonoro latrato, ma non ho mai visto i suoi occhi ridere. E ho visto gente uscire dai pub quando lui entrava.

    «E cosa mi dici di lui?»

    «Niente. È soltanto un volto del passato». Guardo gli attrezzi da giardinaggio sparsi a terra. «Posso fare qualcosa per te?»

    «Vestito in quel modo?».

    «Che cosa vuoi?».

    Indica con il capo un ceppo e una vanga dall’altra parte del giardino.

    «Non c’era un salice laggiù?»

    «Era malato. Ho dovuto tagliarlo».

    Attraverso il prato, raccolgo la vanga e mi metto a scavare attorno alle radici. Mentre lavoro, mio padre mi fissa senza battere ciglio, come un sorvegliante che si chiede quando usare la frusta. Le radici sono profonde e so che non riuscirò a toglierle tutte oggi. Mi sono ficcato in un’impresa impossibile; lavoro per una quarantina di minuti finché non mi vengono le vesciche sui polpastrelli e il ceppo non comincia a muoversi. Dalla parte dove ho scavato, le radici sono spezzate e si vede il bianco all’interno nei punti in cui ho affondato la vanga. Ci vorrebbe una scavatrice, ma mio padre non spenderebbe mai quei soldi e non permetterebbe che gli rovini il prato con i cingoli. So che non sarà soddisfatto, che avrà qualche commento da fare, ma sono abituato a queste situazioni disperate; testa vinco io, croce perdi tu, è sempre stato il suo gioco preferito. Quando avevo problemi a scuola, mi diceva che non voleva vedermi fare la sua stessa fine. La mia laurea in Legge lo indusse a pensare che fossi qualcosa di speciale, troppo in gamba per lui. E quando persi il mio lavoro nella City, rischiando di essere radiato dall’albo, non riuscì a crederci e si chiese cosa ci fosse in me che non andava dopo tutto quello che mi aveva dato.

    Conficco a terra la vanga e attraverso il prato per bere un bicchiere d’acqua. Mio padre sembra essersi addormentato, ma quando gli passo accanto, borbotta: «Ci rinunci già? Fannullone di merda».

    Mi siedo vicino a lui, con il sudore che mi cola dalla fronte. La camicia mi si è incollata alla schiena, i muscoli del dorso e delle braccia sono indolenziti. Mi passo il bicchiere sulla fronte. Mio padre rutta sonoramente, un rumore sordo e cavernoso, scoprendo i denti come un babbuino, poi si solleva puntellandosi con i gomiti e mi guarda. Ecco che ci siamo.

    «Hai qualche soldo?»

    «Quanto vuoi?»

    «Non mi bastano mai, dammi quello che puoi».

    Sapevo che me l’avrebbe chiesto e sapevo che si sarebbe preso tutto quello avevo, che glielo offrissi o meno, così gli passo il portafoglio dove prima di uscire ho infilato i soldi che posso allungargli, una somma che non si avvicina nemmeno lontanamente a quella che lui vorrebbe. Non ho mai scoperto come guadagna i pochi soldi che ha, ma so che le possibilità per un aspirante gangster stertoroso di sessantacinque anni sono limitate e che non si piegherà mai alla schiavitù di un lavoro regolare. Prende i duecento dollari, mi lancia un’occhiata e sogghigna.

    «Pensavo che la professione legale fosse una licenza per stampare soldi. Che cazzo ti succede, figliolo?».

    Non gli rispondo nemmeno, non servirebbe a nulla; per quanto lo riguarda, il mio imperdonabile peccato è quello di essere nato, il torto che non potrà mai essere raddrizzato. La sventura di mio padre, e naturalmente la mia, è stata la scomparsa di mia madre pochi giorni dopo avermi dato alla luce. Mi chiedo spesso come sarebbe stata la nostra vita se lei non se ne fosse andata e concludo che difficilmente avrebbe potuto essere peggiore.

    Restiamo seduti in silenzio, ascoltando il ronzio degli insetti. Sento il suo respiro pesante e mi chiedo come sta, se il suo cuore regge, se c’è qualche forza sulla Terra che potrebbe ucciderlo.

    «Sto parlando a te».

    Mi riscuoto dai miei pensieri. «Come?»

    «La nipote di Derek è scomparsa da quasi una settimana».

    «Sì. L’ho sentito».

    «La conosci?»

    «Non proprio. Non le ho mai parlato. Ci sono novità?».

    «Non ha nemmeno diciotto anni».

    La conosco di vista, una ragazzina dai capelli scuri, la parlantina sciolta e un sorriso disarmante. Le poche volte che l’ho incrociata mi è piaciuta istintivamente. Derek è un compagno di bevute di mio padre, qualcuno con cui condivide storie di guerra, storie dei tempi in cui erano, se non rispettati, almeno temuti.

    «Luridi pervertiti. Ho appena aperto il giornale. Lo sai cosa gli facevamo una volta?».

    Mi estranio, non voglio sapere nulla dei metodi creativi di mio padre per trattare i deviati sessuali, un soggetto che negli ultimi anni sembra appassionarlo sempre di più. C’è in lui tanta violenza repressa in cerca soltanto di una valvola di sfogo. Le sue riserve mi sorprendono e probabilmente mi colpirebbero ancora di più se non avessi convissuto così a lungo con loro.

    «Ci vediamo, papà».

    «La vanga è ancora in terra».

    «Chiamami se non ce la fai».

    «Hai detto se non ce la faccio?».

    Non rispondo, so per esperienza che ci

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