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Il prezzo del dovere
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E-book385 pagine5 ore

Il prezzo del dovere

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Info su questo ebook

La detective Alex Ricci viene richiamata ad Atlanta dal suo ex collega John Riley per seguire un caso di omicidio, che presto si rileva essere il primo di una serie. L’assassino, soprannominato il Cecchino, spara alle sue vittime un solo colpo dall’alto, mirando alla testa e alla gola. Non sarà facile trovare il nesso fra le vittime e il movente e toccherà ad Alex tentare di entrare nel gioco apparentemente senza regole dell’assassino per stilarne il profilo, facendosi aiutare dallo psichiatra della polizia, fino a giungere a una soluzione sorprendente e inaspettata. Romanzo dal ritmo incalzante, denso di azione, ma non privo di momenti di riflessione sul significato della giustizia e sul difficile dovere di essere poliziotti.
LinguaItaliano
Data di uscita11 giu 2021
ISBN9788855391276
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    Anteprima del libro

    Il prezzo del dovere - Stefania Napoli

    John.

    CAPITOLO 1

    Dall’inizio

    Quando sono tornata a Gilroy, California, dopo aver risolto il caso dei religiosi assassinati in Connecticut, sono entrata nel mio appartamento all’8200 di Kern Avenue, ho depositato la valigia all’ingresso, acceso la plafoniera arancione e girovagato apaticamente per gli ottantadue metri quadri¹, balcone incluso, che condivido con il mio scatenato barboncino nano Charlie.

    Ho osservato gli oggetti che avevo accumulato negli anni, il divano a penisola, l’ingombrante specchiera in ferro battuto a effetto slanciante, i vestiti che invadevano il mio armadio a quattro ante e ho scoperto che erano solo cose, niente di più.

    Questa inaspettata consapevolezza ha aperto la strada a un’altra, perfino più importante: non appartenevo più a questo posto o forse non gli ero mai davvero appartenuta.

    Ho comunque cercato testardamente di riprendere la mia vita da dove l’avevo sospesa, nella speranza di poter recuperare la confortante normalità sapientemente modellata sulle mie debolezze, ma si è rivelato un inutile spreco di energie.

    Quindi, una mattina di inizio febbraio ho aperto gli occhi e ho deciso che se la mia esistenza doveva avere un senso ero solo io a poterglielo attribuire, nessun altro. Nemmeno John Riley, il detective che ho affiancato nelle indagini sul ‘Ladro di bambine’ e il ‘Cross killer’, il mio mentore, la mia guida, di cui sono innamorata da oltre un anno, non mi è ancora chiaro se ricambiata o meno.

    Le parole che ha pronunciato di fronte al cadavere sfigurato di Gerry Fitch Junior nelle catacombe di Holy Land sono rimbombate nella mia testa per settimane.

    Il mondo fa schifo. È pieno di gente egoista, menefreghista, bugiarda, senza anima, che venderebbe la propria madre pur di ottenere quello che vuole. Per questo c’è bisogno di persone che hanno ancora il senso della giustizia, che provano ancora orrore nel vedere tutto questo, che non ci si abituano mai.

    Sì, queste considerazioni hanno inciso sulle mie decisioni successive, mi hanno resa consapevole della mia ferrea intenzione di mantenere quell’umanità e quella sensibilità che mi rendono diversa da chi sfrutta le fragilità altrui, da coloro che non sanno più distinguere la differenza tra bene e male, e per cui gli altri contano meno di niente.

    Ecco perché ho lasciato il mio lavoro di insegnante di danza e Pilates, il mio accogliente trilocale e le pochissime persone a cui ero affezionata qui a Gilroy e mi sono trasferita ad Atlanta per tornare a fare il poliziotto.

    Penserete che questa scelta sia stata condizionata dai miei sentimenti per Riley, altrimenti perché non andare a San Francisco, Los Angeles, New York o una qualsiasi altra città?

    La risposta è semplice in realtà. È ad Atlanta che mi sono scontrata per la prima volta con la morte, il terrore, la malvagità e perfino l’amore. È qui che ho iniziato a prendere coscienza di chi sono veramente, ad affrontare le mie paure, a scoprire di voler e poter essere un bravo...

    E va bene, avete ragione, sono qui per lui.

    Sembra però che John Riley e io ci scambiamo effusioni soltanto in concomitanza di strazianti addii o eccitanti benvenuto, e solamente una volta l’anno. Infatti, dopo il bacio con cui mi ha accolta al mio arrivo in città non ci siamo più visti per giorni, fino a quella sera in cui mi ha fatto tutto un discorso sui sentimenti che...

    No, aspettate, ve lo racconto perbene, partendo dall’inizio.

    Come sapete, mi ero dimessa dalla polizia in seguito al tragico epilogo del caso del ‘Ladro di bambine’, ma un anno dopo Riley mi ha scovata a Gilroy, la placida cittadina in cui abitavo dal lontano 2009. Perfettamente consapevole del potere che esercita su di me, mi ha subdolamente reclutata nell’indagine riguardante un serial killer di suore e preti cattolici, spacciando la mia adesione per una decisione autonoma non viziata dal mio solito infantile sentimentalismo e specificando che a caso chiuso avrei potuto rientrare in servizio a Gilroy oppure ad Atlanta. E così ho fatto.

    Sarò sincera, non è andata esattamente come mi ero immaginata.

    Il Tenente Harold Elija Jenkins, ex partner di Riley e ora alla guida del Major Crimes Section² al posto del suo molto più simpatico predecessore Mike Collins, mi ha presa immediatamente in antipatia.

    Dopo avermi sottoposta a miriadi di inutili test attitudinali teorici e pratici, ha deciso che prima di potermi definire un vero poliziotto mi spettava ancora un po’ di gavetta. Mi ha rispedita ad addestrarmi a sparare al poligono di tiro assieme agli allievi ventenni della Atlanta Training Academy, supervisionata dalla coriacea Maggiore Jacqueline Villaroel. Da qui, il mio secondo inglorioso soprannome, crusted rookie, la recluta stagionata.

    Non sono mai stata brava con le armi da fuoco, è un mio limite, lo riconosco, però il nostro istruttore, il Sergente Jonathan Herbert Fincher II, non era di grande aiuto. Durante le esercitazioni con i bersagli a scomparsa raffiguranti l’anziana signora, il malvivente armato e la donna che spinge la carrozzina, il Sergente si divertiva ad accendere e spegnere le luci del tunnel di tiro, creando un effetto strobo da discoteca che mi distraeva moltissimo.

    Al termine della mia prima settimana di Accademia avevo ucciso almeno otto volte la vecchietta, gambizzato la mamma e mancato sempre il cattivo con la pistola, e trascorrevo più tempo a terra a fare flessioni di punizione che in piedi a sparare. Le mie braccia ne hanno guadagnato in tonicità, ma la mia mira è rimasta pessima.

    Probabilmente è questo il motivo che ha spinto il Maggiore Villaroel a suggerire al Capitano Adam F. Turner, vice capo della polizia di Atlanta e responsabile del Criminal Investigation Division in cui rientra la mia Unità, di iscrivermi al corso di perfezionamento dell’FBI in Scienze comportamentali e forensi, al termine del quale potrò finalmente essere ammessa a pieno titolo nel Major Crimes. Almeno spero.

    Forse mal tollerando la mia presenza nel suo selezionatissimo team composto dalla risoluta Judith/Jodie Baker, dal vanesio ex marine Peter Harris, e dal bonario e più anziano senior detective Gregory Moore, il Tenente Jenkins nel frattempo mi ha affiancata agli agenti che si occupano di reati comuni, furti, risse, violenze domestiche e via dicendo.

    Il mio attuale partner si chiama Emanuel Vance, ha all’incirca la mia età, è afroamericano e piuttosto in carne, come buona parte dei poliziotti qui. È un bravo ragazzo, molto preciso nel suo lavoro, però ha la pessima abitudine di darmi continuamente ordini: ‘Ricci, fai questo, Ricci, non dire quest’altro’. Un po’ come si comportava John Riley, ma in modo molto meno affascinante.

    Ed eccoci al discorso di cui vi accennavo, quello sui sentimenti.

    Succedeva una decina di giorni dopo il mio arrivo ad Atlanta, mentre finivo di scrivere la relazione su uno scippo a Grant Park.

    Riley si è fermato davanti alla ex postazione del Tenente Jenkins che mi è consentito occupare nell’open space dell’MCS³ e ha avanzato una proposta inaspettata: «Gilroy, ceniamo insieme? Vorrei parlarti».

    Ho mollato il rapporto a metà e sono schizzata in piedi entusiasta ed emozionatissima, era da tanto che aspettavo di stare sola con lui.

    Siamo andati al 255 Tapas Lounge, un bar specializzato chiaramente in tapas spagnole e ci siamo seduti a un tavolino addossato alla parete a mattoni, supervisionato dalla gigantografia del cantante Prince.

    Abbiamo ordinato una bottiglia di Pinot grigio da accompagnare a un piatto di calamari fritti, chopitos e patate saltate alla paprika, di cui non ho potuto ingoiare nemmeno un boccone. Riuscivo solo a contemplare il perfetto profilo di Riley alla luce ambrata della lampada a sospensione sopra le nostre teste.

    Il poliziotto ha strofinato la mano unta di olio contro la gamba dei jeans grigi, si è sporto verso di me e l’ha posata sulla mia: «È da un po’ che cercavo di dirtelo, poi succedeva sempre qualche casino e non ci riuscivo, ma credo che tu abbia capito. Provo per te quello che tu senti per me e avevi ragione, non è semplice attrazione. Sono innamorato di te, Gilroy, della tua caparbietà, del tuo senso di giustizia, perfino delle enormi puttanate che combini».

    In quel momento ho capito che cos’è la felicità. È qualcosa che ti prende il cuore, te lo scalda, e quel calore si diffonde a tutti gli altri organi, al corpo intero. E vorresti alzarti in piedi, arrampicarti sul tavolo del locale e metterti a urlare che la vita è bellissima!

    Poi, però, John Riley ha tolto la mano dalla mia e mi ha ricordato che la felicità è un attimo: «Dalle scelte che compiamo e dal nostro lavoro dipende non solo la nostra vita, ma anche quella di chi proteggiamo. Stare insieme sarebbe un grosso errore, senza contare che sono sposato».

    «Allora, quel bacio?!»

    «Era solo un bacio, Gilroy, niente di più.»

    Solo un bacio... Ma non ho replicato e Riley ha sferrato il colpo di grazia: «Non posso e non voglio essere più di un collega e un amico per te. Dovevo chiarirlo una volta per tutte».

    Ero tentata di dirgli che avrei lasciato la polizia, che avrei trovato un impiego qualsiasi, che sarei cambiata come potevo pur di stare con lui, ma ho ripromesso a me stessa che rinunciare a ciò che sono per un’altra persona è un errore che non avrei commesso mai più.

    Quindi ho ingoiato il familiare nodo alla gola che mi si è bloccato nello stomaco, ho sorriso e ho risposto che se questa era la sua decisione non potevo che rispettarla.

    Mi sono alzata signorilmente in piedi e ho escogitato un paio di valide scuse per andarmene, Charlie a casa in attesa della sua passeggiata serale, e un mio improvviso e smoderato interesse per le dispense del corso dell’FBI che sarebbe iniziato tre giorni dopo.

    Riley ovviamente non mi ha creduto, ha insinuato che stavo scappando, come mio solito, ha dichiarato di tenere moltissimo a me e che potrò sempre contare su di lui. Insomma, le solite favole che ti racconta un uomo dopo averti spezzato il cuore.

    Gli ho sorriso di nuovo, ho infilato la giacca e afferrato la mia borsa, e ho precisato che non credo di poter essere una sua amica, quindi sono uscita dal ristorante.

    Ho pianto guidando fino al mio claustrofobico monolocale di 37 metri quadrati in affitto nel periferico quartiere di East Point, precisamente al 3200 di Desert Drive. E vi assicuro che il nome della via è azzeccatissimo.

    Mi sono sdraiata sul letto in un angolo del living bedroom che ospita salotto, camera da letto e cucina, e ho deciso di ripristinare il mio salubre distanziamento emotivo. Da quel momento in poi mi sarei dedicata esclusivamente a me stessa, al mio lavoro, al mio cane e a un consolatorio shopping compulsivo.

    È martedì 14 marzo, sono passate circa due settimane da quella sera e da quella risoluta decisione.

    Mi sveglio come al solito alle 7.45, infilo i leggings svasati neri e il mio nuovissimo maglioncino sportivo verde mirto, ingurgito un caffè e un ipercalorico muffin al triplo cioccolato.

    Ingaggio la quotidiana battaglia con Charlie per costringerlo a indossare il cappottino tricot blu elettrico e la pettorina, ma ho la meglio sulla sua ostinata propensione alla libertà e lo trascino fuori casa.

    Nonostante il sole affacciato nel cielo azzurro polvere, stamattina l’aria è pungente e umida, e la temperatura non supera i due gradi centigradi.

    Scorto velocemente il mio barboncino nello squallido giardinetto adiacente il mio complesso di appartamenti pomposamente denominato Regency Park e busso al portoncino della casa singola di fronte alla mia abitazione, occupata da frau Adelheid Dietrich, la granitica pensionata tedesca che si prende cura di Charlie durante il giorno.

    La informo che ripasso stasera verso le 6 e 30, quindi mi affretto alla mia Toyota Aygo rossa parcheggiata sul lato più deserto della Desert Drive. Mezz’ora più tardi, fermo l’auto di fronte al 2635 di Century Parkway North East, la sede dell’FBI, pronta per l’ultima lezione del noiosissimo Survival Skills Training⁴.

    La mia non idilliaca relazione con gli spazi ristretti mi induce a optare per le sette rampe di scale che salgo di volata fino all’aula affollata e afosa in cui si svolge il corso. Non trovo posto nelle prime file come speravo e sono costretta a sedermi al banco in fondo alla stanza.

    Il docente di oggi è l’agente speciale A. J. Burton, un uomo robusto e dotato di un timbro vocale soporifero. Fa il suo fiacco ingresso nella classe appena dopo di me e saluta la platea con un gutturale: «Buongiorno, signori».

    Quindi si dirige alla cattedra e dà inizio alla lezione ‘Behavioral Science Part I, Preparazione mentale e reattività nell’approccio con un assassino’: «Come prima cosa, un agente deve rispondere a due interrogativi: perché e in che modo i criminali commettono omicidi e reati. La motivazione, infatti, è il primo passo nella comprensione del comportamento e se capiamo il bisogno che stimola tale condotta criminale, riusciremo a stabilire la migliore tattica per...»

    Mi annoio. Vorrei essere là fuori a cercare questa gente, non qui tra ventidue agenti federali in giacca e cravatta a immaginare cosa spinga una persona a uccidere.

    Inizio a fare qualcosa di veramente utile, apro il mio quaderno e preparo la lista della spesa di stasera, fingendo di prendere appunti. Devo assolutamente ricordarmi l’aceto per l’insalata, è già due giorni che me lo dimentico e ho quasi finito il tonno. Ah, e le uova, così quando rientro, mi cucino...

    «Sì, detective?» la voce atonale dell’agente speciale Burton mi distrae dalla mia lista.

    John Riley è sulla soglia della sala riunioni: «Chiedo scusa, agente Burton, devo parlare con il detective Ricci». Mi indica con un cenno del mento appuntito e adornato dal pizzetto ad ancora sale e pepe: «Gilroy, prendi le tue cose. Ti aspetto fuori».

    Scatto in piedi, infilo il quaderno nella mia capiente shopping bag rossa, e agguanto lo scaldacollo e il piumino nero. Mi scuso con l’istruttore al quale la mia presenza non fa né caldo né freddo e raggiungo nel corridoio il poliziotto che sta pigiando con impazienza il tasto sulla pulsantiera dell’ascensore.

    Indico i gradini in grès che si dipanano di fianco: «Le dispiace se usiamo le scale?»

    «Sette piani? Perché?»

    «Non mi sento molto a mio agio nella cabina di un ascensore.»

    Mi guadagno un’occhiata di insofferenza e il totale disinteresse per la mia lieve ma tenace claustrofobia. Le porte in acciaio dell’ascensore si aprono, Riley si sposta di lato per lasciar uscire due agenti, poi mi invita a entrare con un gesto della mano brusco quanto il suo tono: «Cammina».

    Entra anche lui, preme il tasto 0 e mi spiega il motivo della sua inaspettata visita: «C’è stato un altro omicidio, zona Nord-Est della città. Medesima dinamica dei precedenti, un colpo sparato a distanza. La vittima questa volta è una madre che portava a spasso il figlio. Il bastardo non ha centrato il bambino, per fortuna. Tre omicidi, stessa tipologia, nessun movente. Prima che si arrivi al quarto cadavere ho bisogno di lavorarci con te».

    «Ma il Tenente Jenkins non vuole che...»

    «Me ne sbatto di quello che blatera quell’idiota, stai solo perdendo tempo. Dovrai dire addio al tuo inutile corso di formazione, Gilroy, che comunque nemmeno ti interessa. Si vedeva lontano un miglio che ti stavi facendo i cazzi tuoi.»

    «Non è vero! Ero attentissima!»

    «Ah, sì? Mostrami gli appunti.»

    «Io non... non ne ho presi.»

    «Allora cosa scrivevi quando sono entrato nell’aula?» Non rispondo, e John Riley sorride canzonatorio e proclama: «Non hai bisogno di addestramento su come affrontare un assassino, ma di un corso che ti insegni a bluffare, non sei proprio capace».

    Le porte dell’ascensore finalmente si aprono, lo seguo rapida nell’atrio e fuori dall’edificio, e ribatto copiando il suo tono ironico: «Terrebbe lei le lezioni?»

    «Vedi, Gilroy, si dà il caso che io sia un pallista nato. Avevo 6 anni e mezzo quando ho rifilato la mia prima fandonia a mia madre, e non mi ha ancora beccato. Sì, avrei un po’ di cose da insegnarti.»

    Rido, e lo amo di più a ogni scherzosa provocazione, a ogni sorriso che illumina il suo viso a diamante, a ogni grammo di energia che mi regala.

    Con il telecomandino, il poliziotto sblocca le serrature della sua Ford Impala bianca parcheggiata con noncuranza di sbieco in quadrupla fila, che ostruisce il passaggio ad almeno altre quattro berline nere dell’FBI.

    Spalanca lo sportello del lato passeggero e si dirige svelto a quello del guidatore: «Il figlio di puttana ha sparato tra la North e Argonne Avenue vicino a un donut shop. Non sarà un bello spettacolo».

    CAPITOLO 2

    Un attimo

    Tutto era iniziato il 7 febbraio scorso come un normale caso di omicidio. Una parrucchiera italo-americana ventottenne, Ariel De Angelo, è stata assassinata con un colpo d’arma da fuoco alla schiena appena fuori da Revolution Hair, il salone in cui lavorava a Virginia-Highlands, quartiere a Nord-Ovest della città.

    Ariel aveva dei conti in sospeso con uno strozzino e le indagini si sono orientate in quella direzione, ma meno di due settimane dopo, il 20 febbraio, il cadavere del professor Adrian Ruben Álvarez, 52 anni, è stato rinvenuto nel giardino del privatissimo Morris Brown College in cui insegnava Filosofia. Anche il professore, come la parrucchiera, è stato centrato a distanza con un fucile di precisione. Questo secondo delitto ha dato il via ufficiale all’indagine denominata ‘Il Cecchino’.

    Sono le 11 passate da poco quando arriviamo sul luogo del terzo omicidio. Sei agenti di polizia del Distretto di zona, un’ambulanza e numerosi curiosi sono fermi a pochi metri di distanza da un Krispy Kreme, franchising specializzato nella vendita delle stomachevoli ciambelle glassate tanto amate dagli americani e concorrente del più famoso Dunkin Donut.

    Riley parcheggia di fronte al locale, osserva la gigantesca insegna luminosa e sentenzia: «I donuts più di merda di tutta la città».

    Spegne il motore, appendiamo al collo il distintivo e scendiamo dall’auto. Attraversiamo la strada di corsa, superiamo il nastro giallo che delimita la scena del crimine e raggiungiamo un collega di circa 40 anni, sul cui viso latteo si affollano centinaia di lentiggini, particolarmente concentrate sul naso sottile. Il badge dorato appuntato sul bavero della divisa nera lo identifica come ‘Sergente F. D. O’Donnell’.

    Indica un telo bianco sporco di sangue all’altezza della testa adagiato sull’asfalto e ci presenta la vittima: «Susan Renee Womack Eader, 32 anni. Era andata a bere un caffè da Krispy in compagnia di un’amica, Emily Joanne Falk». Accenna a una donna ferma poco più avanti sul marciapiede, che tiene per mano una bambina di 3 o 4 anni, e con l’altra spinge avanti e indietro un passeggino occupato da un bimbo più piccolo, poi riprende: «Si stavano recando in un negozio di abbigliamento sulla Ponce, la vittima si è fermata per sistemare la borsa con i pannolini nel cestello portaoggetti del passeggino e un attimo dopo l’amica l’ha vista accasciarsi a terra. Ha pensato a un malore, non che le avessero sparato».

    John Riley scandaglia i pochi edifici affacciati sul viale con i grandi occhi scuri occultati dai Ray Ban Aviator a specchio: «Da dove sono partiti i colpi?»

    «Non lo sappiamo, i miei uomini stanno setacciando la zona e tutti i palazzi nei dintorni, siamo in attesa dei colleghi della Scientifica per i rilievi. Il colpo l’ha presa al collo, da dietro, angolo discendente, così sostiene il Dottor Reynolds che ha eseguito l’esame autoptico preliminare.» Il Sergente indica un uomo in completo blu scuro sulla cui testa glabra si catarifrangono gli incerti raggi del sole, impegnato in una discussione con altri colleghi del Distretto 5.

    Riley sposta l’attenzione dal coroner ai passanti che sbirciano irrispettosamente in direzione della salma: «Qualcuno ha notato niente, Sergente?»

    «No, detective, abbiamo interrogato tutti quelli che erano nei paraggi al momento del crimine, compresi i dipendenti di Krispy, nessuno si è reso conto di nulla.» O’Donnell si avvicina e abbassa il tono: «Riley, con i miei ragazzi pensavamo, e se tutto questo casino non fosse opera di un maledetto maniaco, ma di terroristi?»

    «No, i terroristi avrebbero provocato una strage e non sarebbero scappati facendo perdere le loro tracce, si sarebbero immolati.»

    «Quindi lei conferma che si tratta del Cecchino?»

    «Io non confermo un cavolo finché non ne so di più. Possiamo vedere la vittima?»

    «Certo, venite.» Il Sergente O’Donnell ci precede fino al lenzuolo che ricalca la forma del cadavere nascosto sotto, si accuccia e solleva il telo bianco.

    Le iridi ambrate della giovane donna bionda sono opache e spente come quelle di una trota non molto fresca esposta al banco della pescheria. Le labbra truccate con un discreto rossetto mat rame sono semiaperte e al posto della trachea c’è un buco da cui si intravedono ossa, cartilagini e qualche brandello di carne.

    Noto solo in un secondo momento l’orecchio sinistro per terra, accanto all’elegante Birkin bag rossa di Hermès.

    Riley si guarda attorno e domanda: «Bossoli?»

    «Non ne abbiamo trovati.»

    «Collegamenti con le prime due vittime, la parrucchiera di Virginia-Highlands e il professore di Filosofia del Morris?»

    «Non ci risulta. Stiamo aspettando di visionare le registrazioni delle videocamere esterne del negozio e della strada, però se ha sparato da lontano come pensiamo sarà difficile che lo abbiano ripreso.»

    «Sì, ma i video potrebbero esserci utili per stabilire dove era appostato il bastardo, cercare impronte o tracce e tentare di identificare un modus operandi

    Il Sergente F. D. O’Donnell insiste: «Quindi è il Cecchino».

    Ma John Riley vanifica anche il secondo tentativo: «Mi mandi via e-mail i resoconti delle registrazioni una volta che le avete esaminate. Gilroy, io do un’occhiata in giro, tu interroga l’amica della vittima» e si avvia verso la rumorosa Ponce de Leon Avenue che incrocia la ben più pacifica Argonne Avenue.

    Estraggo dalla mia borsa il quaderno degli appunti e una penna, e raggiungo Emily Falk sul marciapiede accanto a una quercia rossa sui cui rami spuntano caute foglioline lobate: «Buongiorno, signora Falk, sono il detective Ricci, avrei bisogno di rivolgerle alcune domande».

    La donna indica il gruppo di agenti del Distretto 5: «Ho già riferito tutto quello che so ai suoi colleghi».

    «Le dispiacerebbe ripeterlo anche a me?»

    «E va bene. Suz e io stavamo aspettando l’apertura di Coco+Mischa e ci siamo fermate da Krispy Kreme per un caffè e un donut. Siamo uscite dal locale verso le 9.30, io ero un po’ più avanti di Suz, mi sono girata e lei stava cadendo a terra. Ho afferrato il passeggino di Timothy prima che rotolasse lungo la Ponce Avenue, ma non ho visto o sentito niente.»

    «Neppure un sibilo, il rumore dello sparo o qualcosa che l’abbia indotta a voltarsi verso la sua amica?»

    «Forse, non sono sicura, è stato tutto velocissimo.»

    «Sa se qualcuno covasse del rancore nei confronti della signora Eader o desiderasse la sua morte?»

    «No, Suz è benvoluta da tutti. Cioè, era...»

    «Potevano voler colpire lei, magari?»

    «Ma cosa dice, detective?! No, nemmeno io ho nemici.»

    «Lei e la signora Eader vi conoscevate da molto?»

    «Circa dodici anni, ci siamo laureate in Storia dell’Arte all’Emory University nel 2009.»

    «La signora Eader lavorava?»

    «No, Suz si sposò giovanissima ad appena 24 anni e decise di dedicarsi alla casa e alla famiglia.»

    Sbircio all’interno del passeggino in cui Timothy Eader sta sonnecchiando pacifico, beato lui: «La signora Eader aveva altri figli?»

    «No. Tim è arrivato dopo numerosi tentativi. Suz faticava a restare incinta, era molto turbata per questo, ma poi un anno e mezzo fa è arrivato lui, Susan stravedeva per Timothy.»

    «E il signor Eader?»

    «Non esiste padre più fiero e amorevole di David.»

    «I rapporti tra la signora Eader e suo marito com’erano?»

    «Ottimi. A Natale Suz ha raggiunto David a Boston dove lavora per stare un po’ insieme, mi sono occupata io di Tim fino al suo rientro il 2 gennaio. Certo, avevano i loro screzi ogni tanto, ma David non c’entra, se è questo che sta insinuando.»

    «Non sto insinuando niente, signora Falk, sto solo facendo il mio lavoro.»

    «Ha ragione, mi scusi, sono sconvolta.» Emily Falk sospira profondamente e io cerco un collegamento con gli omicidi precedenti: «Lei e la signora Eader frequentavate lo stesso salone di parrucchiera?»

    «Sì, Toni&Guy, a Home Park.»

    «Non siete mai state da Revolution Hair a Virginia-Highlands, magari per cambiare un po’?»

    «No, ci trovavamo bene da Toni&Guy. Lo staff è fantastico.»

    «Ha mai sentito nominare una parrucchiera di nome Ariel De Angelo?»

    «No.»

    «Morris Brown College, le dice qualcosa?»

    «È una scuola privata in città, ma non ci sono mai stata e che io sappia nemmeno Suz. Ho sentito che uno dei professori di quel college è stato assassinato qualche settimana fa.»

    «Sì, esatto, Adrian Álvarez.»

    «Pensate che... oh mio Dio, Susan è stata uccisa dal Cecchino?!» Si guarda attorno spaventata e scannerizza gli edifici circostanti con i suoi occhi verdi.

    Magari Emily Falk possedesse poteri paranormali, tipo la vista a raggi X, e ci aiutasse a capire almeno dove era appostato l’assassino...

    Ma ne dubito, quindi indico la borsa griffata di Susan Eader sull’asfalto accanto al suo orecchio mozzato: «La signora Eader era benestante?»

    «Sì, David guadagna bene, è un Business support manager per la Bank of America e Suz proviene da una famiglia agiata. Mio Dio, suo padre e sua madre ne moriranno, Susan era la loro unica figlia. È terribile.»

    «Sì, è davvero terribile. Perché il signor Eader vive così lontano dalla sua famiglia? Il bambino è ancora molto piccolo.»

    «È temporaneo, la filiale di Boston ha aperto lo scorso agosto e David è dovuto partire per formare delle nuove risorse. Sarebbe tornato ad Atlanta entro giugno, così mi ha spiegato Suz.»

    «Lei lavora, signora Falk?»

    «No, con la mia laurea è difficile trovare un impiego e poi con la recessione...»

    Osservo il foulard di seta salmone e panna di Gucci che avvolge il collo sottile della donna e la sua tote marrone Luis Vuitton appesa al manubrio del passeggino: «Non mi sembra che lei risenta particolarmente della crisi economica, signora Falk».

    Lei replica gelida: «Sono fortunata, detective, godo di un confortevole tenore di vita, che c’è di male?»

    «Assolutamente niente. Dove abita?»

    «Come ho già comunicato ai suoi colleghi, vivo al 545 di Chateau Drive ad Argonne Forest.»

    Segno l’indirizzo sul quaderno sotto la voce ’tonno’ della mia lista della spesa: «La signora Eader, invece, dove viveva?»

    «Poco distante, al 3230 di

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