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Un perfetto sconosciuto
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E-book263 pagine3 ore

Un perfetto sconosciuto

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Neighbors Series

Quando si lotta per ciò che si desidera bisogna accettare il rischio di farsi del male

Duncan Bradford è esasperato dalla sua nuova vicina Necie. È goffa, rumorosa ed è letteralmente un magnete per i disastri. Per più di un anno e mezzo l’ha evitata con tutte le sue forze, perché ogni volta che lei si avvicina… Duncan finisce per farsi un male cane. Probabilmente porta addirittura sfortuna! Ma quando il destino decide di imporgli di passare del tempo con lei, Duncan è costretto a rivedere tutta la sua antipatia e a guardare Necie sotto una luce del tutto nuova. Forse è il momento di cominciare a comportarsi da vero Bradford e lottare per quello che desidera davvero. Anche se c’è il rischio di ferirsi.
R.L. Mathewson
è nata e cresciuta nel Massachusetts. È nota per il suo senso dell’umorismo e la capacità di creare personaggi realistici in cui i lettori si immedesimano facilmente. Al momento ha diverse serie paranormali e rosa in corso di pubblicazione tra cui la serie Neighbors. È mamma single di due bambini che le danno molto da fare e si divertono a spaventarla a morte coi loro scherzi. Ha una dipendenza da romanzi d’amore e cioccolata calda e spesso combina le due cose.
LinguaItaliano
Data di uscita10 nov 2017
ISBN9788822708847
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    Anteprima del libro

    Un perfetto sconosciuto - R.L. Mathewson

    Prologo

    «Duncan, stai rientrando adesso?», chiese Jodi e, per quanto avrebbe adorato dire che se ne stava andando a quella donna palesemente incinta che saltellava ansiosa nell’atrio da un piedino all’altro mentre si stringeva le braccia intorno alla pancia (che, giurava, le era cresciuta dall’ultima volta che l’aveva vista la mattina precedente), mentre lanciava un’altra occhiata nervosa da sopra la spalla, non riuscì a dirle una bugia.

    Però, Dio, quanto gli sarebbe piaciuto essere in grado di mentirle proprio in quel momento.

    «Sì», disse sommessamente, facendo una smorfia quando lo sforzo di parlare gli procurò un dolore violento che gli andava su e giù per la gola.

    «Pensi di potermi dare una mano con Danny?», chiese lei con un sorrisetto nervoso, chiaramente imbarazzata di dovergli chiedere aiuto alle tre del mattino, anche se era lì per quello, no?

    Preferì non parlare, perché Duncan non era sicuro di riuscirci senza imprecare per il dolore o senza avere un altro attacco di tosse che gli avrebbe fatto cambiare idea e accettare l’offerta del tenente di farsi vedere al pronto soccorso per implorare che mettessero fine alle sue fottute sofferenze. Desiderando di poter fare in maniera diversa tante cose, aprì la porta del grosso locale lavanderia che stava fuori dall’atrio posteriore vicino alla cucina e gettò velocemente tutto ciò che era pieno di fumo e di fuliggine, finché non rimase lì in piedi con addosso solo i boxer.

    Se si fosse trattato di qualsiasi altra donna non avrebbe mai considerato la possibilità di spogliarsi davanti a lei, ma si trattava di Jodi, la sua coinquilina, una donna comprensiva che probabilmente lo avrebbe ucciso con le sue manine delicate se avesse indossato dei vestiti pieni di fumo in casa sua, di nuovo. L’ultima volta era bastata a lui per superare l’imbarazzo e a lei per sentirsi abbastanza a suo agio da minacciare di tagliargli le palle nel caso in cui avesse fatto puzzare di nuovo la casa come se andasse a fuoco.

    Non che potesse biasimarla, dato che veramente non poteva. Non c’era quasi niente come la puzza di sudore, cenere e fumo, che riempiva l’aria dopo un incendio appena spento, che scatenava nella cognata una nuova nausea mattutina con la quale cominciare bene la giornata libera. Trasferirsi dal fratello e dalla cognata aveva richiesto qualche adattamento, ma per il momento erano riusciti a sopravvivere all’ultimo mese senza uccidersi a vicenda, cosa che per un Bradford era di sicuro un progresso. Solo che non aveva messo in conto di essere così dannatamente stanco di farlo.

    Faceva tre turni di ventiquattr’ore, passava gran parte di quel tempo sul camion e il resto a fare il suo dovere sull’ambulanza, il che gli toglieva molta energia. Per questo si era rivelato la scelta perfetta tra le persone che dovevano trasferirsi dal fratello e aiutarlo dopo che Danny era stato in grado di ritornare dalla Florida e da quella cazzo di deviazione che aveva fatto a Las Vegas, prima che Jodi realizzasse che probabilmente avrebbe fatto meglio a mollarlo.

    Duncan aveva affittato un appartamento, in cui aveva a malapena dormito, con un coinquilino che non sopportava, così, quando si erano riuniti in famiglia per discutere su chi di loro avrebbe dovuto sradicare la propria vita per aiutare Danny e Jodi, lui era stato la scelta perfetta per via dei suoi orari di lavoro. D’altronde, se avesse capito che trasferirsi dal fratello e dalla cognata sarebbe stato così faticoso, avrebbe potuto dare quell’opportunità all’altro fratello, Aidan.

    Quando aveva acconsentito aveva immaginato che avrebbe portato fuori la spazzatura, aiutato in casa, fatto qualche commissione di tanto in tanto quando avrebbe avuto del tempo libero ma, come per gran parte della sua vita, le cose non erano andate nel modo in cui aveva sperato. Quando non lavorava faceva le commissioni, accompagnava Danny agli appuntamenti con i medici, lo aiutava a completare la fisioterapia giornaliera portandolo in palestra e cucinava gran parte dei pasti dato che la gravidanza stava logorando Jodi. Alla fine della giornata di solito la trovavano raggomitolata sul divano o sul letto più vicino, il che era la ragione per cui lui faceva gran parte delle pulizie e un migliaio di altre faccende prima di poter recuperare un po’ di sonno, cosa che gli sembrava di stare facendo sempre di meno man mano che passavano i giorni.

    Onestamente, non era sicuro di quanto ancora sarebbe riuscito a tenere il passo con tutto quello, ma non c’era niente che potesse fare in quel momento. Danny e Jodi avevano bisogno di aiuto e ora lui era l’unico che poteva farlo a tempo pieno. Tutti in famiglia contribuivano, sostenendo Danny e Jodi, dando loro dei passaggi, cibo, aiutandoli in casa, dando loro dei soldi per coprire le spese mediche, assicurandosi che ci fosse qualcuno quando Duncan era assente, ma anche con tutto quell’aiuto extra lui era ancora fottutamente esausto.

    Gli aiuti aggiuntivi erano fantastici ma, onestamente, gli sarebbe piaciuto tantissimo passare una notte in cui poter dormire senza doversi preoccupare che suonasse l’allarme antincendio, senza essere svegliato alle due del mattino perché il salvavita di qualcuno era scattato accidentalmente, senza essere svegliato dai rumori di suo fratello e Jodi che facevano l’amore o da quella bussata esitante che sembrava arrivare sempre quando finalmente stava per addormentarsi oppure, la parte peggiore, dai rumori del suo fratello cocciuto che cadeva perché era troppo dannatamente testardo per chiedere aiuto.

    Cristo, l’ultima volta avrebbe potuto uccidere il fratello per il fatto di essersi rifiutato di chiedere una mano. C’era stato tanto di quel sangue, normale con le ferite alla testa e lui lo sapeva, ma questo non significava un cazzo quando si trattava del fratello che giaceva svenuto sul pavimento del bagno in una pozzanghera di sangue. Aveva cercato di ignorare i singhiozzi isterici di Jodi, il fatto che l’uomo che perdeva sangue dappertutto fosse suo fratello e aveva cercato, invece, di concentrarsi sul suo addestramento. Aveva pulito la ferita alla testa del fratello, aveva trattenuto quel bastardo cocciuto sul pavimento, quando Danny era finalmente riuscito ad aprire gli occhi e aveva provato a mettersi seduto. Era riuscito perfino a chiamare la caserma per chiedere aiuto, il che era stato difficile a quel punto perché i singhiozzi di Jodi si erano trasformati in grida isteriche e lui era riuscito a stento a sentire qualcosa da sopra quelle urla contro Danny che l’aveva spaventata a morte.

    Dopo l’incidente aveva passato le successive otto ore in un pronto soccorso occupandosi di Jodi e urlando a Danny di smetterla di muoversi finché non gli avessero controllato la spina dorsale. Il bastardo cocciuto si era rifiutato di ascoltarlo. Era troppo ansioso di andare da Jodi a provarle che stava bene per starsene fermo. Duncan, quindi, era stato costretto a bloccare lui stesso Danny a letto, cosa che gli aveva fatto guadagnare una serie di minacce cattive da parte di quel coglione ingrato.

    Quando finalmente avevano dimesso Danny, Duncan aveva avuto solo il tempo di andare a casa, aiutarlo a mettersi a letto, indossare l’uniforme e recarsi in caserma per un turno di ventiquattr’ore in una notte di luna piena, il che significava che ogni fottuto psicopatico nel raggio di cinquanta chilometri aveva deciso che era la notte perfetta per ascoltare quelle dannate voci nella sua testa e per rendere la sua vita un vero e proprio inferno. Non era riuscito a dormire neanche un minuto durante quel turno, cosa abbastanza brutta, ma non appena era rientrato a casa aveva dovuto aiutare a prendersi cura di Danny, era dovuto correre al negozio di alimentari, in banca e in una dozzina di altri posti che avevano contribuito a spingerlo oltre la soglia dello sfinimento e avevano quasi portato anche lui in un letto d’ospedale.

    Era riuscito ad andare presto a letto quella sera ma, sfortunatamente per lui, anche Danny e Jodi lo avevano fatto. Lo avevano tenuto sveglio per le successive quattro ore con gemiti e lamenti di piacere e con quella che stranamente sembrava la testiera del letto che sbatteva contro il muro. A quel punto aveva seriamente considerato l’idea di dire a uno di quei coglioni dei suoi fratelli o dei cugini di prendere il suo posto, ma poi Jodi gli aveva portato la colazione a letto la mattina dopo, con un dolce bacio sulla guancia e un ringraziamento per averli aiutati.

    Dopodiché aveva tenuto chiusa la bocca e si era messo l’animo in pace.

    «Che è successo?», chiese sfregandosi con forza la faccia con le mani e pregando che non fosse niente che li portasse a passare un’altra notte al pronto soccorso.

    «Uhm», mormorò lei schiarendosi la gola e distogliendo lo sguardo, mentre un rossore abbastanza interessante si diffondeva sul suo collo e sulle guance. «Niente di che», continuò mentre il rossore si faceva più forte e diventava cremisi.

    «Certo», sussurrò lui pensosamente, chiedendosi il perché di quel rossore.

    Fortunatamente, o piuttosto sfortunatamente per lui, non dovette domandarselo a lungo quando seguì Jodi nella sua camera da letto e…

    «Cazzo, state scherzando», disse prima di potersi fermare e, a giudicare dallo sguardo omicida che il fratello gli stava lanciando, probabilmente avrebbe dovuto tenere chiusa quella cazzo di bocca.

    «Ho perso le chiavi», ammise Jodi con un tono assolutamente mortificato mentre Duncan stava lì in piedi a fissare incredulo il fratello.

    Quelle non potevano essere manette…

    Eppure lo erano, rifletté allungandosi per prendere il cellulare sul cassettone.

    «Non pensarci nemmeno, cazzo», ringhiò Danny strattonando le manette che gli tenevano le braccia bloccate.

    Sospirando profondamente, perché sapevano entrambi che non aveva altra scelta al riguardo, sbloccò il cellulare del fratello, accese la fotocamera e fece quello che ogni Bradford che si rispetti avrebbe fatto in quella situazione.

    «Oh, mio Dio», mormorò Jodi seppellendo la faccia tra le mani, anche se sentì una risatina divertita provenire da lei.

    «Io. Ti. Prenderò. A. Calci. In. Culo», latrò il bastardo irascibile bloccato alla testiera del letto, lanciandogli un’occhiataccia che prometteva ogni genere di violenza una volta libero. Ovviamente Duncan ignorò le minacce e fece ciò che ci si aspettava da lui.

    «Di’: Cheese».

    Due giorni e tre multe per eccesso di velocità dopo…

    «Oh mio Dio», disse Necie sull’orlo di un attacco di panico mentre sedeva nel vialetto del nonno, stringendo saldamente il volante e realizzando finalmente cosa aveva fatto.

    Aveva praticamente detto al suo capo di andare a farsi fottere.

    Okay, non aveva usato proprio quelle parole esatte, però avrebbe potuto farlo. Dopo cinque anni in cui il suo capo le aveva rubato le ricette facendole passare per sue, le aveva imposto doppi turni negandole un aumento e del tempo libero che le consentisse di avere un accenno di vita, Necie ne aveva avuto finalmente abbastanza. Quindi quella mattina si era presentata al lavoro, era andata dritta da quella stronza del suo capo, Kathleen, e senza mezzi termini le aveva detto che ne aveva abbastanza e che se ne andava.

    Sfortunatamente per Necie, quella sottospecie di essere umano non aveva ascoltato neanche una parola di quanto aveva detto e, al contrario, le aveva annunciato che era licenziata perché era arrivata con cinque minuti di ritardo. All’inizio era rimasta un po’ scioccata e aveva perfino aperto la bocca per implorare quella donna malvagia di darle un’altra possibilità, ma poi il buon senso aveva avuto il sopravvento. Aveva preso il suo ultimo misero stipendio, era andata dritta alla sua auto, aveva sbattuto la portiera dietro di lei e aveva prontamente brontolato quando quell’azione aveva fatto cadere tutte le borse che aveva fissato sul tettuccio della macchina e le aveva fatte finire in strada.

    Successe tutto quando una lunga fila di autoarticolati decise di accelerare lungo la strada distruggendo tutto ciò che possedeva e lasciandola lì seduta a scuotere la testa con un sospiro, perché effettivamente avrebbe dovuto prevederlo. Dopo aver osservato un minuto di silenzio per la sua maglietta preferita del college, quella che un tempo era stata super morbida e ora non era altro che un ammasso strappato, decise che era arrivato il momento di passare a un’altra fase della sua vita.

    Mentre per la maggior parte delle persone l’idea di tornare dal nonno e di lavorare per lui avrebbe rappresentato un passo indietro, per lei non era così. Lei adorava suo nonno. Era il suo migliore amico, l’uomo della sua vita e l’unica persona che capiva veramente e accettava i suoi modi impacciati. Aveva sempre il sorriso e un occhiolino pronti per lei quando qualcosa andava male…

    Il che, sfortunatamente per lei e per chi le stava intorno, accadeva piuttosto spesso.

    Tornare a casa non significava ammettere la sconfitta. Voleva dire che si sentiva finalmente pronta a lavorare per il nonno come capo fornaia e a fare pratica per poter rilevare l’impresa di famiglia un giorno, una cosa che l’aveva terrorizzata per anni perché non aveva mai creduto che sarebbe diventata abbastanza brava da poter prendere il suo posto. Dieci anni prima, quando era partita per la scuola di cucina, il nonno le aveva promesso di prepararla personalmente e di mostrarle come mandare avanti il negozio, ma non si sentiva ancora in grado e lui la conosceva abbastanza bene da sapere che lei aveva bisogno di fare le cose a modo suo.

    Ora era tornata una volta per tutte e improvvisamente si sentì terrorizzata al pensiero di aver fatto un grosso errore. Forse doveva tornare a Boston, raschiare via i suoi vestiti dalla strada, chiedere al proprietario di farla ritornare nel suo appartamento e andare a implorare per il vecchio lavoro. Non che avesse la benché minima possibilità di riavere il vecchio lavoro o l’appartamento, rifletté tristemente mentre continuava a restarsene seduta in auto, fissando il cumulo di neve al posto del furgone del nonno, senza in realtà vederlo.

    D’altronde erano le due del pomeriggio, il che voleva dire che non sarebbe tornato a casa ancora per qualche ora. Andava bene così, decise mentre scendeva dall’auto e con attenzione si faceva strada verso il retro della casa dove il nonno teneva le vanghe per la neve. Afferrò quella con il manico nero, quella con cui aveva imparato a spalare la neve quando era piccola, e con un grosso sospiro si voltò decidendo che passare le ore successive a ripulire il vialetto era meglio dello starsene seduta a sentirsi male per se stessa, tappata dentro.

    Cinque minuti dopo, quando le dita cominciarono a intorpidirsi e iniziò a rimpiangere di aver messo il giubbino invernale in una delle tante borse che ora giacevano per strada, decise che era giunto il momento di entrare in casa a prendere uno dei cappotti invernali del nonno e un paio di guanti. Riflettendo su quando prepararsi della cioccolata calda, se in quel momento o dopo aver finito di spalare, sbatté con aria assente la vanga nel cumulo di neve dietro di lei e…

    «Figlio di puttana!», urlò improvvisamente una voce profonda, molto vicina al suo orecchio, che la fece trasalire, perché aveva un’idea piuttosto chiara di quanto era appena successo.

    Dopo anni di sfortunati incidenti, era abbastanza pratica nello gestire queste cose. Facendo un profondo respiro, si girò per dire alla persona che aveva appena impalato con la vanga che era veramente dispiaciuta, quando improvvisamente perse la capacità di parlare e, a quanto pare, anche l’equilibrio mentre posava gli occhi sull’uomo più bello che avesse mai visto.

    Era anche quello più cortese, pensò distrattamente mentre il piede le slittava sul ghiaccio e quell’uomo incredibilmente attraente le avvolgeva le braccia intorno, ruotava nella caduta e si prendeva l’impatto del colpo tenendola al sicuro e costringendola a chiedersi se c’era la minima possibilità che lui si dimenticasse di tutto un giorno.

    Capitolo 1

    26 novembre 2015

    Giorno del Ringraziamento

    «Io ti amavo, cazzo, maledetta puttana!», strillò l’uomo che brandiva il coltello trinciante peggiorando decisamente il mal di testa di Duncan e facendogli desiderare di non essersi offerto come volontario per lavorare proprio quel giorno, anche se aveva avuto bisogno di una pausa dalla famiglia e dal disastro ambulante che viveva nella casa a fianco.

    «Signore», disse con tono fermo, spostandosi di lato per mettersi tra quell’uomo incredibilmente incazzato e la coppia nuda che si faceva piccola piccola nel letto dietro di lui.

    Non che potesse biasimarlo, pensò Duncan distrattamente mentre si spostava di lato chiedendosi quando la polizia si sarebbe decisa a presentarsi, in modo da subentrare e permettergli di mettere fine a quell’infernale giornata di merda.

    «Come hai potuto farmi questo?», urlò l’uomo brandendo il grosso coltello, diventando più isterico ogni secondo che passava, cosa niente affatto buona, come Duncan sapeva per esperienza.

    «Figliolo, calmati adesso», disse il vecchio uomo che tremava sul letto dietro di lui, distraendo temporaneamente Duncan mentre registrava quelle parole.

    Non era assolutamente possibile che…

    «Non dirmi di calmarmi, papà! Ti sei scopato la mia fidanzata!».

    Okay, forse le cose potevano complicarsi ancora di più, realizzò mentre l’uomo comprensibilmente incazzato balzava a sinistra, disperato di mettere le mani sul padre o sulla stronza che lo aveva tradito. Duncan non era sicuro di quale dei due fosse la persona con cui quel tipo era più incazzato, ma non importava. Il compito di Duncan era quello di fermarlo prima che facesse qualcosa di stupido di cui poi si sarebbe pentito.

    Pregando che quella notte la cosa non finisse con lui al pronto soccorso che si faceva mettere dei punti o peggio, Duncan afferrò l’uomo per il braccio, glielo ruotò e lo costrinse a mettersi in ginocchio, mentre faceva quel tanto di pressione necessaria a fargli cadere il coltello.

    «Ahia! Toglimi le mani di dosso».

    «Che diamine ha che non va? Tolga subito le mani da mio figlio!», sbraitò il vecchio ricordandogli quanto possono essere stupide le persone.

    «Stia indietro, signore», disse in tono calmo mentre calciava il coltello dall’altro lato della stanza e costringeva l’uomo che singhiozzava in maniera isterica a mettersi a terra.

    «Tolga quelle dannate mani da mio figlio!», continuò il vecchio avvicinandosi per scansarlo dal figlio; quella sera, però, Duncan aveva sentito abbastanza stronzate da bastargli per una vita intera.

    «Cazzo, stia indietro, signore!», urlò lui a quel coglione, infischiandosene del fatto che potesse avere una nota di biasimo o una cavolo di sospensione, perché si rifiutava di aggiungere alla giornata una messa al tappeto di un vecchio nudo.

    Quel giorno aveva visto abbastanza stronzate da bastargli per varie vite.

    «Non può parlarmi in questo modo!», replicò oltraggiato il vecchio mentre l’altro imbecille cercava di sfuggire alla sua presa, molto probabilmente per strozzare il padre, cosa per cui, di nuovo, Duncan non poteva proprio biasimarlo.

    «L’ho appena fatto, signore. Ora faccia un passo indietro e si metta addosso dei vestiti», disse spostando l’attenzione sulla donna imbronciata sul letto. «E anche lei».

    «Non può…».

    «Adesso!», urlò quando il coglione aprì la bocca per discutere con lui, spaventando abbastanza il vecchio da farlo stare finalmente zitto e fargli fare quello che gli aveva detto.

    Duncan doveva solo mantenere calma la situazione e poi avrebbe potuto…

    «Che succede qui?», chiese un’anziana signora sull’entrata.

    Aprì la bocca per urlare e chiamare il collega quando tutto andò a rotoli.

    «Jane, posso spiegarti», disse il vecchio imbecille strattonandosi verso l’alto le mutande, proprio mentre la donna sul letto dichiarava: «Avremo un bambino!».

    E in men che non si

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