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Non chiedermi mai perché
Non chiedermi mai perché
Non chiedermi mai perché
E-book319 pagine4 ore

Non chiedermi mai perché

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Info su questo ebook

Emozionante come Io prima di te
Romantico come One day

Autrice del bestseller Te lo dico sottovoce

È la vigilia di Natale e Ottavia si gode uno dei periodi dell’anno che preferisce. Anche suo figlio è al settimo cielo: col nasino all’insù osserva i fiocchi di neve che imbiancano i tetti delle case. I biscotti allo zenzero sono ancora caldi, riempiono del loro profumo l’auto carica di regali, una musica allegra accompagna Ottavia, Mattia e Stefano mentre si mettono in viaggio verso la casa dei nonni. Quasi abbagliati dalla felicità, si accorgono troppo tardi della macchina davanti a loro… Ottavia si sveglia in un letto d’ospedale e capisce subito che qualcosa è cambiato: lo vede negli occhi e nella voce della madre, negli sguardi dei medici. Fuori continua a nevicare, come se la soffice coltre bianca volesse coprire ogni cosa, ma il ricordo di Mattia e Stefano è e sarà troppo vivo per potere essere dimenticato… È possibile trovare il modo per non annegare nel dolore? Si può trovare la forza, dopo aver toccato il fondo, per riscrivere il proprio destino?

Ai primi posti delle classifiche in Italia
Autrice del bestseller Te lo dico sottovoce

La storia di una giovane donna che, di fronte al dolore più grande, trova il modo per ricominciare a vivere

«Lucrezia Scali scrive in modo semplice, tenero ed emozionante. Mi sono innamorata di questo libro.»

«Lucrezia Scali si dimostra un’autrice matura, con uno stile di scrittura ricercato, curato e scorrevole.»
Lucrezia Scali
È nata a Moncalieri nel 1986 e qualche anno più tardi si è trasferita a Torino. Il suo amore per gli animali l’ha guidata fino alla facoltà di Medicina Veterinaria. Te lo dico sottovoce, suo romanzo d’esordio, è stato pubblicato dalla Newton Compton con un notevole successo, restando per oltre 20 settimane ai primi posti delle classifiche, ed è stato tradotto in Germania. La Newton Compton ha pubblicato anche La distanza tra me e te, L’amore mi chiede di te, Non chiedermi mai perché e, in versione ebook, Come ci frega l’amore.
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2018
ISBN9788822724885
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    Anteprima del libro

    Non chiedermi mai perché - Lucrezia Scali

    Capitolo uno

    Tutti vogliamo la felicità, ma la felicità non è uguale per tutti

    Vi ricordate l’ultima volta che siete stati veramente felici? Se provate a chiudere gli occhi, riuscite a vedere l’esatto istante in cui la felicità vi si è rovesciata addosso? Cosa stavate facendo, dove vi trovavate? Magari qualcuno di voi aveva superato un esame importante, magari avevate finalmente firmato il contratto a tempo indeterminato, l’offerta per la casa dei vostri sogni era stata accettata, magari stavate per percorrere la navata o forse, più semplicemente, vi stavate gustando il suono di quei piedini paffuti che superavano il corridoio e si intrufolavano nella camera da letto.

    «Sono sveglio, sono sveglio!», cantilenò una vocina deliziosa e ansimante.

    Era forse frutto della mia immaginazione? Purtroppo no.

    Riconobbi all’istante l’agilità di mio figlio e il tocco dei suoi piedi sul materasso. Tonfi secchi e ripetuti mi strapparono dal mio sogno e cominciai a dondolare, seguendo un ritmo discontinuo. Due balzi veloci e uno lento. Due veloci e uno lento.

    Aprii un occhio solo. Dannazione, era sempre così complicato convincere entrambi a collaborare di prima mattina. Emisi un gemito incontrollato e sbadigliai. La sveglia mi salutò con le lancette posizionate nel posto sbagliato. Anche quel giorno mio figlio le aveva risparmiato il compito di suonare, giocando d’anticipo. Mi domandavo a cosa servisse la sveglia una volta diventata madre.

    Mi rigirai con difficoltà dall’altro lato, mentre il mio stomaco sobbalzava a ogni salto come se volesse accompagnare le molle del materasso. Per un istante mi ricordò anche il bicchiere di troppo bevuto la sera prima.

    «Mattia, tesoro, che ne dici di ritornare tra un’ora?», proposi sperando in una risposta affermativa. Quello è ciò che avrei sperato e invece no.

    Lui si passò la mano sulla testa, scompigliando quella sua testolina piena di ricci che ricordavano i capelli di un cherubino. «È ora di alzarsi, dài! Mamma, mammaaa…».

    Quando allungava la parte finale della parola mamma era davvero la fine. Racchiudeva in quella vocale tutte le peggior cose da cui un genitore vorrebbe tenersi alla larga.

    Stefano era ancora sdraiato accanto a me. Un cuscino premuto sul viso che nascondeva in parte il suo naso dritto, la bocca carnosa e la barba incolta di qualche giorno. Mi nascondeva quel paio di occhi blu oltremare che mi avevano conquistato ancora prima delle parole e dei gesti. Solo in quel momento mi resi conto che entrambi indossavamo poco e nulla, ancora stropicciati e nudi per la notte appena trascorsa, ma sembrava un dato irrilevante per mio figlio.

    Allungai un braccio fino a sfiorare la spalla di mio marito. Nessun segnale. Non contenta lo scossi per bene, visto che l’intensa attività di mio figlio non era sufficiente. Un vero peccato, perché a Mattia avrei dato un bel nove per la performance.

    Stefano bofonchiò qualcosa di incomprensibile, aveva ancora la voce impastata dal sonno. E allora gli assestai una gomitata nelle costole per svegliarlo una volta per tutte.

    «Ahi, mi hai fatto male», si lamentò lui, strofinandosi la parte colpita e imbronciandosi.

    Bastava poco per avere la sua totale attenzione.

    «Nel bene e nel male, ti ricordano niente queste parole?». Lo punzecchiai con il migliore dei miei sorrisi e ostentando la mano sinistra. La fede dorata scintillò colpita da un fascio di luce che attraversò il sottile strato delle tende.

    Lui decise di ignorarmi, almeno con le parole, e si limitò a guardarmi di sbieco.

    Allora Mattia scoppiò a ridere e agitò le braccia come se fosse un elicottero in fase di decollo. «Papà, ma allora non dormi».

    Beccato.

    «Ma si può avere un po’ di pace in questa casa? Almeno altri cinque minuti?», domandò, portando l’intera testa sotto al cuscino, nel disperato gesto di chi non vuole sentire ragione. «Giuro che l’ha detto anche la Bella addormentata nel bosco».

    Lasciai che il corpicino di mio figlio mi saltasse addosso con tutto il suo peso. Per avere solo quattro anni era dotato di una statura oltre la media e non era più quel bambino che cullavo in braccio e si aggrappava come un koala per garantirsi bei sogni. Mi mancavano quei momenti.

    Mattia, non contento, tornò all’attacco. Era cocciuto, proprio come suo padre, e non a caso era nato nel mese di aprile. Due segni di fuoco contro uno d’acqua. «Non è vero, a lei era stato fatto un incantesimo! Dài, dài, e dài! Manca poco a Natale e dobbiamo fare i biscotti. E poi, papà, mi avevi promesso di fare un enorme pupazzo di neve con la pipa vecchia del nonno!».

    Decisi di intervenire per calmare la sua eccitazione. A volte era indispensabile, una questione di sopravvivenza. «Sì, dopo faremo una montagna di biscotti allo zenzero da portare a casa dei nonni, ma prima bisogna liberare la macchina dalla neve o non andremo da nessuna parte», provai a spiegargli.

    Era il mio piano d’attacco.

    Come per magia i colpi cessarono all’istante. «Papà, allora dobbiamo fare in fretta!», disse tutto d’un fiato, preoccupato.

    Feci toc toc sulla spalla di Stefano. «Ehm, amore, hai sentito tuo figlio? Dovete fare in fretta», gli feci eco divertita, alzando un po’ la voce.

    Solo che mi tradii. Soffocai una risata di pancia tra le pieghe del piumino, ma durò qualche secondo perché Stefano mi lanciò, per la seconda volta, uno sguardo ammonitore.

    Socchiusi gli occhi e contrassi la bocca. «Dài, papà! Tanto ormai sei sveglio e non ti costa niente andare in cucina e preparare la colazione per tutta la famiglia», rilanciai a mia volta.

    «Siiiiì», esultò Mattia con un gridolino pieno di gioia, riprendendo a saltare ancora più in alto e facendo aggrovigliare il mio stomaco. Quei suoi occhi grandi, curiosi, e pieni di mille domande si socchiudevano a ogni risata.

    «E va bene, avete vinto», esclamò mio marito, arren-dendosi.

    «Però prima…», dissi scambiandomi uno sguardo d’intesa con lui, «c’è un bambino che deve essere punito a suon di baci».

    E come in un’esibizione di magia, dove il tempismo è tutto, mio marito sollevò la coperta e catturò i piedi di mio figlio, facendolo capitolare in mezzo ai nostri corpi.

    Un groviglio di profumi si incastrò tra quelle lenzuola.

    La stanza vibrava al suono delle nostre risate, e se quelle quattro mura avessero potuto parlare avrebbero raccontato di quella notte che aveva cambiato per sempre le nostre vite. Quando mio marito si era avvicinato alla mia schiena, soffiando con il suo alito caldo contro la base del mio collo e mi aveva sussurrato: «Che ne dici, lo facciamo un figlio?».

    Mentre dalla cucina sentivo provenire il rumore di piatti che si scontravano e di uno spremiagrumi elettrico in funzione, mi dondolai ancora un po’ nel letto, con l’accenno di un sorriso stampato sul volto e la testa che correva altrove. Guardai verso la finestra, concentrandomi su quello spicchio che mi offriva lo spiraglio tra le tende. Anche lì fuori si percepiva la stessa pace e serenità che c’era qui, in questa stanza. Ogni volta che succede qualcosa di bello, siamo sicuri che niente potrà superarlo, come se la felicità avesse un limite di sopportazione. Eppure, quando succederà, sarà un’emozione ancora più forte della precedente, come se ogni felicità conquistata negli anni si sommasse in attesa di qualcosa ancora più grande. Avevo solo ventisette anni, avevo ricevuto tanto dalla vita, ma non avevo ancora visto abbastanza. Ero cresciuta in un piccolo paese di campagna, nella provincia della Valle D’Aosta, aiutando nei campi mio padre e raccogliendo uova con mia madre. Ero sempre sporca di terra, strofinavo di continuo quelle unghie che non riuscivo mai a far tornare bianche. Era il mio marchio di fabbrica, un segno che mi contraddistingueva rispetto alle mie coetanee. Non conoscevo la stanchezza o la durezza del lavoro della vita di campagna, perché i miei genitori mi avevano insegnato a prenderla come un gioco. Ed era qualcosa che, in effetti, mi divertiva. Ma la partita terminò il giorno in cui i miei genitori decisero di firmare le carte del divorzio. Non la presi molto bene, soprattutto perché fui trascinata via da quella che avevo sempre considerato casa mia, trovandomi catapultata in città e a dividere l’appartamento di mia nonna. Il mio olfatto si abituò all’odore della sigaretta e dimenticai presto il profumo dell’erba bagnata e delle piante in fiore. Mi trasformai in una bambina ribelle, in continua lotta con il mondo e con mia madre. Non la perdonai mai, neanche quando mi fece leggere quelle carte che confermavano la sua versione dei fatti. Che era lei ad aver sofferto di più. Per qualche oscura ragione, continuavo a proteggere mio padre, accumulando rabbia e rancore verso mia madre e alimentando, con il passare degli anni, la distanza tra di noi.

    All’epoca avevo le idee chiare su molte cose, meno per altre.

    Se da bambina qualcuno mi avesse raccontato il mio futuro, non gli avrei creduto. Dove vanno a finire i sogni che abbiamo? C’è forse un vortice che li risucchia e li rispedisce indietro nel passato? Perché quasi mai le scelte che immaginiamo per il nostro futuro combaciano con quanto realizzeremo una volta diventati adulti.

    Volevo essere una ballerina. Improvvisavo balletti chiusa nella mia camera, alzando al massimo il volume della radio e facendo roteare gonne colorate e ampie per recitare al meglio la parte. A ventisette anni, invece, mi trovavo a scrivere cruciverba per la rivista «Donna oggi». Non era, economicamente parlando, il lavoro più interessante, ma era stimolante, originale e in qualche modo mi rendeva appagata e soddisfatta. Cinque anni prima avevo conosciuto Stefano nel modo più assurdo in cui si possa incontrare il proprio futuro marito, e in meno di un anno mi ero ritrovata con una fede al dito e l’accenno di una pancia pronta ad accogliere un futuro ciclone.

    Ero riconoscente per quello che la vita mi aveva offerto senza che lo chiedessi, come se sapesse già di cosa avevo bisogno, come se riuscisse a leggermi dentro e affidarmi il meglio.

    Mi misi seduta e infilai un paio di pantofole. Feci un lungo sbadiglio e mi avviai verso la cucina, pronta per un nuovo giorno.

    «Ma che è successo qui dentro?», domandai allibita vedendo farina sparsa lungo il pavimento e mio figlio con dei baffi di cioccolato. Giuro che Zorro sarebbe stato invidioso.

    Stefano fece spallucce, come se cascasse dalle nuvole. «Chiedilo a tuo figlio», rispose indicandolo con un cucchiaio sporco.

    «Possibile che diventi solo figlio mio quando combina qualcosa?», replicai, afferrando al volo un guscio di uovo che stava per tentare il suicidio dal bordo del piano di lavoro.

    «Papà voleva fare i dolci, ma sei più brava tu», commentò mio figlio, allargando i palmi delle piccole mani in su.

    Lo amavo, punto. Quando gesticolava in quel modo, mi sentivo arricchita. Era genuinità pura e semplicità, come il pane appena sfornato.

    Uno strano odore di bruciato mi riportò al presente. Stefano tentava di nascondere con la sua schiena la padella che teneva in mano. L’unica cosa visibile era il fumo che veniva aspirato dalla cappa che almeno aveva prontamente acceso.

    Dopo anni di convivenza non doveva più stupirmi niente, anzi. Mio marito si divertiva a chiamarlo il sale della vita: quel pizzico di imprevedibilità e follia che contraddistingueva la nostra relazione. Insomma, non ci annoiavamo mai.

    Stefano non perse tempo per passare in vantaggio. «Allora se è più brava la mamma, le lascio volentieri la postazione e noi andiamo a sederci a tavola». Mio figlio lo seguì trotterellando, facendo ciondolare la testa a destra e a sinistra.

    Non avendo molte alternative, provai a osservare il caos che avevo di fronte, pensando a quale ricetta avesse tentato di replicare. E dire che di programmi di cucina ne vedevamo a decine. Cercavo sempre di lasciare la tv sintonizzata su quei canali che ripetevano a oltranza ricette e gare ai fornelli, sperando in un qualche miracolo.

    Forse dovevo ascoltare un po’ di più mia madre quando sosteneva che l’uomo doveva fare l’uomo, e che c’era bisogno di tornare alle origini per ripristinare i ruoli che si erano ormai ribaltati. Ripeteva che, per quanto mio padre avesse difetti da vendere, era in grado di provvedere a qualsiasi urgenza domestica, come il guasto di un lavandino o fare buchi nel muro per appendere una mensola. Si lamentava che gli uomini di oggi preferivano affidarsi a persone più esperte, ma che poi erano bravissimi a prepararti una cheesecake.

    Io mi sarei anche accontentata di una semplice torta margherita, sia chiaro. Perché il problema, almeno con mio marito, era alla base. Non era proprio portato per i lavori manuali in generale.

    «Ma giusto per capire, il tuo intento era quello di far fuori la tua famiglia? Spiegami perché c’è l’aceto accanto alle uova…».

    «Non è olio?».

    Lo fulminai all’istante. «Direi che non è il momento di fare dello spirito. E pensare che compro pure quello balsamico per aiutarti a riconoscerlo. Non è che forse lo prendi tanto in giro, ma stai diventando daltonico come tuo padre?»

    «Ah ah, mogliettina spiritosa! Guarda che non è colpa mia se hai il vizio di travasare tutto perché non ami le confezioni originali. Sfido chiunque a capirci qualcosa quando i barattoli sono tutti uguali, dovresti almeno mettere un’etichetta per distinguerli».

    Dovresti.

    «Che bella idea. Magari posso anche scrivere la lista degli ingredienti, data e provenienza…», lo presi volutamente in giro.

    «Eh, perché no».

    «Ma tu dimmi se appena sveglia deve già salirmi la pressione. Farei la felicità di mia madre, così potrebbe rinfacciarmi di assomigliare anche in questo a mio padre», mi lamentai non sapendo da che parte iniziare. «Non so se a te tutto questo casino sembra normale. Ma poi, dimmi, cosa volevi preparare? Tiro a indovinare… i pancake?»

    «Buoniiiiii», strillò Mattia, portandosi l’indice alla guancia.

    «Che uomo fortunato che sono, ho anche una moglie indovina!».

    «Sì, e sai anche che altro indovino? Che alle diciannove dobbiamo metterci in auto per andare a cenare dai tuoi. Te lo ricordi, vero?»

    «E come se non lo so. Stai tranquilla, c’è ancora tantissimo tempo…», rispose stiracchiandosi.

    «Sì, ma non pensare di farti un sonnellino con la scusa che gli fai compagnia, mentre guarda i cartoni animati, perché ho una lista di cose da fare e tu dovrai aiutarmi», gli ricordai rassegnata.

    «E comunque non è una scusa, io li guardo veramente i cartoni animati».

    «Certo, li guardi talmente bene che ti devo lasciare sul divano perché non ti svegli neanche con i petardi».

    «Guarda che sto migliorando».

    «E pensa se non miglioravi», conclusi, mentre rigiravo l’impasto nel contenitore.

    Qualcuno accese la tv e una voce squillante riempì la stanza. «Buongiorno bambini, oggi è il 24 dicembre e Babbo Natale è pronto con la sua slitta per consegnarvi tutti i regali. E non preoccupatevi, perché neanche una tormenta di neve riuscirà a fermarlo…».

    Ascoltai divertita quelle parole. Mio suocero aveva acquistato un nuovo costume di Babbo Natale perché sosteneva che Mattia stava crescendo e c’era bisogno di un travestimento migliore. L’anno precedente mio figlio si era fissato sull’orologio, che era uguale a quello di suo nonno, e per i mesi successivi non aveva fatto che parlarne. I dettagli erano importanti.

    Una volta ottenuto un impasto omogeneo, ne versai un mestolo alla volta nella pentola che avevo precedentemente riscaldato. In pochi secondi iniziarono a formarsi delle piccole bolle in superficie, chiaro segno che a breve avrei dovuto girare il pancake.

    «Tesoro, puoi passarmi un piatto pulito così non perdiamo altro tempo?».

    Stranamente non sentii alcun tipo di lamentela. A volte mi divertivo a stuzzicarlo per avere la sua attenzione.

    «Dieci lettere. Il pazzo Celentano in un famoso film…».

    «Innamorato», risposi senza esitazione.

    E al contrario della mia previsione, con la scusa di aprire l’anta del mobile, Stefano mi rubò un bacio rapido e delicato.

    «Proprio così!».

    Lo amavo anche per quello.

    La giornata trascorse talmente in fretta che in un attimo arrivò l’ora di cena. Sentii montare dentro di me il panico che mi assaliva tutte le volte in cui mi rendevo conto di dover fare troppe cose e di non riuscire a concluderne mezza.

    Mi occupai dei regali, sistemandoli all’interno di due grandi sacchetti, e riempii di biscotti allo zenzero una scatola di latta decorata da Mattia. Non avevo molte altre cose da portare con noi, avrei offeso la famiglia di mio marito. Ogni anno mi offrivo come volontaria per preparare qualche piatto per alleggerirgli il lavoro, ma tutte le volte ricevevo un no secco e deciso. Imparai presto a rinunciare.

    Mentre attendevo che Stefano liberasse il vialetto dalla neve, mi fermai sulla soglia di casa ad ammirare uno spettacolo senza repliche. Era dalla nascita di Mattia che non nevicava a Natale, ma quel giorno era tutto diverso. Qualcuno doveva aver ascoltato le preghiere di mio figlio e aveva deciso di fargli un regalo speciale: garantirgli l’atmosfera perfetta.

    Era un dono da scartare in anticipo, di quelli che speri arrivino presto. Si respirava l’odore della neve e del freddo pungente che si intrufolava fin sotto i vestiti come una seconda pelle. Per la prima volta sarebbe stato veramente Natale, con la neve, con il gelo, con i biscotti allo zenzero e con mio figlio che indossava le scarpe nuove e si divertiva a lasciare il segno del suo passaggio sopra quella distesa bianca.

    Tutto era imbiancato, nessun dettaglio era sfuggito ai fiocchi di neve che avevano ricoperto ogni cosa. Mattia non perse l’occasione per correre fuori e spalancare la bocca, sperando di riuscire ad assaporare qualche fiocco. Io me ne restavo lì, immobile, sulla soglia, a guardarlo roteare su se stesso con le mani rivolte verso l’alto. Una parte di me era pronta a fermarlo e dirgli di indossare il cappello di lana, però l’altra parte prese il sopravvento e decise di lasciarlo fare. Avrei intralciato la sua felicità.

    La famiglia di Stefano abitava a circa venti minuti di auto, ma visto il tempo si doveva procedere con calma e probabilmente avremmo trovato anche traffico. Mia suocera si era raccomandata più volte di non preoccuparci della puntualità e di essere prudenti. Il cenone poteva aspettare, ma la sicurezza no.

    Ogni volta mi sfogavo con mio marito e mi lamentavo per le sue numerose raccomandazioni, come se fosse sempre lì a ricordarci che eravamo due genitori incoscienti e immaturi. Stefano rideva e dava pienamente ragione a sua madre, facendo montare in me una rabbia che mi riportava indietro nel tempo alle prime litigate da conviventi. Mi prudevano ancora le mani al ricordo di quando sua madre si era presentata con pantaloni lavati e camicie ben stirate, con quel sorrisetto da donna soddisfatta che mi mandava dritta al tappeto. Non sapeva che non si trattava di mancanza di voglia o incapacità di stirare, semplicemente aspettavamo lo stipendio successivo per poterci permettere un ferro da stiro. Stefano aveva preferito mettere a tacere la cosa, era la soluzione migliore rispetto al dover ammettere di essere a corto di soldi.

    Però dovevo riconoscere che non si tirava mai indietro quando c’era da darci una mano con il bambino, ed era una cosa che non poteva passare inosservata. Per quanto la trovassi irritante per innumerevoli motivi, ce n’erano altrettanti per i quali si faceva apprezzare.

    Sorrisi all’idea di quanto ci piaccia criticare qualcuno mettendone in luce i difetti, quando poi, di quella persona, non potremmo fare a meno.

    Quei pensieri si interruppero nel momento in cui Stefano accese il motore e ci invitò a salire.

    Fuori il cielo era una tela scura, come se fosse più tardi del previsto. La neve cadeva lenta e soffice, depositandosi per un breve istante sul lunotto prima di essere spazzata via. Abbassai di qualche grado il riscaldamento, mio marito aveva l’abitudine di alzarlo più del dovuto, costringendoci a spogliarci. Posizionai lo specchietto puntandolo su mio figlio. Lui era lì, seduto nel suo seggiolino, incastrato tra buste di regali e una coloratissima stella di Natale. Stava facendo combattere i suoi due supereroi preferiti a un duro duello per il potere supremo. Lui amava Spider-Man mentre mio marito Batman, ogni volta c’era da tapparsi le orecchie per non sentire i loro schiamazzi.

    «Adesso devi arrenderti», gridò imitando una voce profonda e roca.

    «Mai, Batman non si arrenderà mai!», si intrufolò mio marito, sollevando gli occhi per vedere la sua reazione riflessa nel vetro.

    «Tesoro, guarda la strada…», mi raccomandai.

    Come al solito, mi restituì una smorfia contrariata. Detestava essere ripreso al volante, anche se poi faceva lo stesso a ruoli invertiti. Avrei dovuto guidare io, ero quella che rispettava tutte le norme di sicurezza. Sia chiaro, non che Stefano guidasse male, ma ogni tanto commetteva qualche piccola infrazione.

    «E allora prendi questo, brutto uomo pipistrello». Mattia rincarò la dose, mimando un pugno che colpiva la guancia del giocattolo.

    «Ah, sì? Mi costringi a usare il potentissimo e segretissimo Batpotere e ti lancio una bomba galattica», gli rispose calandosi nella parte e improvvisando un suono che non saprei ripetere.

    Lo guardai strizzando gli occhi, incredula. «Ma da quando?».

    Fece spallucce. «Da quando è un bambino e posso usare anche io la fantasia», mi rispose soddisfatto, scivolando di qualche centimetro sul sedile.

    Scossi la testa, divertita.

    «E allora preparati a rimanere intrappolato nella mia supermega ragnatela!».

    Mi voltai indietro e Mattia ricambiò felice il mio sorriso. Non saprei spiegarvi il motivo, ma in quell’istante un vento gelido soffiò dentro di me, come se volesse congelare e proteggere il mio cuore. Tornai a osservare la strada con quell’immagine ancora stampata negli occhi e l’attimo dopo mi trovai due fanali puntati addosso, a gridare disperata il nome di mio marito. Non riconoscevo più la mia voce.

    L’auto perse aderenza con l’asfalto, piroettando come se fosse una ballerina a un saggio di danza e lasciando tutti di stucco per il gran finale. Fu una manciata di secondi, ma che in quel momento parvero eterni. La macchina controsterzò verso destra, e in una sorta di balletto si scontrò contro qualcosa.

    Il giocattolo rotolò via dalle sue mani e volò oltre la mia testa. Alla fine aveva vinto lui.

    Fu un attimo.

    Spalancai gli occhi e ripresi fiato in una sola boccata, come se fossi stata a lungo sott’acqua e avessi raggiunto la superficie. Dovetti impiegare qualche secondo per capire dove mi trovassi. Anzi, come mi trovassi.

    La mia mano era posata sulla pancia, forse era un residuo di quell’istinto materno che si era materializzato nei nove mesi di gravidanza. Ma ora non avevo alcun figlio da proteggere. Almeno non dentro di me.

    «Oh mio Dio, oh mio Dio!», gridai. Il mio cuore sembrava essere ancora al suo posto, visto che stava tamburellando contro il petto. La testa mi scoppiava, ma non era solo quello a preoccuparmi. Mi sentivo come incastrata, come se non fossi al posto giusto. Mi voltai a destra e notai uno strato di neve al posto del cielo. L’auto doveva essersi ribaltata. Scansai via l’airbag che soffocava tutta la visuale e mi guardai attorno, sperando di incrociare i volti della mia famiglia. Era talmente buio dentro l’abitacolo che si faceva fatica a mettere a fuoco e gli occhi erano così gonfi e umidi che mi limitavano la vista.

    Uscii dall’abitacolo con qualche difficoltà, come se non avessi più il controllo del mio corpo e fosse qualcun altro a muoverlo al posto mio. Un burattino con fili invisibili tra le mani di uno sconosciuto, ecco come mi sentivo. Obbligata a fare quello che qualcuno mi chiedeva di fare. Le mie mani si spostarono sulle guance e salirono poco più su, strofinando in modo grossolano la mia pelle. Controllavano che ci fosse ancora una testa attaccata al mio collo. Il mondo sembrava essere in balia di un movimento accelerato. Tutto girava senza una pausa, senza darmi tregua, senza darmi speranza. La strada era debolmente illuminata, la neve continuava a scendere ma non sentivo freddo. Mi trascinai fino al ciglio della strada, non sapendo bene cosa fare. Speravo che passasse qualsiasi auto per chiedere aiuto. E quando stavo per perdere le speranze, da lontano due fari mi accecarono e il suono della sirena arrivò alle mie orecchie. Era come se si trovasse a chilometri di distanza, nonostante fosse a pochi metri da me.

    «Ehi, sono qui», provai a dire, agitando in aria le braccia, ma le parole restarono strozzate in fondo alla gola.

    Dall’ambulanza scesero di corsa due figure che si precipitarono a controllare l’auto. La nostra auto.

    «Grazie al cielo siete arrivati, mio marito ha perso il controllo dell’auto… la neve…», spiegai rincorrendo l’uomo con la divisa,

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