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Confessioni di un killer della mafia
Confessioni di un killer della mafia
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E-book778 pagine9 ore

Confessioni di un killer della mafia

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Info su questo ebook

La storia vera del più pericoloso sicario della storia

Si chiama Richard Kuklinski e viene da New Jersey City. La sua professione è l’omicidio su commissione: un lavoro che – al servizio della mafia americana – Kuklinski è in grado di eseguire con estrema precisione.
Lo chiamano “The Ice Man” perché uno dei modi che predilige per impartire la morte è quello di rinchiudere le sue vittime in un congelatore, sbarazzandosi dei corpi soltanto dopo un lungo periodo di ibernazione. Ma la vera specialità di “The Ice Man” consiste nell’accontentare sempre i desideri della sua committenza e, quando la mafia desidera far morire un uomo tra le sofferenze più atroci, sa che Kuklinski non si farà scrupoli nell’uccidere i malcapitati nei modi più terrificanti che una mente criminale è in grado di immaginare. Responsabile di centinaia di morti violente, “The Ice Man” è arrivato a dare in pasto ai topi degli uomini vivi e a filmare la loro agonia con la videocamera pur di accontentare i suoi clienti. Più efferata di un libro dell’orrore, la biografia di Philip Carlo si immerge nei meandri della vita del più spietato degli assassini, illuminando con vivido realismo gli aspetti abominevoli di un’esistenza che si stenta a definire umana. 

La carriera criminale di un uomo spietato, pagato per uccidere, torturare, eliminare i nemici dell’organizzazione

Tra gli argomenti trattati:

Nascita di un killer spietato
Strade pericolose • Il primo sangue • La famiglia dei De Cavalcante • L’omicidio come lavoro

Barbara
Bambi incontra l’Uomo di Ghiaccio • Possesso totale • Questo è per te, Richard

Tipi poco raccomandabili
Un assassino in famiglia • Il clan dei Gambino • Sammy Gravano detto “il Toro”

Il progetto Manhattan
Il corpo smembrato di Roy DeMeo • Ci sono dei “topi” da eliminare • Operazione Uomo di Ghiaccio •
Un kit per uccidere

Killer superstar
Politica e crimine • Lo Stato del New Jersey contro Richard Leonard • Kuklinski • L’Uomo di Ghiaccio contro Sammy il Toro
Philip Carlo
È cresciuto a Bensonhurst, Brooklyn, in una delle zone a più alta densità mafiosa del mondo. La sua conoscenza profonda degli ambienti della malavita lo ha aiutato a diventare uno scrittore di gialli. Tra i suoi libri c’è The Night Stalker, un bestseller dedicato alla storia del famigerato serial killer Richard Ramirez.
LinguaItaliano
Data di uscita24 giu 2016
ISBN9788854196629
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    Anteprima del libro

    Confessioni di un killer della mafia - Philip Carlo

    Parte prima

    Nascita di un killer spietato

    1. Un vero peccato mortale

    All’alba del XX secolo Jersey City, nel New Jersey, la città dove era nato Richard Kuklinski, era un’attiva enclave di immigrati polacchi. Le numerose chiese cattoliche polacche e una notevole disponibilità ad attività produttive avevano esercitato un forte richiamo al concentrarsi di comunità polacche alquanto numerose.

    Importanti società ferroviarie come Lackawanna, Eire, Pennsylvania e Central facevano tutte base a Jersey City. Convogli in arrivo da ogni angolo degli Stati Uniti trasferivano ogni genere di merce verso la East Coast, dove finalmente terminavano la loro corsa. L’intera zona era costellata di linee ferroviarie, che per lunghi tratti si affiancavano alle strade. L’arteria principale della città, la Railroad Avenue, era addirittura percorsa da un lungo tratto di ferrovia, che la tagliava in due, dividendo i sensi di marcia. E così vedere nel bel mezzo della città pesanti e scure locomotive che trainavano lunghe file di vagoni era spettacolo comune a Jersey City. Il classico ciuff ciuff dei locomotori e le sibilanti sirene delle locomotive a vapore si avvertivano in ogni direzione, di giorno e di notte, sette giorni la settimana, sempre.

    Situata nell’angolo di nordest dello Stato del New Jersey, Jersey City, idealmente rivolta verso la frenetica metropoli di Manhattan, costituiva il punto di partenza da cui ogni tipo di merce e prodotti venivano caricati e trasportati in direzione della East Coast. Nel suo punto più vicino, vale a dire laddove il fiume Hudson tocca il punto più meridionale del suo corso, Jersey City distava non più di un chilometro dalla zona bassa di Manhattan – considerata il centro del mondo –, dove imbarcazioni di ogni genere stazionavano presso gli infiniti moli di attracco che si affastellavano lungo il litorale. Se la giornata era limpida e tersa, da certi punti di Jersey City Manhattan dava l’idea di essere ancora più vicina, sembrava, come si suol dire, a un tiro di schioppo.

    Nella realtà, Jersey City era tanto diversa da New York da sembrare una città di un altro pianeta. Era piena di gente povera, lavoratori umili che avevano problemi a sbarcare il lunario, che lottavano ogni giorno per poter mettere qualcosa da mangiare in tavola. Certo, il lavoro non mancava, ma erano quei lavori che spaccano la schiena e che vengono ripagati con un infimo salario. D’estate il caldo e l’umidità erano insopportabili. A causa della presenza nelle vicinanze di vaste zone acquitrinose, l’aria della notte veniva letteralmente invasa da sciami infiniti e fluttuanti di zanzare e moscerini. Al contrario, d’inverno faceva molto freddo, la città era costantemente battuta dai potenti venti che, come trasportati dal corso dell’Hudson, arrivavano dal vicino oceano Atlantico. C’erano momenti in cui il freddo era così violento che non occorreva tanta fantasia per immaginare di trovarsi in qualche lontana landa siberiana.

    Ubicata non distante da Hoboken, la città resa celebre per aver dato i natali a Frank Sinatra, Jersey City era una città chiassosa, violenta, piena di lavoratori stanchi e avviliti e della loro prole altrettanto repressa. Un posto, per dirla in breve, dove un bambino imparava in fretta a difendersi, se non voleva diventare vittima di soprusi e bullismo. Ovviamente, i più forti si facevano rispettare e prosperavano; mentre i più deboli erano emarginati e oppressi.

    La madre di Richard, Anna McNally, era cresciuta nell’orfanotrofio del Sacro Cuore fra Erie e la 9ª Strada. I genitori erano emigrati da Dublino nel 1904 e si erano stabiliti a Jersey City, all’epoca considerata una delle dieci più grandi città d’America. Anna aveva due fratelli più grandi, Micky e Sean. Poco tempo dopo essere approdati a Jersey, il padre di Anna era morto a causa di una polmonite e la madre era finita sotto un treno sulla 10ª Strada. E così Anna ed i fratelli avevano incominciato a rimbalzare da un orfanotrofio all’altro. Per quanto magrissima e malnutrita, Anna era però una bambina attraente, gli occhi a mandorla scurissimi, in contrasto con la carnagione chiarissima.

    Nell’orfanotrofio del Sacro Cuore la religione era il pane quotidiano per i ragazzi ed Anna era cresciuta in timor di Dio, dell’inferno, della dannazione, sotto le continue percosse di suore sadiche e cattive che minacciavano punizioni continue facendo lavorare le bambine come delle piccole schiave al loro servizio. Prima di raggiungere l’età di 10 anni, era stata molestata sessualmente da un prete, che non solo le aveva tolto la verginità, ma le aveva anche sottratto un po’ della sua umanità, cosa che l’aveva poi fatta crescere come una donna algida che si concedeva raramente al riso e che osservava la vita attraverso i suoi freddi e severi occhi scuri.

    A 18 anni era stata costretta a lasciare l’istituto e aveva trovato accoglienza in un convento, immaginando di farsi suora. Non aveva alcuna risorsa, né, tanto meno, qualcuno a cui appoggiarsi. Ma Anna non era di certo tagliata per la vita monacale. Poco tempo dopo, nel corso di una festa danzante organizzata dalla parrocchia, aveva conosciuto Stanley Kuklinski ed il loro destino era stato segnato. Stanley era nato a Varsavia, capitale della Polonia, ed era emigrato a Jersey City con mamma, papà e due fratelli. A 26 anni, quando aveva incontrato Anna, Stanley era un bellissimo giovane, vagamente somigliante a Rodolfo Valentino. Portava i capelli divisi al centro della testa e lunghi all’indietro, come era la moda del momento. Dapprincipio era stato respinto da Anna e questo aveva eccitato ancora di più il suo desiderio di averla, e tanto aveva fatto fino a convincerla di sposarlo, cosa che era accaduta tre mesi dopo il loro primo incontro. Si erano sposati nel luglio del 1925 e nella fotografia del matrimonio si scorge una bella coppia felice, due giovani ben assortiti, insomma, un’unione che non poteva che promettere bene. Intanto Anna si era fatta una splendida ragazza; tanto per dare un’idea, fisicamente ricordava l’attrice Olivia De Havilland in Via col vento. Stanley aveva un lavoro che poteva considerarsi discreto: svolgeva la funzione di addetto ai freni per la compagnia ferroviaria Lackawanna. Di per sé non si trattava di un lavoro massacrante, anche se lo costringeva a stare sempre all’aperto, dovendo sopportare il caldo umido e afoso dell’estate ed il gelo rigido dei giorni d’inverno. A prima vista, malgrado la fretta con cui si erano sposati, la loro unione era di quelle che sembravano destinate a durare. Avevano affittato un piccolo alloggio privo di acqua calda in una malandata casa a due piani nella 3ª Strada, appena dopo il quartiere della chiesa di St. Mary. A Stanley però piaceva bere e quando era ubriaco si trasformava in un altro uomo. Non era occorso molto tempo ad Anna per accorgersi che in verità il ragazzo che aveva sposato era una specie di tiranno geloso e possessivo che la picchiava volentieri alla minima provocazione. Poiché non si era presentata illibata la notte delle nozze – non se l’era sentita di raccontare a Stanley di essere stata violentata più e più volte da un laido prete quando era rinchiusa nell’orfanotrofio –, Stanley l’accusava di essere una sgualdrina, una poco di buono. Logicamente, Anna detestava quei momenti, ma aveva imparato a resistere stoicamente a quelle accuse verbali che sempre più spesso si erano trasformate in violenze fisiche. Fisicamente Stanley non era un omone, ma era ugualmente forte come un toro. Quando era ubriaco, la sua forza sembrava moltiplicata e allora sballottava Anna come fosse stata una bambolina. Più volte lei aveva pensato di raccontare ogni cosa al fratello Mickey, ma si era sempre sentita frenata dal pericolo di non far altro che peggiorare la situazione, né il divorzio poteva rappresentare un’ipotesi percorribile. Da parte sua Anna aveva continuato ad essere profondamente religiosa e, come è noto, una brava ragazza irlandese cattolica non divorzia mai. E così aveva imparato ad accettare quella sua vita stentata e difficile.

    Nella primavera del 1929 Anna era diventata madre per la prima volta, dando alla luce il primo dei suoi quattro figli, avuti dal suo rapporto con Stanley prima che il matrimonio scoppiasse e, alla fine, finisse. Lo aveva chiamato Florian, dal nome del padre di Stanley. Anna non aveva memoria della sua parentela e i soli ricordi che ancora conservava erano brutte cose, maltrattamenti e abusi. La sua speranza era che con un neonato in casa il carattere di Stanley si sarebbe ammorbidito, invece era accaduto l’esatto contrario. Quando era brillo, Stanley l’accusava di essergli stata infedele, arrivando a dire che Florian non era figlio suo e che lei si era fatta sbattere da un altro mentre lui era al lavoro. Rare volte Stanley si mostrava gentile verso Florian, ma per la maggior parte del tempo quel piccolo pareva gli fosse del tutto indifferente e non era passato molto tempo che anche per lui erano incominciate ad arrivare le percosse. Se Florian piangeva lo picchiava, se Florian sporcava le lenzuola lo picchiava, se Florian... ed Anna non poteva farci niente. La sola cosa che le veniva spontaneo fare era correre alla chiesa di St. Mary, accendere qualche candela e pregare. Non aveva alcuna possibilità di agire. Per questo, man mano che il tempo trascorreva, aveva incominciato ad odiare Stanley e a pensare di lasciarlo; a volte persino di ucciderlo, per poi, ovviamente, subito pentirsene.

    In aggiunta, quando lui aveva voglia di sesso, che Anna fosse consenziente oppure no, esigeva di essere soddisfatto. Si sentiva in diritto di disporre del suo corpo come e quando meglio gli aggradava e quindi la prendeva senza preamboli: due colpi veloci e via.

    Anna era rimasta incinta per la seconda volta e l’11 aprile del 1935 era nato un altro maschietto che avevano chiamato Richard. Era un bel neonato grassoccio, con una grossa testa piena di capelli lucenti, così biondi da sembrare quasi bianchi.

    Con le spese da sostenere sempre più elevate ed in casa una nuova bocca da sfamare, Stanley era diventato ancor più cattivo e distaccato. Un venerdì notte in cui aveva fatto rientro a casa tardissimo e completamente sbronzo, con addosso l’odore di altre donne e addirittura il colletto della camicia imbrattato di rossetto, Anna si era risentita e lui, per tutta risposta, l’aveva picchiata selvaggiamente. La considerava come una sua proprietà assoluta, della quale disporre a piacimento e secondo i suoi voleri. A peggiorare ulteriormente le cose, si era messo a picchiare sia Florian che Richard accusandoli di aver compiuto cose da lui solo immaginate. I due ragazzi, spaventati a morte dalla continua violenza del padre, si erano rinchiusi in se stessi, terrorizzati da quella vita terribile. Stanley era solito indossare una pesante cintura militare in cuoio, se la sfilava in un attimo dai passanti dei pantaloni e li picchiava senza ritegno. Se solo Anna cercava di interporsi, le prendeva pure lei di santa ragione. La violenza, poi, sembrava accendere in Stanley l’appetito sessuale, tanto che spesso, dopo aver picchiato moglie e figli, voleva fare sesso e prima ancora che Anna avesse il tempo di rendersene conto, già veniva aggredita con queste pretese.

    In tutti i suoi ricordi, Richard aveva una sola visione del padre: intento a picchiarlo. Di recente ha dichiarato: «Quando mio padre – per quanto la parola padre sia impropria – tornava a casa io lo salutavo con un ciao, il suo saluto invece era un bello schiaffone sulla faccia».

    Stanley si riempiva di whisky forte e di birra e quando era ubriaco diventava così violento da smarrire il senso della realtà. Era arrivato al punto di arrotolarsi la cinghia attorno al pugno e battere i figli con colpi violentissimi. Si trasformava in un invasato. Si compiaceva di riuscire a picchiarli tutti e due contemporaneamente col pugno guantato dalla cintura e molte volte li aggrediva a freddo e senza motivo. Richard era così spaventato dalle ire paterne che aveva incominciato a farsela addosso non appena lo vedeva rientrare o anche soltanto ascoltando la sua voce. La cosa rendeva Stanley ancora più cattivo e, in una spirale senza fine, lo picchiava perché si faceva la pipì nelle mutande. Mano a mano che il tempo passava, Stanley non faceva che privare quel suo secondogenito, Richard, di tutti quegli aspetti di compassione e di empatia del suo animo, delineando quella che sarebbe stata la strada terribile della sua vita di killer senza scrupoli.

    Alla fine, Stanley era arrivato al limite, a fare l’indicibile, ossia uccidere Florian nel corso di una delle tante selvagge scene di botte e punizioni. Un giorno lo aveva colpito così duramente e più volte alla nuca da farlo stramazzare al suolo, privo di vita. Per porre rimedio a quella scelleratezza, aveva dato ordine ad Anna di riferire ai familiari ed alla polizia che il ragazzo era morto, per un violentissimo colpo alla testa, cadendo accidentalmente dalle scale. Nessuno aveva messo in forse la versione dei fatti e il cadavere di Florian era stato composto nel salotto, in quella povera casa a pochi passi dalla chiesa di St. Mary, dove la coppia si era unita in matrimonio solo qualche anno prima.

    Quando il padre aveva ucciso Florian, Richard aveva 5 anni. Anna gli aveva raccontato che il fratello era stato investito ed ucciso da un’automobile in mezzo alla strada. Il piccolo Richard non aveva ancora presente il senso della morte, non si rendeva conto di che cosa volesse dire morire. La sola cosa che vedeva era Florian infilato in una piccola bara di legno odorosa di pino, messa in bella mostra nel salotto, fermo e quieto come se dormisse, con il solo particolare che non si sarebbe mai più svegliato. La mamma e altri parenti piangevano, pregavano, accendevano candele votive, maneggiavano rosari di pietra scura, ciò malgrado tutto quello non serviva a nulla, visto che il povero Florian continuava a non destarsi. Ad appena 5 anni, Richard osservava stranito il volto cereo del suo fratellino maggiore, la sola persona che aveva veramente conosciuto, continuando a domandarsi quando si sarebbe rialzato. Prima l’aveva sempre fatto...

    «Svegliati, Florian, svegliati», gli suggeriva silenziosamente. «Ti prego non abbandonarmi, non lasciarmi solo. Florian... Florian, per favore svegliati...». Ma Florian continuava a non svegliarsi e mai più l’avrebbe fatto.

    2. Strade pericolose

    Per un po’ di tempo, dopo la morte di Florian, Stanley aveva avuto qualche attenzione per Richard, ma ben presto tutto era ricominciato come prima. Anzi, le botte erano diventate ancora più brutali e frequenti. Sembrava che non andasse bene nulla di quello che Richard faceva, come se tutte le cose brutte che la vita gli riservava fossero colpa sua e così picchiava, picchiava selvaggiamente. La sola risposta che Anna era in grado di dare era scappare in chiesa, supplicando Dio in silenzio e fra i singhiozzi, e questo anche dopo l’omicidio del povero Florian. Tutte le volte che Stanley picchiava Richard, lei voltava la faccia verso il muro e si metteva a pregare. La maggior parte delle sere Richard se ne andava a letto pieno di lividi, escoriazioni, dolori; a volte era così malconcio da non poter neppure uscire o presentarsi a scuola.

    E così il ragazzo era cresciuto nel terrore, un bambino spaventato privo di qualsiasi forma di sicurezza in se stesso. Per lui il mondo era qualcosa di brutale, un luogo violento, traboccante sofferenza e tormenti. C’erano volte in cui ancora si chiedeva dove era andato a finire Florian, ma non aveva la minima idea di dove poterlo cercare. La mamma gli diceva in cielo, ma lui non sapeva che cosa volesse significare. Richard aveva voluto un gran bene a Florian, gli stava accanto, vicino, quando il padre picchiava la mamma. Ora Florian se n’era andato e lui solo era rimasto a dover affrontare quel padre scriteriato. Richard era un bambino piccolo e gracile e tutti lo prendevano in giro, accentuando ulteriormente quel senso di isolamento astioso e di depressione in cui si era rinchiuso. La sua rabbia cresceva di giorno in giorno.

    C’erano due fratelli irlandesi, che vivevano nello stesso quartiere, che si divertivano a prenderlo di mira. Un sabato, incontratolo per caso, gli avevano dato una tremenda passata di botte. La sola cosa che Richard poteva fare era quella di scappare, di correre via il più velocemente possibile. Quel giorno Stanley era a casa e, per puro caso, aveva assistito alla scena. Quando Richard, spaventato e trafelato, era arrivato a casa, lo aveva accolto con la cinghia in mano e picchiato duramente, urlandogli: «Non voglio che mio figlio si comporti come una femminuccia!», e così dicendo lo aveva colpito con violenza sul viso. Confuso, con sul volto il segno profondo della cinghiata, Richard aveva sceso le scale, cacciato fuori casa dal padre che dalla finestra gli aveva urlato: «E adesso torni indietro e li vai a cercare». E Richard aveva fatto esattamente così. Caricato da una rabbia feroce e da un odio incontenibile, aveva raggiunto i due fratelli e gli si era scagliato contro, legnandoli di santa ragione. Alle loro grida era comparso il padre, un irlandese di nome O’Brian che lo aveva allontanato in malo modo.

    Stupito, Richard aveva dunque assistito ad una scena clamorosa. Il padre, salito al secondo piano della casa dove abitavano, affacciato alla finestra del pianerottolo che dava sulla 3ª Strada, si era messo ad apostrofare a gran voce il signor O’Brian, gridandogli: «Ehi, comodo fare così. Quando i tuoi figli menano il mio tu te ne stai tranquillo in casa a guardare; ma quando è il mio che le suona ai tuoi intervieni subito!». Quando O’Brian era sceso in strada, Stanley lo aveva aggredito e colpito con un pugno che l’aveva steso sul marciapiede, davanti a tutti. Fiero, Richard era corso da lui e mentre lo trascinava via lo ringraziava per essersi battuto per lui e per aver fatto bene ogni cosa, anche se, in cuor suo, sapeva che le cose non stavano affatto così. Mostrare un po’ di affetto verso Stanley era proibito. Quel sabato sera Richard aveva intuito come avrebbero potuto e dovuto andare le cose. Perché, allora, mamma e papà non lo amavano, perché gli riservavano soltanto indifferenza e violenza? Che cosa aveva fatto per meritarsi quel castigo? Col tempo si era indurito e chiuso sempre di più in se stesso, se ne stava sempre da solo, non riusciva a farsi degli amici, né la cosa lo interessava; in compenso gli stava crescendo dentro una rabbia sorda e furiosa, quasi spaventosa per un bambino così piccolo.

    Poiché Stanley sperperava quel poco che guadagnava in sbornie e puttane, battendo i bassifondi di Jersey City e della vicina Hoboke, in casa cibo e abiti adeguati scarseggiavano sempre. Tutti i vestiti che il piccolo aveva erano lisi e rattoppati più volte, al punto che a scuola i compagni avevano preso a motteggiarlo battezzandolo il povero polacco sporco, lo scheletrino, per via di braccia e gambe simili a grissini per la magrezza. In questi anni difficili Richard maturava un complesso di inferiorità da cui non sarebbe più riuscito a liberarsi per tutto il resto della sua vita. Nel quartiere c’erano bande di ragazzini rivali, gruppi di polacchi, italiani e irlandesi e lui era uno dei più frequentemente presi di mira per scherzi, beffe e umiliazioni, specie da parte di irlandesi e italiani. Lo sbeffeggiavano per i buchi e le toppe nei calzoni, per le scarpe sfondate. Anna non sembrava preoccuparsi affatto dell’aspetto esteriore del suo bambino; la sua sola idea fissa era andare in chiesa, pregare, accendere candele, recitare il rosario, tutte cose che, ovviamente, non offrivano alcun aiuto concreto a suo figlio.

    Di nuovo Anna era rimasta incinta. Questa volta era nata una bambina prematura, che avevano deciso di chiamare Roberta. Subito dopo era sopraggiunta un’altra gravidanza, ed era nato il quarto figlio dei Kuklinski, Joseph, destinato pure lui, come il fratello maggiore Richard, a diventare un killer senza rimorsi, uno psicopatico.

    Tre figli da nutrire, allevare e vestire avevano reso Stanley ancor più incazzato col mondo. Ad un certo punto aveva addirittura incominciato a portarsi a casa delle donne di malaffare con le quali amoreggiava senza scrupoli, così come gli andava. Quando Anna si lamentava la picchiava con la cinghia, a calci e pugni. Il re della casa era lui e aveva il diritto di fare il cazzo che voleva. Una volta in cui Richard era intervenuto in soccorso della mamma, era stato colpito dal padre così violentemente alla testa, da restarsene incosciente a letto per quasi tutta la notte. Quando finalmente si era ripreso, aveva un bozzo alla tempia grosso quanto un limone e non si ricordava più perché ce l’avesse e che cosa fosse accaduto. In questa atmosfera allucinante, Richard era dunque cresciuto odiando il genitore, fantasticando spesso di ucciderlo.

    Poi Stanley si era messo con una polacca e aveva smesso di andare in giro ubriaco. Da parte sua Anna era costretta a mantenere due lavori: il primo presso la Armond Meatpacking Company, il secondo presso la chiesa di St. Mary, impegnata, la sera, nella pulizia del pavimento quando la chiesa chiudeva.

    Anna, che nel frattempo si era fatta sempre più osservante, cercava costantemente di inculcare il timor di Dio nell’animo dei suoi figli e in specie in quello di Richard, tanto da costringerlo a frequentare la scuola cattolica, anche se il ragazzo si rendeva conto di quanto la chiesa fosse soffocante nei suoi insegnamenti ipocriti e restrittivi. Questa sensazione gli derivava dalla brutalità normalmente usata dalle suore e dai preti al St. Mary, dalla facilità con cui si compiacevano di infliggere punizioni corporali. Ai suoi occhi, quelle persone sembravano ancora più deboli e perverse del padre, cosa di per sé niente affatto facile. Richard era un ragazzo dislessico, leggeva con grande difficoltà e tutte le volte in cui cercava di aggiustarsi gli occhi strabici con le dita, le severe suore lo percuotevano sulle mani con un righello di metallo.

    Era il giullare, lo stupidotto della classe. Si divertiva a far ridere gli altri, ma questo gli procurava inevitabilmente qualche punizione. A volte, il viso austero ed arcigno, la suora lo strattonava per le orecchie fino a fargli male. Richard era convinto che quelle donne provassero un grande piacere nel somministrare punizioni corporali e nel castigare i loro giovani allievi.

    Su insistenza continua di Anna, era diventato chierichetto. Ogni domenica si svegliava presto e correva alla chiesa di St. Mary per servir messa. A vederlo lassù, sul pulpito, il sacerdote poteva persino sembrare una brava persona, con quei suoi solari discorsi sul dare e offrire, sull’altruismo e sui pericoli del peccato; per chi aveva fede sembrava davvero convinto. Ma Richard sapeva che la realtà era diversa, si trattava di uomini laidi, beoni, sempre soltanto pronti a condannare e a reprimere, capaci di schiaffeggiare anche un chierichetto quando non svolgeva il proprio servizio nel migliore dei modi. Uno di loro lo aveva avvicinato parlandogli di sesso, magnificando i pregi della masturbazione, al punto che, intimorito, Richard era costretto a badare di non rischiare di trovarsi mai da solo con quel porco di prete. Non conosceva nulla a proposito del sesso, ma sapeva che i preti ufficialmente lo bollavano come qualcosa di brutto, di peccaminoso. Anche le suore, da parte loro, non esitavano a ricorrere con grande rapidità a forme di violenza irrazionali, da scaricare sui poveri ragazzi che avrebbero dovuto educare. Ce n’era una, poi, che teneva sempre in mano una bacchetta di ferro appuntita. Un giorno gliela aveva premuta con tale forza sulle nocche di una mano da farlo sanguinare. Quando questa tortura si era praticamente trasformata in qualcosa di consueto, Richard era sbottato, dicendo: «Prova a battermi ancora una volta, brutta stronza, e ti spacco in due quella testa piena di merda, troia che non sei altro!».

    La donna, completamente sconvolta dalle volgarità di Richard, tutta rossa in volto, dopo aver lanciato un urlo era tornata in classe inviperita accompagnata da un prete il quale si era messo a picchiare Richard con tanta violenza che in un attimo gli aveva gonfiato la faccia, che aveva assunto il colore di un campo di fragole mature. Davanti agli occhi gli era comparso come uno sfavillio rosso e luccicante. Poi il prete lo aveva trascinato nel suo studio e qui aveva continuato l’opera, battendolo con un libro: la Sacra Bibbia. Più tardi, una volta a casa, se l’era prese pure dalla mamma, informata dei fatti.

    Da quel giorno in poi il già scarso interesse di Richard per la religione si era eclissato del tutto, convincendosi che suore e preti altro non erano che un’accozzaglia di sadici che usavano la religione e lo spettro anonimo di Dio per minacciare e manipolare la gente, dicendo quello che dovevano fare o non fare e come e quando farlo. Anche la religione – pensava – non era che un affare, fare il prete un mestiere e così, forte di queste convinzioni, si era allontanato dalla chiesa cattolica, dal suo mandato e dalla sua disciplina. La sola cosa che ancora gli piaceva era starsene da solo a meditare quando in chiesa non c’era più nessuno. A volte se ne stava ad osservare il volto emaciato di Cristo inchiodato sulla croce e si faceva delle domande: dov’era andato a finire Florian, perché la gente era tutta così cattiva, perché sua madre e suo padre lo picchiavano. Non gli arrivava mai una risposta. Eppure, se un Dio c’era davvero, come gli avevano detto di credere, non avrebbe dovuto permettere tutta la violenza che genitori, suore e preti scatenavano addosso ai bambini.

    Nulla da stupirsi se, ad un tratto, Richard aveva incominciato a rivolgere la sua rabbia sopita contro gli animali.

    Cani e gatti randagi erano diventati ben presto i suoi obiettivi preferiti. Si inventava per loro torture terribili, ben più crudeli e sadiche di quanto immaginabile in un ragazzino della sua età. Catturati due gatti, li legava per la coda, quindi li appendeva ad un filo per stendere la biancheria e assisteva ai loro contorsionismi per liberarsi, fino a quando, da ultimo, si squartavano il corpo in due. Gettava i gatti randagi nell’inceneritore, quindi lo accendeva per assistere alle loro smanie, nel vano tentativo di salvarsi cercando di risalire dalla canna fumaria inaccessibile. Si divertiva un mondo a cacciare i cani raminghi per dargli fuoco con la benzina e vederli correre in tondo cercando disperatamente di autospegnersi. Mazze e spranghe di ferro gli servivano per spaccare la testa ed ammazzare questi poveri animali.

    Ne uccideva in tale quantità – utilizzando tecniche che gli sarebbero poi servite, in modo indiscriminato, anche nei confronti degli esseri umani – che ad un certo momento aveva fatto piazza pulita di tutto il quartiere e in giro non si vedeva più neanche un randagio. C’era qualcosa di fortemente fuori posto nella testa del giovane Richard Kuklinski; ma non c’era nessuno che si interessasse dei suoi problemi, del demone che lo stava insidiando e conquistando, fenomeni che si stavano ingigantendo a dismisura dentro di lui.

    3. Dita appiccicose

    Dapprincipio Richard aveva incominciato a rubare per mangiare. Anna, religiosa all’eccesso com’era, non poteva di certo rivelarsi una buona madre. Sembrava non si accorgesse che i suoi bambini avevano bisogno di nutrirsi, di mangiare con regolarità. Quando poi Stanley abbandonò la famiglia, Anna si era ritrovata ad essere la sola, sprovveduta responsabile della casa, impegnata a lavorare su due fronti, alla compagnia di imballaggio alimentare e alla chiesa di St. Mary come donna delle pulizie. Tuttavia, con tre ragazzi a carico e tutte le bollette da pagare, i soldi non bastavano mai, non c’era mai a sufficienza di nulla e così Richard, il più grande, aveva iniziato a rubare. La mattina si svegliava presto, per andare a rubare qualche brioches e qualche dolcetto dal camioncino di Drake, che ogni giorno faceva le consegne ai negozi e direttamente alle case a Jersey City e dintorni. Sebbene normalmente impacciato e timido, Richard se la cavava egregiamente quando era chiamato a rubare.

    Felino come un gatto, si avvicinava al furgone delle consegne e, non appena l’addetto si distraeva un attimo, lui si infilava nel vano aperto e velocemente raccattava tutto quello che gli veniva a tiro: dolci e cartoni di latte. Conduceva questi raid più volte la settimana, così che la sorellina Roberta e l’ancor più piccolo Joseph potevano mangiucchiare qualcosa d’altro, oltre al misero e poco nutriente pastone che Anna era solita preparare per loro, facendolo il più delle volte persino di malavoglia, sbuffando.

    Anche Anna era una fervida sostenitrice dell’utilità delle punizioni corporali. Quando era ospite nell’orfanotrofio del Sacro Cuore veniva regolarmente picchiata e questa impronta le era rimasta, tanto che a volte a Richard veniva da pensare che forse, da quel punto di vista, la mamma era ancor peggio del papà, cosa di per sé niente affatto facile. Spesso lo picchiava sulla testa, questo anche dopo l’increscioso incidente che aveva portato alla morte di Florian. Se decideva di punirlo, gli si scagliava addosso senza preavviso, quando lui meno se l’aspettava. Una volta, quando lo aveva percosso con il manico rigido di una spazzola, Richard gliela aveva strappata dalla mano. Al pari del padre, anche lui aveva un temperamento niente affatto tranquillo. Allora la madre aveva afferrato una casseruola di ferro e Richard se l’era dovuta svignare fuori casa.

    Si chiedeva in continuazione come mai sua madre l’odiasse tanto. Perché era così crudele e cattiva con lui? Che cosa aveva fatto per suscitare in lei un così forte rancore nei suoi confronti?

    Un’altra ottima fonte di cibo erano i vagoni ferroviari che tagliavano in ogni senso Jersey City. Erano sempre stipati di ogni genere di merce, vettovaglie che venivano distribuite in ogni angolo del paese. Richard aveva imparato a saltarci sopra e a scardinare gli scatoloni o le casse pieni di arance e ananas. Altrettanto bene gli riusciva di scoperchiare i contenitori frigoriferi, da cui prelevare a man bassa confezioni di surgelati. Anna accoglieva volentieri il cibo che Richard si premurava di portare a casa. Non avrebbe mai potuto permettersi di comprarlo e così aveva smesso subito di rimproverare il figlio per questi raid quanto mai ben accetti. Dopo tutto, ora l’uomo di casa era lui, era a lui che toccava il ruolo fino a quel momento occupato dal padre. Ed in effetti Richard aveva per davvero preso il posto di Stanley, tanto che Anna, Roberta e Joseph guardavano a lui come a chi si era preso il compito di sfamarli. A Richard, tutto sommato, questo ruolo piaceva un sacco. Lo faceva sentire importante, cresciuto, più vecchio degli anni che aveva.

    4. Il primo sangue

    Chissà come, Anna era riuscita a farsi affidare un alloggio di edilizia popolare in un nuovo caseggiato di quattro piani, realizzato in mattoni rossi all’incrocio fra New Jersey Avenue e la 15ª Strada. Una vera e propria conquista in avanti per la loro famiglia. L’alloggio era riscaldato, ben isolato e possedeva comfort moderni. Tutto era nuovo e lindo. A Richard piaceva moltissimo quella nuova casa, i pavimenti in legno, come il sole penetrava dalle finestre, come tutto appariva pulito e perfetto, bello a vedersi.

    L’edificio era tutto occupato da lavoratori di fabbrica e molti erano i potenziali nuovi amici che Richard avrebbe potuto incontrare. Nel frattempo si era fatto alto e slanciato, i capelli lunghi e biondi, gli occhi dal taglio a mandorla profondamente scuri; solo le orecchie stonavano, un po’ troppo a sventola. In breve, tutti i ragazzi della casa avevano incominciato a prenderlo in giro. Lo motteggiavano per tutto, per l’aspetto, per come era vestito, per la magrezza, per i capelli biondi, ovviamente per le orecchie.

    «Ehi tu, sporco polacco», era l’insulto più frequente.

    La banda del condominio era un gruppo di cinque-sei ragazzi che stavano sempre insieme e che non solo osteggiavano Richard e non perdevano occasione di sfotterlo, ma a volte lo malmenavano, lo spintonavano, gli allungavano qualche ceffone, gli gettavano via il berretto da baseball che portava in testa, chiedendogli dei soldi per restituirglielo. Ma Richard era povero e di soldi non ne aveva mai. Questo gli procurava altre umiliazioni, invettive, insulti, calci e spinte tutte le volte che la banda lo incrociava. Oltre a tutto quello che di brutto già covava nell’animo di Richard, ciò che i ragazzi della banda gli stavano facendo altro non era che fornire dell’ulteriore propellente alla sua crescente rabbia interiore.

    Il leader riconosciuto di questa banda di punk era un ragazzo dai capelli neri, un certo Charley Lane. Era di poco più grande di Richard, leggermente più alto e senz’altro più ben messo di lui. Sembrava provasse un piacere incontenibile nel constatare la povertà della sua famiglia.

    Da parte sua, Richard non aveva amici, era un solitario. Non aveva nessuno con cui confidarsi, a cui lanciare la palla per riceverla. Gli sarebbe piaciuto avere degli amici, qualcuno con cui aggregarsi, un amico prediletto, qualcuno con cui andare a rubare; ma la sola cosa che i ragazzi del palazzo desideravano fare con lui era prenderlo in giro, minacciarlo, umiliarlo e sfotterlo chiamandolo sporco polacco; testa di cazzo e così via.

    Il fratello Joseph era troppo piccolo per poter diventare il suo amico, mentre la sorella, Roberta, aveva i suoi interessi che poco avevano a che spartire con quelli del fratello maggiore.

    Come spesso accade, anche Richard ad un tratto aveva trovato consolazione tuffandosi nelle riviste di cronaca nera. Aveva avuto modo di adocchiarle all’interno di un vicino negozietto di dolciumi e, grazie alle sue abilissime mani di ladruncolo, ogni settimana si portava in casa avventure sempre nuove ed eccitanti. Sul fronte del furto, Richard era cresciuto con una convinzione precisa, qualcosa che avrebbe poi confidato: lui era un ladro nato. Sapeva da sempre che la sua parte nella vita l’avrebbe recitata nel mondo del crimine, al di fuori della legge, ai margini della società, così che non aveva dovuto fare altro che accettare questa predestinazione, anziché scegliere quella data strada.

    In genere, leggere non gli piaceva; ma quelle riviste di cronaca nera, letteralmente le divorava. Leggeva lentamente, usando le lunghe dita affusolate per tenere il segno, tornando spesso a rileggere lo stesso passaggio più volte per comprenderne il senso, il significato segreto e nascosto, autentico. Sentendosi così affascinato dal mondo del crimine, si era fatto punto d’impegno di comprenderne il linguaggio, di ripassarne le parole nella testa, immaginando colpi, furti ed omicidi, così vividamente descritti in quelle riviste con semplici frasi ad effetto. Quando c’era bel tempo, amava recarsi lungo le rive dell’Hudson per leggere nel silenzio, cullato dal rumore dell’acqua. Qui se ne poteva stare tranquillo, senza il timore che qualcuno lo disturbasse. Proprio davanti a Jersey City, spingendo solo un poco lo sguardo, si poteva scorgere Manhattan, un posto pieno di vita e di palazzi alti fino al cielo, dove viveva gente ricca che poteva permettersi di mangiare tutto il cibo che voleva e quanto ne voleva, e di questo Richard era assolutamente certo.

    Ciò che più lo intrigava nella lettura era come i crimini, specie gli omicidi, venivano risolti. Per ore ed ore, fino a che non arrivava alla fine, affondava gli occhi in quelle riviste di cronaca nera; pagine e descrizioni che gli descrivevano il comportamento criminale come mai gli era capitato di leggere o sentire, tutte introspezioni che, in seguito, gli sarebbero tornate quanto mai utili e di cui avrebbe fatto buon uso. I racconti narrati con le semplici parole di quelle riviste dalle copertine sgargianti trasudanti violenza, avevano incominciato a riempirgli la testa come gas malefici, apportatori di fantasie violente e immaginifiche rivolte a danno di tutti coloro che negli anni avevano abusato di lui, l’avevano picchiato e maltrattato, preso in giro, insultato. Aveva iniziato a pensare a tutti coloro che odiava... ad ucciderli, a consumare una terribile vendetta.

    Come tutti i teenager anche a Richard piaceva poter fare le cose dei grandi. Smaniava per un’automobile, potersene andare in giro a vedere il mondo grazie alla libertà che ti concede una macchina, andarsene dove desiderava, magari anche fino a Manhattan, la città, qualora avesse un giorno pensato di farlo. Proprio non lontano da casa sua, lungo la 16ª Strada, c’era un vasto parcheggio. Richard aveva incominciato a frequentarlo per rubare un’auto, per farsi un eccitante giretto nei dintorni di Jersey City e poi abbandonarla da qualche parte. Per la sua età era un ragazzo alto e aveva imparato in fretta a maneggiare il volante, lo sterzo, e a usare i pedali del freno e dell’acceleratore. Si pregustava questi raid in macchina. Pensava che un giorno anche lui avrebbe posseduto una macchina stupenda, magari una Cadillac oppure una Lincoln Continental. Sognava di viaggiare lungo l’Holland Tunnel, di visitare la città, anche se aveva paura che qualche casellante gli facesse delle storie, lo potesse scoprire. Tutto questo immaginava nella sua mente eccitata e queste fantasie lo facevano sentire grande e indipendente, libero. E pensare che aveva soltanto 13 anni e, malgrado tutto, non gli mancavano certo le palle per fare certe cosette.

    Quello stesso inverno la situazione nei confronti della banda del condominio era diventata intollerabile. Non lo lasciavano mai stare, lo tormentavano sempre ed ovunque, gli scherzi e le umiliazioni si facevano via via sempre più sgradevoli, frequenti e violenti. Un giorno Richard aveva provato a reagire, ma aveva rimediato un vero e proprio pestaggio: gli erano volati addosso in quattro, lo avevano riempito di calci e pugni e quando era caduto a terra di sputi. Ne aveva prese così tante che per una settimana intera non aveva potuto uscire di casa. Anna avrebbe voluto denunciare ogni cosa alla polizia e far arrestare quei teppisti, ma Richard si era opposto, non aveva voluto: «Non sono una spia!», si era messo a gridare, «saprò sistemare questa faccenda da solo.»

    Da tempo conosceva le ferree leggi della strada e uno dei suoi primi comandamenti era chiaro: mai rivolgersi alla polizia. La vicina Hoboken era un covo riconosciuto della mafia, un suo cuore pulsante, base della celeberrima famiglia dei De Cavalcante (in seguito motivo ispiratore per la fortunata serie televisiva The Sopranos) ed il pur giovane Richard sapeva che soltanto le spie si rivolgevano alla polizia.

    No, avrebbe risolto la faccenda per conto suo, a tempo debito. Quello che maggiormente si era accanito contro di lui il giorno del pestaggio era il capo della banda, Charley Lane. Richard lo odiava e si era ripromesso di focalizzare la furia della sua futura vendetta proprio su di lui, su quello stronzo che camminava con quell’andatura ondeggiante che lo faceva sembrare una scimmia. Notte dopo notte, quand’era a letto, metteva a punto i piani di vendetta, e questi pensieri lo avevano accompagnato lungo tutta la settimana della convalescenza. Immaginava di pugnalare Charley, di colpirlo con una chiave inglese, di schiacciarlo facendogli precipitare in testa un blocco di cemento, mentre stava camminando lungo lo stretto percorso che costeggiava la facciata del condominio. Aveva deciso che avrebbe seguito e attaccato Charley nel cuore della notte. Era accaduto la notte di un venerdì particolarmente gelido. Richard aveva pensato di armarsi del bastone di sostegno dell’armadio dell’ingresso, una ben tornita e robusta sbarra di legno lunga una sessantina di centimetri. Era perfetta alla bisogna e, per realizzare ciò che aveva in mente, leggera e letale. Proprio accanto all’armadio dell’ingresso era appesa una fotografia di Florian, che Anna era solita baciare ogni volta che usciva di casa (si sentiva gravemente in colpa per ciò che era successo al suo primogenito, per aver permesso che Stanley lo uccidesse di botte, per aver contribuito fattivamente a coprire il delitto.

    Era un peso soffocante e colossale che gravava sulla sua coscienza, destinato ad accompagnarla per tutto il resto della sua vita. Un peso immane che la faceva addirittura apparire più piccola e minuta, quasi ingobbita, un rimorso che avrebbe contribuito alla sua morte prematura). Accanto all’immagine di Florian, Anna aveva anche appeso quella di un Gesù sofferente e un’altra di Maria, avvolta nel classico mantello azzurro, due immagini che la iperreligiosa Anna soleva baciare ogni volta che vi posava sopra lo sguardo. La sola altra fotografia presente in casa era quella di Micky, il fratello di Anna. Viveva in un quartiere ricco di New York con la moglie Julia. Micky era un uomo onesto e gentile e passava alla sorella tutto quel poteva. Era la sola persona che si fosse occupata di Richard in modo amorevole. Quando si era diplomato gli aveva fatto dono di un bell’orologio. Nel corso di un’estate Richard aveva trascorso alcuni giorni di vacanza a casa sua: gli era sembrato di sognare, un’esperienza bellissima che si sarebbe portato nel cuore per tutta la vita.

    «Lo zio Micky è l’unica persona adulta che si è mostrata buona con me. È davvero un uomo generoso e non potrò scordarlo mai», pensava di lui.

    Nella casa di zio Micky tutto era lindo e luccicante ed il cibo era sempre di prim’ordine. Per la prima volta nella sua vita Richard si era reso conto che c’era gente che viveva diversamente da lui, in un altro modo, migliore, e quei giorni non li avrebbe mai potuti dimenticare. Quella era la vita che avrebbe voluto per sé.

    I forti venti che quella sera di venerdì battevano gelidi la città e si infilavano negli androni delle case, piegavano le cime degli alberi e facevano sbattere le persiane alle finestre. Aveva nevicato per tutta la settimana e pericolose lastre di ghiaccio ricoprivano strade e sentieri. Indossati due maglioni sbrindellati, infilato un giubbino caldo, ma così liso da far apparire i gomiti, fatta scivolare l’asta di legno in una delle maniche, Richard era uscito all’aperto per andare ad attendere Charley Lane, invasato da un profondo desiderio di rivalsa che gli bruciava dentro come un fuoco. Fuori, si era appostato di fronte all’ingresso che dava sulla New Jersey Avenue, la schiena appoggiata al muro dell’ala del caseggiato dove viveva la famiglia Kuklinski. Quasi certamente, per rientrare a casa, Charley avrebbe scelto proprio quel percorso. Glielo aveva visto fare molte volte. Nel punto della facciata di mattoni rossi in cui Richard si era appoggiato passava proprio la canna fumaria dell’inceneritore del fabbricato e quel tepore gli infondeva un certo coraggio, anche se era il fuoco della rabbia che covava nell’animo il calore che alimentava la sua intenzione. Mentre aspettava, aveva osservato alcuni uomini che abitavano nel caseggiato uscire dal bar al di là della strada, quello stesso a volte frequentato dal padre Stanley. L’immagine del padre gli era ricomparsa subitanea alla mente; pensava all’odio che provava per lui, un sentimento forte, cresciutogli dentro come un cancro maligno; pensava a quante volte aveva fantasticato di procurarsi una pistola ed ucciderlo, per farla finita una volta per tutte. Non gli riusciva di pensare a lui come a suo padre, ma semplicemente come a Stanley, dentro di sé non diceva mai mio padre.

    Richard non aveva la minima idea di quanto avrebbe dovuto aspettare, tanto che ad un certo momento stava quasi per tornarsene a casa quando aveva scorto Charley sopraggiungere proprio dalla New Jersey Avenue. Era proprio lui. Una morsa allo stomaco; il cuore che aveva incominciato a battere all’impazzata. Al momento giusto Richard era uscito dal suo nascondiglio. Charley aveva fatto una faccia stranita quando se l’era visto comparire davanti all’improvviso.

    «Che cazzo vuoi, polacco?», gli aveva subito chiesto. Richard non aveva risposto, lo guardava semplicemente con calma, sostenuto da un odio gelido.

    «Cerca ti toglierti dai piedi e lasciami passare, se non vuoi che te le dia un’altra volta, fottuto, lurido polacco».

    «Okay, dài, provaci», gli aveva risposto. In un attimo Charley si era predisposto alla lotta, ma Richard lo aveva anticipato ed estratta la sua arma nascosta, senza alcuna esitazione e con tutta la forza che aveva in corpo lo aveva colpito sulla nuca, appena sotto l’orecchio. Del tutto sorpreso, Charley, la testa fra le mani, era indietreggiato, gli occhi gonfi di rabbia, stupore, indignazione. Spinto da un misto di paura e di animosità travolgente, Richard gli era corso dietro, colpendolo ancora e ancora sulla schiena, fino a farlo cadere a terra. A questo punto gli si era scagliato addosso colpendo, colpendo, colpendo. Non aveva intenzione di ucciderlo, voleva soltanto impartirgli una lezione da non dimenticare; voleva che lo lasciassero in pace. Ma tutta la rabbia che gli covava dentro – un mondo di ira repressa – stava venendo allo scoperto, scatenandosi a danno di quel ragazzo ormai abbattuto. Quando, finalmente, aveva smesso di picchiare, Charley se ne stava accasciato, immobile. Lui, intanto, lo spintonava con i piedi, lo colpiva con dei calci e lo insultava, gridandogli contro con ira. Charley continuava a non muoversi; Richard lo sfidava a battersi: «Dài, alzati, vieni, tirati su», sibilava attraverso i denti serrati. Charley se ne stava a terra come un cencio. A questo punto l’aveva rivoltato e gli aveva tastato il collo, lo aveva imparato leggendo le riviste di cronaca nera. Niente.

    Spaventato, terrorizzato, il giovane Richard aveva intuito che Charley era morto e che ad ucciderlo era stato lui. Immediatamente la sua fantasia aveva immaginato il drammatico quadro delle conseguenze che ne sarebbero derivate. Lo avrebbero messo in prigione, quella tetra, grande casa, per il resto della vita. Era come impietrito. Per quanto odiasse Charley, voleva soltanto riempirlo di botte e non certo ucciderlo. Voleva restituirgli un po’ della sofferenza che gli aveva fatto patire, quel continuo perseguitarlo che lo rendeva ansioso e spaventato. Ma non ucciderlo. Che cosa avrebbe fatto, adesso? Non c’era nessuno a cui poter raccontare quello che era accaduto: non certo la madre, ma neppure il caro zio Micky. Si sforzava di respirare lentamente e senza frenesia, per poter pensare il da farsi, ideare un piano, la mente che gli rimbalzava i pensieri come palline impazzite.

    Sapeva istintivamente che la sola cosa utile da fare era quella di far sparire il cadavere. Ma come? Dove?

    Nel parcheggio lungo la Sedicesima aveva sistemato un’auto rubata, una Pontiac blu scuro, che aveva trovato un paio di giorni prima di fronte ad un negozio di Hudson Boulevard, le chiavi inserite nel cruscotto. Doveva correre al parcheggio non lontano, prendere la macchina, imboccare la New Jersey Avenue e fermarsi davanti all’ingresso del caseggiato. Così aveva fatto. Charley era grande e grosso, un peso morto. Assicuratosi il via libera, afferrato Charley saldamente per il colletto della giubba, lo aveva trascinato verso la Pontiac, approfittando anche delle lastre di ghiaccio che ricoprivano le strade per farlo scivolare senza fatica. Aperto il cofano, lo aveva in qualche modo riposto all’interno. Quando stava per chiudere si era accorto che nel baule dell’auto c’erano degli attrezzi, fra cui un grosso martello ed un’accetta. Prima di risalire in macchina aveva dato un’attenta occhiata tutto attorno per accertarsi che non ci fosse nessuno affacciato a qualche finestra ad osservare la scena. Tutto sembrava tranquillo. Salito sulla Pontiac aveva messo in moto, imboccato la panoramica Pulaski e puntato in direzione sud. Non sapeva ancora bene che cosa avrebbe fatto, per ora ciò che gli importava era non farsi prendere. Acceso il riscaldamento, aveva poco alla volta incominciato a tranquillizzarsi. Sapendo che se un’auto della polizia stradale l’avesse fermato sarebbe stata la fine, guidava rispettando i limiti di velocità. In quel frangente di calma apparente dentro l’animo di Richard si stava intanto risvegliando una sensazione nuovissima, mai provata prima di allora: si sentiva dentro un senso di onnipotenza. Una specie di invincibilità. Gli venivano alla mente le umiliazioni ed i soprusi che in tutto quel tempo era stato costretto a subire ad opera di Charley, gli sfottò, le botte, gli agguati, i calci e i pugni, e si sentiva soddisfatto di quello che gli aveva fatto. Aveva da sempre fantasticato di uccidere qualcuno, ora l’aveva fatto per davvero e la cosa lo faceva sentir bene.

    «Non permetterò mai più a nessuno di farmi del male, di prendermi in giro», si diceva a voce bassa, nella tiepida quiete dell’abitacolo.

    Dopo un paio di ore di viaggio, si era messo a pensare concretamente a che fare. Intanto aveva raggiunto South Jersey, una zona ricoperta da tratti paludosi e conifere. Ad un tratto, dallo specchietto retrovisore aveva adocchiato un ponticello che si affacciava su un laghetto gelato, tutto circondato da fittissimi, alti canneti giallastri. In giro non c’era anima viva. Il vento soffiava. Fermata la Pontiac, aveva spalancato il baule. Quel bastardo di Charley Lane era più pesante di quanto sembrasse. Per fortuna il rigore della morte non era ancora in atto e il cadavere risultava ancora abbastanza mobile. Con grande fatica lo aveva tirato fuori dall’auto e adagiato sul terreno ghiacciato. Aveva preso gli attrezzi. Sapendo dalle letture fatte che la dentatura di Charley avrebbe potuto far riconoscere il cadavere e, di conseguenza, indirizzare le indagini alla scoperta dell’assassino, con il martello gli aveva fatto saltare tutti i denti. Poi gli aveva troncato la prima falange di tutte le dita delle mani. Denti e tronconi li avrebbe smaltiti altrove. Da ultimo si doveva sincerare che Charley non si portasse addosso qualche documento di identità. Perlustrando il cadavere aveva rimediato qualche dollaro e nient’altro. Adesso poteva gettare il corpo giù dal ponte. L’impatto aveva frantumato la sottile crosta di ghiaccio. Tornato alla macchina, aveva fatto rientro a Jersey City. Una volta arrivato, si era liberato degli altri resti di Charley che si era portato appresso, sapendo che uccelli ed altri animali prima o poi li avrebbero fatti sparire. Tutti questi accorgimenti li aveva appresi dalle letture delle riviste di cronaca nera di cui era tanto appassionato. Da quel giorno il destino di Richard era stato segnato inequivocabilmente.

    Mentre tornava a casa, una gelida pallida alba incorniciava il cielo della città. Ad oriente, il cielo si stava progressivamente tingendo di un colore arancio carico. Ora sarebbe stato opportuno liberarsi della Pontiac e così l’aveva abbandonata in un parcheggio di Hoboken. Una passeggiata per tornare a casa sarebbe stata salutare. Era diventato un altro.

    Si sentiva fiero di sé, di come si era mantenuto freddo sotto pressione, di come aveva agito in modo lucido ed esperto; l’eccitazione gli impedì di prendere sonno. Per la prima volta nella sua vita, si sentiva finalmente qualcuno, una persona meritevole di rispetto. Poteva decidere della vita e della morte della gente, del quando, dove e come. L’ultimo pensiero che gli aveva attraversato la mente prima di addormentarsi, finalmente, era stato: «Fottimi ed io ti ammazzo... io ti ammazzerò!».

    5. Rinato

    Nei giorni successivi Richard aveva incontrato più volte la banda del condominio, ma senza Charley alla sua testa, Charley che del gruppo era il capo riconosciuto, che teneva tutti aggregati, che infondeva coraggio, che decideva. Lo avevano lasciato stare. Ma questa volta era stato lui che non aveva lasciato stare loro. Lo avevano tormentato per anni, una cosa che non poteva assolutamente scordare. Armato di una corta spranga li aveva affrontati tutti, uno per uno, picchiandoli selvaggiamente, senza pietà. Da quel momento nessuno più lo aveva disturbato. Anzi, quando lo avvistavano da lontano, evitavano di incrociare il suo percorso, non riuscivano più a reggere il suo sguardo.

    «Fu allora che imparai che, dopo tutto, era molto meglio dare che ricevere», ha raccontato Richard recentemente.

    Attorno alla misteriosa sparizione di Charley si facevano molte illazioni, ma nessuno mai la metteva in qualche modo in relazione con Richard, la spranga dell’armadio, la Pontiac. Pensando di aver commesso il delitto perfetto, Richard aveva incominciato a considerarsi un criminale incallito e spietato, qualcuno da cui doversi guardare. In pochi giorni si era trasformato da bambino impaurito in ragazzo pericoloso. Andava in giro con una mazza da baseball, pronto ad usarla contro chiunque, uomini o ragazzi che fossero, se solo si sentiva infastidito. D’altra parte aveva un mucchio di conti da saldare. Setacciava Jersey City con metodicità certosina, ogni tanto pescava uno di quelli che tempo prima lo avevano tormentato e gli rendeva pan per focaccia senza troppa esitazione. Per la sua età era un ragazzo piuttosto alto, braccia e gambe lunghe, una forza senz’altro superiore alla media. In brevissimo tempo si era guadagnata la fama di tipo tosto, certamente uno da non sfottere ma da rispettare, e questo gli piaceva un mondo, lo gratificava.

    La mazza da baseball era un attrezzo troppo vistoso e ingombrante, così l’aveva sostituita con un coltello da caccia che non aveva remore ad usare anche con pessime intenzioni qualora lo ritenesse necessario.

    Charley Lane non gli veniva mai in mente. Era morto e se n’era andato all’inferno. Che fossero i maltrattamenti subiti dal padre Stanley, le botte della madre Anna o le tante percosse alla testa che Richard aveva subito nella sua fanciullezza, oppure che fosse nato proprio così, con un qualche gene della cattiveria nel suo DNA, Richard non aveva alcun ripensamento, alcun rimorso, nessuna remora a sfregiare qualcuno, ad uccidere persino.

    Il pensiero di uccidere era in lui il naturale risultato del vivere in mezzo alla giungla e Richard aveva esattamente questa immagine del mondo: una giungla intricata e violenta, dove lui aveva deciso di recitare il ruolo del predatore e non della preda. In definitiva – anche per quello che sarebbe accaduto dopo – Richard era un killer nato.

    Con la scuola Richard non andava d’accordo e non ci andò quasi più. Ad un certo momento aveva incominciato a frequentare bar, ritrovi e sale biliardo. Gli piaceva giocare al biliardo, per la precisione necessaria, le sue regole esatte, il tempo, la strategia. Ci giocava costantemente, per ore e ore ogni giorno, perfezionando i colpi, lo stile, la tecnica, la coordinazione dell’occhio, lo studio del colpo corretto al momento giusto, l’apprendimento dei colpi più talentuosi e difficili. Grazie alla sua statura e, soprattutto, alle lunghe braccia dinoccolate, riusciva a rendere facili anche quei colpi che per altri risultavano ostici da eseguire. Presto si era reso conto che giocando bene a biliardo si potevano raggranellare dei bei soldini e così fantasticava di diventare un asso imbattibile, un campione, uno squalo del biliardo in grado di battere chiunque.

    Richard possedeva la straordinaria abilità di sapersi muovere furtivamente. Era una dote spontanea, che gli consentiva di arrivare accanto a qualcuno rapidamente e senza farsene accorgere. Un pomeriggio era tornato a casa inaspettatamente. Una volta dentro aveva sentito uno strano rumore, come un respiro affannoso, un sospiro ritmato. Movendosi nel più perfetto silenzio si era affacciato al salotto e qui aveva scoperto la madre sdraiata sul divano mentre faceva sesso col vicino di casa, un uomo sposato, padre di tre figli. Le gambe di Anna stavano alte, sollevate, completamente aperte; l’uomo la stava prendendo con foga, mostrando quel suo culo peloso e flaccido. Richard avrebbe voluto piantargli il suo coltello nella schiena ed invece si era ritratto, deluso e disgustato, prendendo in odio la madre. Da sempre gli aveva riempito la testa a proposito del sesso come qualcosa di sporco e laido, qualcosa da non fare, e adesso se ne stava lì, alla luce del sole, a scopare con il vicino della porta accanto. Che ipocrita, che bugiarda, che puttana, aveva pensato, ed era fuggito via al bar di Jack ad Hoboken per un’altra partita a biliardo.

    Diventato sempre più bravo, Richard aveva incominciato a fare quattrini giocando a biliardo. Con quel suo timido modo di fare e quel viso da ragazzino molti di coloro che accettavano di giocargli contro pensavano di poterlo battere con facilità, ma immancabilmente perdevano. Le volte in cui, giocando, aveva da discutere in modo animato con qualcuno, non esitava ad usare le stecche per colpire, specie quelli che non onoravano le scommesse, non pagavano la posta in palio. Presto aveva imparato che, in questi casi, se colpisci forte per primo, la maggior parte delle volte hai già vinto, la rissa si placa, la disputa è risolta. Potere voleva quasi sempre dire diritto, sicurezza.

    La sua reputazione di tipo tosto si era sparsa con rapidità a Jersey City e Hoboken e non c’era più nessuno nei dintorni che pensasse di importunare Richard Kuklinski. Non poche volte aveva avuto a che fare con tipi accompagnati da amici, eppure anche in quelle occasioni non aveva piegato la testa. Niente lo spaventava, era così spavaldo da sembrare incosciente. Una volta si era battuto contro due fratelli a cui aveva dato una mano un terzo, un loro amico, e se l’era vista brutta, ma non gliela aveva fatta passare liscia. Una sera aveva aspettato che i due lasciassero il bar, li aveva pedinati fino a casa per sincerarsi dove abitavano ed era tornato qualche sera dopo. Si era appostato nell’ombra, in attesa del momento opportuno per attaccare. Dapprima aveva pugnalato uno dei fratelli; poi aveva colpito in pieno stomaco l’amico, quindi si era precipitato sulle scale per andare a prendere il secondo fratello in casa sua, ma questi era riuscito a svignarsela. Per farla breve, Richard era visto come un ragazzo decisamente pericoloso. Altri giovinastri avevano così incominciato a gravitargli attorno. Era un leader naturale, possedeva uno spirito corrosivo, cinico e soprattutto sapeva tagliare una gola con la stessa facile naturalezza con cui sputava per terra.

    In breve aveva organizzato una specie di banda. Erano in cinque, tre polacchi (fra cui Richard), un ragazzo irlandese ed uno italiano. Si facevano chiamare Rose in Fiore ed ognuno si era fatto tatuare sul braccio sinistro un piccolo rotolo di pergamena con su scritto il nome della banda. Il motto stava a significare che c’erano tante belle cose da fare e che chiunque si fosse permesso di contrastare uno di loro si sarebbe presto trasformato in fertilizzante per piante. Siglato una sorta di giuramento di fedeltà alla banda, i cinque aveva incominciato insieme a mettere a segno colpi e furti.

    La prima pistola Richard l’aveva ricevuta da un tizio con cui giocava a biliardo. Era una calibro 38, con canna da 15 centimetri. Con i suoi compagni si recava sul litorale abbandonato di Jersey City per esercitarsi al tiro. La zona era abitata da figli di operai, lavoratori distrutti dalla fatica, ubriaconi per disperazione, i cui ragazzi per la maggior parte non ne volevano sapere della scuola, erano fortemente antisociali, spavaldi e rissosi. Era inevitabile che, prima o poi, sarebbe accaduto qualcosa di grave.

    La seconda persona uccisa da Richard fu un uomo che si chiamava Doyle, un irlandese con una faccia paonazza e una bocca storta dalle labbra sottili. Un giorno era capitato da Danny, un locale con biliardo ad Hoboken. Gli piaceva bere forte e quando era sbronzo diventava invadente, fastidioso e violento. Richard stava scommettendo soldi con lui e lo stava battendo inesorabilmente, partita dopo partita. Ad un tratto, incazzato, Doyle lo aveva chiamato sporco polacco.

    Tutti a Jersey City sapevano che Doyle era un agente e anche Richard lo sapeva e, malgrado la sua voglia omicida si fosse immediatamente ridestata, ben intuiva che non avrebbe potuto vendicarsi davanti a tutti. Più Doyle lo insultava, più Richard impazziva per essere costretto a trattenere la sua rabbia. Quell’uomo gli faceva venire in mente Stanley, il padre; una rassomiglianza fatale. Piuttosto che controbattere alle offese di

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