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La lettera dell’amore perduto
La lettera dell’amore perduto
La lettera dell’amore perduto
E-book457 pagine6 ore

La lettera dell’amore perduto

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Info su questo ebook

Italia, 1959. Rachael è una giovane vedova con una bambina piccola. Dopo essere fuggita dai tumulti dell’Ungheria, ha trascorso alcuni mesi difficili in un campo per rifugiati. E adesso non ha nessun posto da chiamare casa. Quando il destino la porta nella soleggiata isola di Sant’Antioco, in Sardegna, Rachael comincia a sperare in un nuovo inizio. Il mare cristallino e la luce incantata delle scogliere, infatti, potrebbero dissipare le ombre del suo passato e riuscire persino a farle trovare il coraggio di amare.
Inghilterra, 2016. Sophie ha un marito affascinante, una bella casa e una carriera avviata come antropologa. La sua unica preoccupazione è quella di non riuscire ad avere un figlio, cosa che rischia di mettere in crisi il suo matrimonio. Nel tentativo di distrarsi, cerca conforto nei suoi ricordi d’infanzia, frugando tra le cose della sua adorata nonna Rachael. E così un pomeriggio trova un bellissimo braccialetto, conservato insieme a una lettera. Sophie ancora non lo sa, ma uno straordinario viaggio nel passato sta per cominciare.

Sarà un'estate indimenticabile 

I segreti del passato possono cambiare per sempre il destino di una famiglia

«Un libro speciale, che cattura. Sa scaldare il cuore e far commuovere!»

«Le descrizioni del mare di Sant’Antioco sono piene di magia. Ho voglia di partire!»

«Magistrale, riesce a trasportarti dentro le pagine. Un libro che ti rimane dentro.»

Debbie Rix
è un’autrice di quattro romanzi storici di successo ambientati in Italia. Nonostante sia inglese, infatti, passa moltissimo tempo nel nostro paese, di cui è innamorata. Ha lavorato per anni come presentatrice e reporter della BBC. La lettera dell’amore perduto è il primo libro pubblicato con la Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2019
ISBN9788822732866
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    Anteprima del libro

    La lettera dell’amore perduto - Debbie Rix

    EN.jpg

    Indice

    Prologo

    PRIMA PARTE

    Capitolo 1. Herne Hill, Londra

    Capitolo 2. Budapest

    Capitolo 3. Herne Hill

    Capitolo 4

    Capitolo 5. Gloucestershire

    Capitolo 6. Londra

    Capitolo 7. Gloucestershire

    Capitolo 8. Hampstead

    SECONDA PARTE

    Capitolo 9. Sardegna, Italia

    Capitolo 10. Gloucestershire

    Capitolo 11. Sant’Antioco

    Capitolo 12. Gloucestershire

    Capitolo 13. Sant’Antioco

    Capitolo 14. Gloucestershire

    Capitolo 15. Sant’Antioco

    Capitolo 16. Sant’Antioco

    Capitolo 17. Gloucestershire

    Capitolo 18. Sant’Antioco

    TERZA PARTE

    Capitolo 19. Londra

    Capitolo 20. Londra

    Capitolo 21. Hampstead

    Capitolo 22. Gloucestershire

    Capitolo 23. New York

    Capitolo 24. Gloucestershire

    Capitolo 25. New York

    Capitolo 26. Gloucestershire

    Capitolo 27. Londra

    Capitolo 28. Gloucestershire

    QUARTA PARTE

    Capitolo 29. Hampstead

    Capitolo 30. Sardegna

    Capitolo 31. Sant’Antioco

    Capitolo 32. Gloucestershire

    Capitolo 33. Londra

    Una lettera da parte di Debbie Rix

    Appendice storica

    Ringraziamenti

    narrativa_fmt.png

    2312

    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Titolo originale: The Photograph

    Copyright © Debbie Rix, 2018

    Debbie Rix has asserted her right to be identified

    as the author of this work

    All rights reserved

    First published in Great Britain in 2018

    by Storyfire Ltd trading as Bookouture

    Traduzione dall’inglese di Silvia D’Ovidio

    Prima edizione ebook: giugno 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3286-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Debbie Rix

    La lettera dell’amore perduto

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    Per Anthony

    Prologo

    La folla del paese vorticava e si muoveva, e per un attimo si aprì un varco tra lei e Tommaso. Lui per un secondo alzò lo sguardo dalle carte che aveva in mano. Quando la vide, la riconobbe in un istante. Disse qualcosa al suo amico e si alzò. Lei gli rivolse un sorriso fugace, poi se ne andò. Tornò alla macchina, fece inversione sulla stradina e imboccò la circonvallazione intorno al paese, diretta a Cagliari. Poi il traghetto per Roma, e infine Londra. Verso tutto quello che le era più caro.

    Prima parte

    Io appartengo a te;

    davvero non c’è nessun altro modo di esprimerlo,

    e anche questo non è sufficientemente forte

    Franz Kafka

    Capitolo 1

    Herne Hill, Londra

    Marzo 2016

    Sophie chiuse il più piano possibile la porta del ripostiglio, attenta a non svegliare suo marito, che dormiva nella stanza da letto di fronte. Il ripostiglio era pieno di valigie polverose del trasloco di cinque anni prima, cosa che la seccava moltissimo. Voleva che la stanza venisse liberata, ma Hamish si rifiutava di aiutarla. Quel disaccordo insignificante andava avanti da diversi mesi e faceva parte di una lotta molto più grande, una complicata miscela di tensione che cuoceva a fuoco lento e si inaspriva tra marito e moglie.

    Sophie scese in cucina, mise il bollitore sul fornello e cominciò a riordinare i resti della sera prima. Avevano avuto amici a cena e il lavandino era ancora pieno di padelle lasciate in ammollo. Era stata una serata piacevole – tra scherzi, discussioni di politica e pettegolezzi di lavoro – ma, tra loro due, in agguato sotto la superficie, giacevano strati di rancore inespresso che a intermittenza venivano a galla. A fine serata Sophie aveva riempito il lavandino di acqua calda e aveva iniziato a lavare i piatti. Hamish, frastornato dal vino rosso e dal brandy, si era messo in piedi dietro di lei, le aveva cinto la vita e annusato il collo.

    «Smettila», gli aveva detto. «Aiutami, piuttosto».

    Hamish, offeso, se l’era filata a letto.

    Quando Sophie l’aveva raggiunto avevano litigato, prima di mettersi a dormire ognuno dal proprio lato, pieni di astio.

    Il giorno dopo, mentre lavava e asciugava le pentole, per poi sistemarle in fondo alla credenza, Sophie aveva ripensato a Hamish; al modo in cui le aveva dato le spalle a letto la sera prima. Sentiva ancora un barlume di rancore per il suo rifiuto di aiutarla, ma comunque preparò due tazze di tè – un piccolo gesto di rappacificazione – e le portò al piano di sopra. Hamish era seduto a letto a controllare le mail sul telefono.

    «Buongiorno», le disse. «Mi dispiace per ieri sera. Avrei dovuto aiutarti».

    «Già… be’. Ora ho pulito tutto». Appoggiò la tazza sul comodino.

    «Grazie». La guardò circospetto, sotto le ciglia assonnate. «Ero solo stanco», spiegò.

    Lei lo studiò per un attimo con i suoi occhi grigio-verdi, poi andò verso il comò e prese la spazzola.

    «Ma non è una scusa, giusto?». Aspettò per un attimo che lei rispondesse ma sembrava intenta a spazzolarsi vigorosamente i lunghi capelli scuri.

    «Sono solo preoccupato per quella domanda di lavoro», continuò, per spiegarsi. «Sai quanto è importante per me».

    «Lo capisco, Hamish», disse impassibile, voltandosi a guardarlo, «ma ora non ho tempo di discuterne, davvero. Devo andare a lavorare».

    «Ne parliamo più tardi, allora?». Sorseggiò il tè, ammirando il modo in cui il kimono di seta le scivolava giù da una spalla; i capelli scuri le ricadevano in ciocche lucide giù per la schiena. «Sophie?».

    Lei non rispose, ma attorcigliò velocemente i capelli in uno chignon che fissò con mani esperte con un paio di pettinini. Poi scelse una gonna nera dall’armadio.

    «Perché non torni a letto?», le chiese.

    «Stamattina non posso, scusa», disse dall’altro lato della stanza. «Ho un incontro con il supervisore del dottorato, devo proprio andarci».

    Dopo aver indossato una maglia celeste sulla gonna nera, infilò gli appunti in borsa, si chinò sul letto e lo baciò velocemente su una guancia. Il tipo di bacio che si dà a un parente lontano, non il bacio di una moglie al marito.

    «Non devi andare anche tu?», gli chiese controllandosi allo specchio.

    «Oggi comincio un po’ più tardi», disse.

    «Allora è il momento di sistemare il ripostiglio», lo incalzò, mettendosi la borsa in spalla.

    «Ancora? Non ce la fai proprio a lasciar perdere?»

    «Va bene, va bene…», rispose impaziente, prendendo la giacca di pelle dalla sedia. «A più tardi».

    Sophie aveva trentatré anni, ed era sposata con Hamish da otto. Si erano conosciuti al matrimonio di un amico ed era stato amore a prima vista, o perlomeno era così che se lo ricordavano, e così ne parlavano ad amici e conoscenti. Sophie era un’antropologa e una dottoranda alla London University, dove studiava le sepolture degli antichi romani. Hamish era un medico del King’s College Hospital a South London e vivevano in una casetta a schiera a Herne Hill, sempre a South London. Sophie era cresciuta a Hampstead e non si era mai davvero abituata a vivere a sud del fiume. Ma era comodo per il lavoro di Hamish, e visto che lui aveva orari più impegnativi, con la reperibilità nel fine settimana e i turni di notte, si erano trasferiti lì.

    Dopo quasi quattro anni nello stesso istituto, Hamish stava cercando un posto da primario. Mentre preparavano la cena per gli ospiti, la sera prima, lui e Sophie avevano bisticciato per un lavoro a Cheltenham che era saltato fuori all’improvviso. Hamish era impaziente di fare domanda, ma Sophie si preoccupava per l’eventuale trasferimento così lontano da Londra.

    «Come faccio a finire il dottorato da Cheltenham?», gli aveva chiesto mentre aspettavano gli ospiti. «Dovrei venire a Londra almeno due o tre volte alla settimana. Devo vedermi con il supervisore e fare lezione, ci sono studenti che contano su di me. Ci hai pensato?»

    «Sinceramente? No», aveva risposto lui. «Ma non si tratta di te, Sophie; si tratta di me e del nostro futuro…».

    Mentre andava alla stazione ripensò con rinnovata irritazione all’assunto in base al quale lei avrebbe dovuto semplicemente abbandonare il dottorato per seguirlo. Era infastidita anche per il ripostiglio. Si rifiutava proprio di aiutarla a svuotarlo. Perché era diventato un terreno di scontro? Il punto non era solo che c’era davvero bisogno di svuotare quella stanza. In fondo, non c’erano scadenze pressanti, come un parente in visita, o la necessità impellente di una stanza in più. Ma Sophie voleva sistemarla; voleva che fosse preparata – pulita e imbiancata. Voleva che fosse pronta per un momento che sperava sarebbe arrivato presto. Se solo fosse riuscita a rimanere incinta…

    Se fosse riuscita ad avere un bambino sarebbe stata più disposta ad abbandonare il dottorato, trasferirsi nel Gloucestershire e fare la moglie del primario. Per molti versi era esattamente quello che voleva. Ma la sua totale incapacità di concepire la rendeva più ostinata. Il ripostiglio, pieno di appunti di suo marito dei tempi dell’università e di detriti delle loro vite precedenti, era una manifestazione fisica del loro stallo. Lei voleva un figlio; il suo corpo si rifiutava di collaborare. Voleva che la stanza fosse svuotata per il bambino; suo marito si rifiutava di collaborare. Lui voleva andarsene da Londra; lei si rifiutava di collaborare.

    Sophie se ne stava sulla banchina della stazione di Herne Hill. Soffiava una brezza fredda sui binari. La stazione era sporca e, doveva ammetterlo, piuttosto deprimente.

    Quando il treno arrivò era pieno come al solito, e si fece in piedi tutto il viaggio verso Londra, incuneata tra un uomo dall’odore tremendo e una ragazza che parlò al telefono per tutto il viaggio. Alla stazione di Blackfriars prese la metropolitana per Tottenham Court Road. Da lì fece l’ultimo tratto a piedi verso il British Museum, dove aveva lo studio uno dei suoi supervisori. Amava quel tragitto. Gli edifici in quella parte di Londra erano architettonicamente coerenti. Nei pressi del museo, tra i turisti raccolti in capannelli impazienti, sentiva sempre un impeto di eccitazione poco prima di attraversare la soglia ed entrare nel vasto atrio. Quel magnifico centro di cultura, di ricerca, di conoscenza, era il suo parco giochi. In giornate come quella si diceva che aveva il lavoro più bello del mondo.

    Prese l’ascensore verso il primo piano, dove si trovavano la biblioteca di antropologia e il centro di ricerca. Mancavano ancora dieci minuti all’appuntamento con il supervisore, così fece un giro in una galleria dov’erano esposti recipienti romani e greci, vasi e ciotole con intricati decori fatti di bronzo verdastro, e ceramiche con scene decorative. Il pensiero che qualcosa di così delicato potesse sopravvivere per più di duemila anni la impressionava sempre. Uno dei suoi preferiti era il Vaso Portland. Risalente all’inizio del primo secolo, quel reperto di vetro scuro soffiato era finemente decorato a cammeo in bianco: uomini e donne che si rilassavano languidi vicino al mare. Scoperto in Italia nel diciassettesimo secolo, era stato trasportato da Napoli all’Inghilterra, dove il duca di Portland l’aveva prestato a Josiah Wedgewood, che aveva creato un’intera industria che si basava sul suo splendido stile.

    Si pensava che il vaso fosse stato un dono di matrimonio, ed era un esemplare notevole di artigianato del primo secolo. A Sophie interessavano tutti gli oggetti di quel periodo – non solo per la loro bellezza ma anche dal punto di vista professionale. Il titolo del suo dottorato era I rituali e i riti associati ai siti di sepoltura dell’antica Roma, con un’attenzione particolare alle tradizioni pagane, ebree e cristiane nel primo e secondo secolo. Era un argomento che la appassionava da tempo. Il suo bisnonno, George Laszlo, era stato un esperto di archeologia classica, e aveva anche lavorato alla London University. Sophie andava fiera del suo illustre predecessore. Quando entrava negli edifici universitari pensava spesso al suo bisnonno che saliva gli stessi gradini cinquant’anni prima. Dopo la laurea magistrale anche lei aveva insegnato all’università, e due o tre volte l’anno accompagnava dei gruppi di studenti a lavorare in scavi archeologici per tutto il Mediterraneo. Il lavoro era impegnativo e appagante, ma il tempo che passava via da casa per lunghi periodi metteva a dura prova il suo matrimonio e interrompeva i suoi tentativi di restare incinta. Trovarsi all’estero in un sito archeologico nell’esatto momento in cui stava ovulando era quantomeno frustrante. E all’inizio era così che si era spiegata la sua incapacità di concepire.

    Seduta fuori dall’ufficio del supervisore, ricordò la prima volta in cui lei e Hamish avevano parlato della possibilità di mettere su famiglia. Si erano appena trasferiti nella casa di Herne Hill; era tutta da ristrutturare e passavano i weekend a strappare la vecchia carta da parati.

    «Tu vuoi figli, Hamish?», aveva chiesto mentre bagnava la carta.

    «Dici adesso?», aveva detto lui ridendo, con le mani coperte di colla e pezzetti di carta.

    «No… non adesso», aveva riso, «ma insomma… a un certo punto».

    «Certo. Mi piacerebbe avere dei bambini. Ma è una tua scelta, Sophie. Qualsiasi cosa decidi va bene».

    Non era l’entusiastico appoggio che aveva sperato. Quando aveva immaginato quel momento, aveva fantasticato che l’avrebbe presa tra le braccia e si sarebbe dichiarato felicissimo alla prospettiva di diventare padre – come Jimmy Stewart in La vita è meravigliosa. Sophie amava quel film, specialmente la scena in cui Mary dice a George che è incinta. Il viso di Stewart attraversa tutta una gamma di emozioni, dall’incredulità alla gioia. La felicità di George alla prospettiva di diventare padre era fuori discussione. Invece per Hamish era stato l’opposto. Ripensandoci aveva capito che era la risposta perfetta, perché era stato attento a non metterle addosso troppa pressione. Le stava dicendo che qualsiasi cosa fosse successa, sarebbe stato contento. Se avessero avuto un figlio, benissimo; altrimenti, sarebbe andata bene lo stesso. Ma naturalmente significava anche che il fardello – il desiderio di un figlio, la disperazione quando le mestruazioni andavano e venivano con regolarità lunare – era tutto sulle sue spalle.

    Quella sera, dopo cena, disse a Hamish che doveva parlargli.

    «Devo chiederti una cosa», disse. «Ci sto pensando da molto tempo».

    «Okay». Sembrò preoccupato per un attimo e si versò un altro bicchiere di vino. «Non mi stai lasciando, vero? Lo so che ultimamente non parliamo proprio la stessa lingua…».

    «No!». Si sporse sul tavolo e gli prese la mano. «Certo che no. Mi sono accorta che è da un po’ che siamo entrambi piuttosto tesi. Ci sono tante cose irrisolte nelle nostre vite…».

    «Tipo il mio lavoro?»

    «Certo… il tuo lavoro, il mio desiderio di finire il dottorato e… soprattutto, almeno per quanto mi riguarda, quello di avere un figlio».

    Hamish arrossì leggermente. «Un bambino…?»

    «Sì… Sai quanto ne desidero uno, vero? Ho trentatré anni… sono più di due anni che non prendo la pillola, e comunque non resto incinta. Ho paura che ci sia qualcosa che non va».

    «Be’, il tuo corpo ha bisogno di tempo per regolarsi dopo aver preso la pillola». Si sporse sul tavolo e le prese la mano. La strinse, confortandola, ma una gocciolina di sudore gli attraversò la fronte.

    «Per due anni e mezzo? No, c’è qualcosa che non va, lo so».

    «Forse non è destino». Si asciugò il sudore dalla fronte con il palmo della mano, spostandosi dal viso i capelli ramati.

    Lo fissò incredula. «Che significa Non è destino? Dev’esserlo, Hamish. Io devo avere un figlio… pensavo lo sapessi». Si alzò dal tavolo e si mise a fare avanti e indietro, tra le lacrime.

    «Tesoro», disse abbracciandola. «Mi dispiace… Io…».

    «Voglio provare la FIVET», disse, con tono fermo, voltandosi verso di lui.

    «La fecondazione in vitro?»

    «Sì… Ti sorprende tanto? A questo punto è una scelta obbligata. Ho già preso appuntamento per martedì prossimo. Dovrai fornire… un campione. E prenderti la giornata libera».

    «Be’», disse il primario, fissando il monitor del computer, «i risultati mi sembrano buoni».

    Sophie si sporse in avanti, piena di speranza.

    «Buoni?», domandò, come se potesse essere rimasta miracolosamente incinta nel momento in cui aveva messo piede nell’ufficio del dottore.

    «Voglio dire che a quanto pare nessuno di voi ha niente che non va. La motilità di Hamish sembra normale». Gli fece l’occhiolino. «E da quel che mi hai detto, Sophie, tu produci ogni mese un ovulo perfettamente sano. Il tuo ciclo è normale… regolare».

    «Sì, più o meno», disse Sophie. «Quindi come mai non rimango incinta?»

    «Ah… la domanda da un milione di dollari. Potrebbe essere dovuto a diversi fattori. Ma la buona notizia è che non c’è un motivo chiaro per cui non avete ancora concepito. Mi sento di suggerire, data la vostra età relativamente giovane… siete sulla trentina, giusto?», disse, consultando i suoi appunti.

    «Trentatré», lo corresse Sophie.

    «Siete ancora giovani. Il mio consiglio è semplicemente di continuare a provare».

    Fece un sorriso che voleva essere solidale, diretto principalmente a Hamish.

    «Be’… grazie». Hamish si alzò, evidentemente impaziente di andarsene. Odiava quell’intrusione medica nella loro vita privata.

    «Dev’esserci qualcos’altro che possiamo fare», disse Sophie, senza muoversi dalla sedia.

    «Be’», disse il medico con un piccolo sospiro, «ci sono delle tecniche che possiamo provare, se le cose non si smuovono naturalmente».

    «La fecondazione in vitro…», disse lei con tono speranzoso.

    «Sì… Quella. Ma non è una soluzione miracolosa… Sono sicuro che con suo marito, che è medico, ne avrete già parlato, giusto?». Guardò Hamish, che annuì.

    «Sì», disse Sophie. «Lo so che non ci sono garanzie».

    «Ascolti, io le consiglio davvero di rilassarsi, se può. Sono sicuro che andrà tutto per il meglio. E se in un anno non succede niente, tornate a trovarmi e vedremo il da farsi».

    Sulla strada di casa, nella sudicia carrozza del treno, Hamish sedeva accanto al finestrino e leggeva il giornale della sera. Odiava i mezzi pubblici e preferiva distrarsi con una lettura qualsiasi. A Sophie, invece, piaceva osservare le persone intorno a lei. Ma quel pomeriggio le sembrava che tutti i passeggeri fossero donne che ostentavano la loro fertilità.

    Quella seduta di fronte parlava con la tata al telefono.

    «Sono quasi a casa», disse, «preparagli la camomilla e appena arrivo gli faccio il bagnetto».

    Un bambino in passeggino era stato infilato tra due pendolari imbronciati, chiaramente innervositi dall’aggeggio che sbatteva sui loro polpacci quando il treno sussultava sulle curve.

    Più avanti, nello stesso vagone, una donna molto incinta si faceva strada tra la folla sperando di trovare un posto a sedere. Un’anziana dall’altra parte del vagone si alzò per farla accomodare.

    A Sophie sembravano promemoria della sua inadeguatezza.

    «Io penso che dovremmo provarci», disse a Hamish mentre camminavano mano nella mano.

    «A far cosa?», domandò, pur sapendo esattamente a cosa si riferiva.

    «La fecondazione».

    «Tesoro…».

    «Lo so cosa stai per dire», lo interruppe. «Non ci sono garanzie, se non riusciamo a farcela passare dal servizio sanitario sarà molto costosa, bla bla… Ma voglio provarci. Ti prego».

    «Non è solo quello», disse sul vialetto di mattoncini verso la porta di casa. «Sono un medico, Sophie. So bene cosa implica: fare sesso a comando, esami del sangue, iniezioni di ormoni, con gli inevitabili alti e bassi che questo comporta. Hai idea di che razza di vaso di Pandora andresti a scoperchiare?».

    Aprì la porta, lanciando il giornale e le chiavi sul tavolino all’ingresso, e andò in cucina. Prese una birra dal frigo, la stappò e ne bevve alcuni sorsi con sollievo.

    «Hamish… sono le quattro e mezza!», disse Sophie indicando la birra.

    «Lo so, ma per una volta non devo lavorare. Penso di aver diritto a una birra, per l’amor del cielo».

    Andò in salotto e accese la TV, crollando di fronte a uno stupido quiz.

    Sophie rimase in piedi in cucina, a fissare il suo giardino londinese ben progettato, un regalo di anniversario di Hamish dell’anno precedente. Con quello che era costato avrebbero potuto fare due cicli di fecondazione in vitro in una clinica privata. Il piccolo lotto di prato verde era attraversato in diagonale da lastre di pietra Yorkstone, che conducevano lo sguardo fino al capanno estivo dipinto di un’elegante sfumatura tra il grigio e il verde. L’orticello nell’angolo opposto sfoggiava una fila ordinata di tenere foglie di lattuga. Sophie aveva immaginato un bambino sull’altalena, un piccolo trampolino nell’angolo accanto al capanno. La terrazza coperta da mucchi di giocattoli colorati di plastica. Ma non c’era nessuna altalena, nessun trampolino. Solo una composizione ben curata di piante eleganti e studiate e un prato impeccabile.

    Aprì il frigo, prese una bottiglia di vino bianco, si versò un bicchiere abbondante e iniziò a piangere.

    Capitolo 2

    Budapest

    23 ottobre 1956

    I manici dei cesti di vimini graffiavano Rachael, scavandole la pelle morbida delle dita. Si fermò sul pianerottolo del primo piano fuori dalla porta della sua vicina, la signora Kovacs, e appoggiò le borse contro il muro. Sputò sui segni rossi che le si stavano formando sui palmi e li strofinò.

    La porta dell’appartamento, graffiata dal tempo, si aprì di una fessura.

    «Chi è?», domandò una voce lamentosa.

    «Sono solo io, signora Kovacs, Rachael del piano di sopra. La spesa è pesante. Mi sono fermata un attimo».

    La voce incorporea grugnì e la porta si richiuse.

    Erano tempi difficili a Budapest, e le persone erano sempre più nervose. Non sapevi mai chi ti stesse ascoltando o cosa dicesse di te la gente alle autorità. C’era poco da mangiare, ma non era una novità. Era così già da quando c’era la guerra. Rachael non ricordava un tempo in cui non avesse dovuto fare la fila al mercato per delle magre razioni – una piccola porzione di salsiccia, o una cipolla. Ma quel giorno aveva le ceste piene, quasi fino all’orlo, di rape. Era arrivata al mercato su via Hold poco dopo le sei e mezza del mattino. Se fosse arrivata più tardi, la maggior parte dei banchi avrebbe esaurito i prodotti principali – pane, verdure e così via. Mentre aspettava pazientemente la propria razione di pane nero, aveva sentito parlare due donne in fila davanti a lei.

    «Janos ha appena ricevuto una grossa consegna di rape», aveva sussurrato una delle due all’amica. «Ha un cugino in campagna, a quanto pare sono arrivate ieri sera». A Rachael le rape non piacevano particolarmente, e nemmeno a suo marito, o a suo padre; ma c’era poco da mangiare, iniziava a far freddo, e una bella zuppa calda di rape sarebbe stata una mano santa.

    Quando era arrivata al banco di Janos c’era già una lunga fila di donne che si snodava in mezzo al mercato. Temeva di non trovare più niente una volta arrivato il suo turno, e invece aveva sorriso calorosamente all’anziano mentre le riempiva le borse fino all’orlo.

    Entrò in casa e mise le rape e le altre provviste nella vecchia dispensa di pino. Una lastra di marmo grigio copriva lo scaffale centrale – un posto fresco in cui riporre formaggio, burro o un pezzo di carne fredda. Quelli superiori erano ricoperti di carta decorata, con i fregi merlettati che sporgevano dai bordi – pareva una sottogonna che faceva capolino da un vestito. La madre di Rachael aveva sempre insistito per usare quella carta decorativa e lei aveva continuato la tradizione. C’erano file ordinate di marmellata fatta in casa e sottaceti, mentre la credenza in basso conteneva verdure e cibo in scatola, meticolosamente disposti in cestini di varia grandezza.

    Una volta riempita la credenza Rachael si mise a rassettare la cucina. Passò un panno sotto il rubinetto sputacchiante e lo strizzò nel vecchio lavandino di pietra. Da quel punto vedeva il vialetto sul retro. Un alto acero cresceva ottimista sul terreno brullo, e i rami sfioravano la finestra della cucina. In quel periodo le foglie passavano dal verde al giallo, e poi all’arancio. A novembre sarebbero state scarlatte. L’albero era una delle fonti di gioia autunnali per Rachael.

    Ripulì dalle briciole il piano del vecchio tavolo di pino – i resti di una colazione semplice – e prese alcune rape dalla credenza. Le affettò e le versò in una casseruola piena d’acqua. George e József, suo marito, sarebbero tornati presto per pranzo ed era decisa a far trovare loro un bel pasto caldo.

    Mentre la zuppa sobbolliva sul vecchio fornello a gas, Rachael rassettò il soggiorno. Sprimacciò i vecchi cuscini di velluto sul divano. Lucidò le foto incorniciate d’argento di suo padre, sua madre e i nonni, disposti con orgoglio sul pianoforte a coda. Il pianoforte era appartenuto ai suoi bisnonni e la casa era della sua famiglia da generazioni. Anche suo padre aveva vissuto lì per tutta la vita. Era al secondo piano di un vecchio palazzo su via Henszlmann Imre e aveva grandi finestre a bovindo che davano sul parco di fronte. Vivere così vicino a un’area verde era un lusso e dava l’illusione di abitare in un’imponente casa di campagna, o almeno così le piaceva immaginare. Era considerato uno degli appartamenti più graziosi di quel palazzo, con le sue stanze spaziose, i soffitti alti e le proporzioni eleganti. Era anche vicino al centro, a pochi passi dall’università dove suo padre insegnava archeologia.

    George temeva, di tanto in tanto, che potessero portargli via la casa. Il governo comunista aveva cominciato a insistere perché le case e gli appartamenti più grandi venissero divisi tra più famiglie, per accogliere nelle città il flusso crescente di lavoratori. Ma Rachael era felicemente ignara di queste preoccupazioni, e mentre strofinava la cera d’api sul pianoforte le cadde l’occhio su un gruppo di ragazzini che giocavano nel parco. Le ricordavano i tempi felici che aveva trascorso con sua madre Irma.

    Con i suoi capelli scuri e i singolari occhi verde pallido, colore che Rachael aveva ereditato, Irma era considerata una vera bellezza. Aveva sposato George ad appena diciassette anni. George era già un giovane professore all’università, appassionato e intelligente, socievole e pieno di energia. Irma lo adorava, e anche lui le era molto devoto. Irma si era dedicata alla vita domestica, occupandosi non solo della figlia e del marito, ma anche dei genitori di lui fino alla loro dipartita. Scalando in fretta la gerarchia accademica, George aveva ottenuto la cattedra di Archeologia presso l’Università di Budapest. Era al centro di un gruppo di intellettuali che si incontravano regolarmente nell’appartamento di Laszlo per discutere di filosofia, politica e storia. Disprezzavano il regime stalinista sotto cui vivevano e per quanto George avesse delle simpatie per i princìpi socialisti, aborriva il totalitarismo. Il suo desiderio di democrazia lo costringeva a vivere costantemente in uno stato di vigilanza, perché le sue opinioni politiche erano considerate sia pericolose che rivoluzionarie.

    Quello era il mondo in cui era nata Rachael. Sua madre era una presenza discreta sullo sfondo, che sosteneva il marito e si occupava della famiglia. Ma la guerra e il dopoguerra avevano richiesto un pesante tributo. Viveva nell’ansia per George, temendo che potessero arrestarlo per le sue idee radicali. Era preoccupata anche per i loro amici ebrei, molti dei quali stavano subendo rastrellamenti e in alcuni casi venivano portati via da Budapest. Si udivano voci di campi in cui le persone venivano imprigionate, o peggio. Era inimmaginabile.

    Le privazioni della guerra, il razionamento, i bombardamenti e la distruzione di buona parte della loro amata capitale avevano sfinito Irma, e un giorno, mentre Rachael era a scuola, sua madre era svenuta per strada. Un vicino l’aveva trovata sul marciapiede vicino al parco, con la spesa sparsa a terra. Con un gruppo di passanti era riuscito a portarla fino a casa e su per le scale. Quando Rachael era tornata, suo padre la aspettava per darle la notizia.

    «È venuto il dottore. Tua madre ha avuto un ictus. Devo avvisarti, Rachael; non è molto ottimista».

    Erano rimasti accanto al suo letto per tre giorni e tre notti, finché un mattino Irma aveva aperto gli occhi verde pallido, aveva emesso un curioso suono gutturale ed era morta.

    Da quel giorno Rachael aveva smesso di andare a scuola. Pur avendo soltanto sedici anni, era decisa a occuparsi di suo padre, ossessionata dall’idea di dover restare in casa per tenerlo al sicuro. La prospettiva di uscire ogni giorno per andare a scuola, di vivere una vita separata dalla sua, le era divenuta intollerabile. E se fosse morto anche lui mentre lei non c’era? Sarebbe stata un’orfana abbandonata a se stessa.

    George era preoccupato per lei.

    «Devi tornare a scuola, Rachael, sei troppo giovane per rinunciare alla tua istruzione».

    «No, papà. Chi baderebbe a te? E se ti succedesse qualcosa, come potrei vivere? Come farei ad andare avanti?».

    A lei la sua posizione sembrava perfettamente logica.

    «Il fatto che tu resti qui non ha niente a che fare con la mia sicurezza», ribatteva lui. «E poi sei una ragazza intelligente: potresti andare all’università, imparare una professione. Non ti senti sola qui tutto il giorno?»

    «No…», aveva risposto con sincerità. «Mi piace. Amo questa casa, e ti voglio bene».

    Era vero che i suoi amici non le mancavano granché. Le mancava sua madre, ovviamente, ed era per quello che cercava di gestire la casa esattamente come faceva lei. In qualche modo la faceva sentire come se fosse ancora lì a vivere con loro. Mentre puliva la cucina, lucidava il pianoforte, o rimestava sottaceti sul fornello, pensava a lei e le piaceva immaginare che Irma fosse nella stanza accanto. Per quanto riguardava l’amore, Rachael era ancora molto infantile e si accontentava di ammirare da lontano i begli uomini. Leggeva ogni giorno il giornale ed era contentissima quando trovava un articolo su una stella del cinema, o uno sportivo famoso. Ervin Zádor, che giocava a pallanuoto per il suo Paese, era il suo preferito. Alto, muscoloso e con i capelli scuri. Ritagliava le sue foto dal giornale e le nascondeva sotto il cuscino.

    Una sera George era tornato a casa con un giovanotto di nome Andras. Era di bell’aspetto, e sembrava onesto e intelligente, aveva pensato Rachael. I due uomini si erano messi in soggiorno a parlare, e mentre faceva avanti e indietro portando da bere aveva notato che Andras ci teneva a fare una buona impressione con il suo professore. Era stato contentissimo quando George aveva insistito perché restasse a cena.

    Seduti intorno al tavolo della cucina, George aveva inventato tutta una serie di scuse per lasciare Rachael da sola con il suo protetto. Ma la giovane coppia stentava a fare conversazione. Malgrado il bell’aspetto, Rachael non trovava niente in lui che la entusiasmasse. E aveva l’impressione che la sua vita domestica lo annoiasse. Quando il ragazzo se n’era andato, George aveva interrogato Rachael.

    «Ti è piaciuto Andras? Penso che sia molto intelligente».

    «Sembrava in gamba. Perché?»

    «Niente…», aveva detto George, e si era acceso la pipa.

    «Papà, lo so cosa stai architettando. Pensi che mi innamorerò di lui perché è un bel ragazzo e forse lo sposerò. Giusto?»

    «Be’, qualcuno dovrai pur sposare. Sono preoccupato. E se mi succedesse qualcosa? Rimarresti da sola. Hai bisogno di un marito. E se non vuoi andare a scuola e non hai altro modo di incontrare dei ragazzi, te li porterò io».

    «Oh, papà… quel poverino! Non aveva idea di cosa stavi escogitando. Pensava che l’avessi portato qui perché lo ammiri o sei interessato alle sue idee. E ci ha guadagnato solo la conoscenza della tua noiosa figlia…».

    «Deve ritenersi fortunato», aveva detto George. «E non sei noiosa. Sei la figlia più intelligente e bella che un padre abbia mai avuto».

    «Be’… non credo che Andras la veda allo stesso modo», aveva detto Rachael, ridendo. «E poi non piace granché neppure a me».

    Negli anni a seguire una sfilza di potenziali giovani ammiratori era stata invitata nell’appartamento di Laszlo. Rachael era sempre educata, e i giovanotti chiaramente confusi sullo scopo della loro presenza, momentaneamente sedotti dall’idea che il loro professore li avesse selezionati per un trattamento speciale. Ma una sera George si era presentato con un giovane di nome József Kelemen. Era uno studente di archeologia, un paio di anni più grande di Rachael. Non era particolarmente alto, aveva i capelli ricci biondo scuro, occhialini di tartaruga e un sorriso affascinante.

    Rachael era arrossita quando il giovane era entrato in salotto. Suo padre, sempre attento, lo aveva considerato un segno promettente. József era proprio il tipo di ragazzo che sperava potesse sposare un giorno la sua adorata figlia: intellettuale, spiritoso, impegnato nella politica studentesca.

    Dopo cena József aveva aiutato Rachael a lavare i piatti. George li aveva lasciati soli e se n’era andato in soggiorno a suonare il pianoforte.

    «Tuo padre suona molto bene», aveva detto József, prendendo un bicchiere di cristallo dalle mani di Rachael e asciugandolo con cautela con lo strofinaccio.

    «È vero. Ogni cosa che fa gli riesce bene, non l’avevi notato?». Aveva riso e gli aveva passato un altro bicchiere.

    «Mi ha insegnato tanto», aveva detto József. «È un privilegio avere un insegnante come lui».

    «È un

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