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Nessun luogo è sicuro
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E-book493 pagine6 ore

Nessun luogo è sicuro

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Info su questo ebook

Dall’autrice del bestseller Un ospite inatteso

Un grande thriller

La nuova indagine della detective Lottie Parker

Durante un funerale, mentre la folla piange in silenzio nel cimitero di Ragmullin, un grido assordante risuona nell’aria: in una tomba aperta c’è il corpo insanguinato di una giovane donna. La detective Lottie Parker è chiamata a indagare sul fatto. 
Quel corpo non può essere lì da molto, e così Lottie comincia a sospettare che possa trattarsi di Elizabeth Byrne, una ragazza scomparsa nel nulla pochi giorni prima. Come se non bastasse, il nuovo capo sembra avercela con lei… Lottie deve fare di tutto per risolvere al più presto entrambi i casi. 
Quando altre due donne scompaiono da Ragmullin, la detective e il suo team cominciano a temere che ci sia un serial killer in circolazione. Inoltre, queste sparizioni sono terribilmente simili a quelle di un caso irrisolto risalente a dieci anni prima. Possibile che la storia si stia ripetendo? 
Mentre i giornalisti iniziano a interferire con il suo lavoro, Lottie teme che l’assassino potrebbe presto colpire di nuovo. Comincia così una corsa contro il tempo per trovare le donne scomparse, ma il killer è più vicino di quanto lei creda. Che sia proprio Lottie il prossimo bersaglio?

«Potente, incalzante, incredibile.»

«Questa volta Patricia si è superata.»

Bestseller in Inghilterra, Stati Uniti, Australia e Canada

Un’autrice rivelazione 
Oltre 1 milione di copie vendute nel mondo

«Di sicuro aspetterò con impazienza i prossimi casi della detective Parker.»
Angela Marsons, autrice del bestseller Urla nel silenzio

«Patricia Gibney è uno dei più grandi successi editoriali dell’anno.»
The Times

«È già bestseller negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Canada: presto tutti sapranno chi è Patricia Gibney.»
The Irish Independent
Patricia Gibney
Proviene dal cuore dell’Irlanda. La serie incentrata sul personaggio di Lottie Parker è diventata un caso editoriale, con oltre 1 milione di copie vendute e traduzioni in numerosi Paesi. La Newton Compton ha già pubblicato L’ospite inatteso, Le ragazze scomparse, Uccidere ancora e Nessun luogo è sicuro.
LinguaItaliano
Data di uscita2 feb 2021
ISBN9788822753236
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    Anteprima del libro

    Nessun luogo è sicuro - Patricia Gibney

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    Indice

    PRIMO GIORNO. MERCOLEDÌ 10 FEBBRAIO 2016

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    SECONDO GIORNO. GIOVEDÌ 11 FEBBRAIO 2016

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    TERZO GIORNO. VENERDÌ 12 FEBBRAIO 2016

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Capitolo 55

    Capitolo 56

    Capitolo 57

    Capitolo 58

    Capitolo 59

    Capitolo 60

    Capitolo 61

    Capitolo 62

    Capitolo 63

    Capitolo 64

    Capitolo 65

    Capitolo 66

    QUARTO GIORNO. SABATO 13 FEBBRAIO 2016

    Capitolo 67

    Capitolo 68

    Capitolo 69

    Capitolo 70

    Capitolo 71

    Capitolo 72

    Capitolo 73

    Capitolo 74

    Capitolo 75

    Capitolo 76

    Capitolo 77

    Capitolo 78

    Capitolo 79

    Capitolo 80

    Capitolo 81

    Capitolo 82

    Capitolo 83

    Capitolo 84

    Capitolo 85

    Capitolo 86

    QUINTO GIORNO. DOMENICA 14 FEBBRAIO 2016

    Capitolo 87

    Capitolo 88

    Capitolo 89

    Capitolo 90

    Capitolo 91

    Capitolo 92

    Capitolo 93

    Capitolo 94

    Capitolo 95

    Capitolo 96

    Capitolo 97

    Capitolo 98

    Capitolo 99

    Capitolo 100

    Epilogo

    Una lettera da parte di Patricia

    Ringraziamenti

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    2846

    Della stessa autrice:

    L’ospite inatteso

    Le ragazze scomparse

    Uccidere ancora


    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Titolo originale: No Safe Place

    Published by arrangement with Rights People, London

    Copyright © Patricia Gibney, 2018

    Patricia Gibney has asserted her right to be identified

    as the author of this work

    All rights reserved

    Traduzione dalla lingua inglese di Laura Miccoli

    Prima edizione ebook: marzo 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-5323-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Patricia Gibney

    Nessun luogo è sicuro

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    A Marie, Gerard e Cathy

    Con amore

    Martedì 9 febbraio 2016, ore 3:15

    Continuò a correre senza fermarsi, anche se i piedi nudi si infradiciavano di brina. Era convinta di gridare eppure dalla gola non le usciva alcun suono. Andò a sbattere con il gomito contro una pietra; un dolore trascurabile se paragonato alla paura che provava.

    Azzardando un’occhiata, si rese conto che il buio alle sue spalle era profondo quanto l’oscurità che le si parava davanti. Senza accorgersene aveva deviato dal sentiero, e si era persa tra le pietre calcaree. Le rocce fredde le tagliavano i piedi, così cercò di issarsi sul gradino che doveva essere lì da qualche parte, ma andò a sbattere e cadde in avanti in un solco adiacente.

    Il suo unico pensiero era mettersi in salvo. Si trascinò sulle ginocchia sanguinanti e si mise in ascolto. Silenzio. Nessun rumore di ramoscelli spezzati né di foglie sferzate. Era andato via? Aveva abbandonato la caccia? Ora che aveva smesso di correre, tremava con violenza nella notte gelida. Una luce sulla destra in fondo al pendio attirò la sua attenzione mentre scrutava l’orizzonte. Una fila di casette. Sapeva con esattezza dove si trovava. E in lontananza vide l’alone ambrato delle luci della strada. La salvezza.

    Uno sguardo frettoloso tutt’intorno. Avrebbe dovuto fare una bella corsa. Contò fino a tre, preparandosi per lo scatto finale.

    «Ora o mai più», sussurrò. Senza curarsi della sua nudità, si alzò, pronta a correre come una pantera. Fu allora che vide il respiro sospeso nel gelo della notte.

    Sentì il braccio che le cingeva la gola e la trascinava, schiacciandole la trachea. Il profumo dolce di ammorbidente della giacca misto all’odore agro della rabbia le pervase le narici. Con un ultimo guizzo di adrenalina, sferrò una gomitata all’indietro con tutta la forza che aveva, piantandogliela a fondo nel plesso solare. L’uomo emise un sospiro strozzato e allentò la presa. Lei si ritrovò libera.

    Gridò e riprese a correre. Andò a sbattere, scavalcò pietre ghiacciate e gradini, uno dopo l’altro. Poi ruzzolò, ancora urlante, giù per la collina verso la luce. Ce l’aveva quasi fatta. Udì i passi degli scarponi che la raggiungevano.

    No, ti prego. Dio, no. Doveva allontanarsi da quel sentiero. Virò a sinistra, corse a zig-zag. Aveva quasi raggiunto il muro quando il terreno le sparì da sotto i piedi. Precipitò per due metri all’interno della buca, insieme a un cumulo di sassi e zolle di terra.

    Avvertì un dolore lancinante alla gamba e un grido d’agonia le esplose dalla bocca. Sapeva che il rumore che aveva sentito, simile a quello del legno che si rompe, era l’osso della sua gamba sinistra che si era fratturato. Si morse forte le nocche, cercando di restare in silenzio. Di certo non poteva trovarla laggiù. Oppure sì?

    Alzò lo sguardo verso il cielo notturno con le sue stelle scintillanti che preannunciavano una nuova gelata, e fu allora che il volto di lui comparve oltre il bordo della fossa. Qualunque accenno di speranza che avesse iniziato a provare svanì appena la prima palata di terra le cadde sul viso, ancora rivolto all’insù.

    Mentre piangeva grosse lacrime salate che si mescolavano al terriccio, capì con lucidità raggelante che sarebbe morta nella tomba di qualcun altro.

    Primo giorno

    Mercoledì 10 febbraio 2016

    Capitolo 1

    Fu il pianto di un bambino a svegliare Lottie Parker. Aprì un occhio e sbirciò l’ora sulla sveglia digitale: le 5:30.

    «Louis, no, ti prego. È notte fonda», gemette.

    Il suo nipotino di quattro mesi e mezzo non ne voleva proprio sapere di dormire per più di due ore di fila. Scostò il piumone e si diresse nella camera a fianco. La lampada da notte proiettava un alone indistinto sulla sua primogenita Katie, di vent’anni, che dormiva profondamente. Aveva un cuscino sopra la testa e la coperta si alzava e si abbassava al ritmo del respiro. Louis smise di piangere non appena Lottie lo sollevò dalla culla. Arraffò un pannolino e un biberon dal comodino e lasciò la figlia nel mondo dei sogni.

    Tornata nella propria stanza, cambiò Louis, se lo sistemò per bene in braccio e gli diede il latte. Sentiva il cuore del bambino batterle contro il seno. C’era qualcosa di così rincuorante e, allo stesso tempo, di così sconfortante in quel gesto. Adam sarebbe impazzito d’amore per il nipotino. Avvertì una stretta al petto quando pensò al marito, morto ormai da più di quattro anni. Cancro. Il vuoto rimasto dopo la sua scomparsa non poteva essere riempito in alcun modo.

    Lasciò un bacio sui morbidi capelli scuri del nipote. Quando il piccolo si contorse, spingendo fuori dalla bocca il biberon, Lottie fece una smorfia per una fitta improvvisa alle spalle. Non poteva permettersi di saltare il lavoro. Anche se al momento regnava una calma quasi insopportabile a Ragmullin, sapeva bene che non sarebbe durata a lungo.

    Avvolse il nipotino in un abbraccio e lui le regalò un sorriso. Lottie ricambiò.

    Un buon auspicio per la giornata che la attendeva.

    O almeno così sperava.

    Capitolo 2

    Mollie Hunter prese posto e si sistemò per bene. Posò la borsa del portatile sul tavolo, poi arrotolò la sciarpa di cotone contro il finestrino e vi appoggiò la testa. Chiuse gli occhi, tagliando fuori l’imminente sopraggiungere dell’alba. Gli auricolari la avvolgevano nella tranquillità di una musica soft, isolandola dagli altri pendolari che si trascinavano qua e là intorno a lei. Mentre il treno si allontanava dalla stazione di Ragmullin, si lasciò catturare dal sonno dal quale si era destata appena trenta minuti prima.

    I sogni riemersero al ritmo dello sferragliare sulle rotaie e, involontariamente, sorrise.

    «Cosa c’è di così divertente?».

    Mollie udì la domanda attraverso il torpore del sonno e aprì un occhio. Non aveva notato che qualcuno si era seduto di fronte a lei. Eppure eccolo lì. Di nuovo. Per la seconda mattina di fila aveva ignorato gli altri sedili vuoti e aveva occupato proprio quello di fronte a lei. Lentamente richiuse gli occhi, determinata a non considerarlo. Non che non fosse affascinante. Aveva un’aria piuttosto ordinaria, anche se sfoggiava un ghigno di autocompiacimento. Doveva essere più o meno come lei, sui venticinque anni o poco di più. Un’immagine le balenò in testa e così si ritrovò a fissarlo completamente sveglia.

    Chi diavolo era?

    «Come ti chiami?», le domandò.

    Che sfacciato! Esisteva un protocollo non scritto sulla corsa dei pendolari delle sei del mattino. Nessuno poteva infastidire nessuno. Erano tutti sulla stessa barca. In piedi all’alba, ancora mezzo addormentati, con i loro thermos pieni di caffè preparato in fretta e furia. Telefoni, auricolari, portatili e Kindle gli unici accessori di quella tribù. Allora perché diavolo non poteva stare zitto e lasciarla dormire? Una volta raggiunta Maynooth, la carrozza avrebbe iniziato a riempirsi e avrebbe potuto ignorarlo del tutto. Per il momento, però, non sarebbe stato possibile.

    Aveva gli occhi azzurro ghiaccio. I capelli nascosti sotto un berretto fatto a maglia. Le unghie pulite. Curate? Mollie si domandò per un istante se non fosse un insegnante. O magari un impiegato statale o un banchiere. Non riusciva a capire se portasse una giacca da completo o un maglione sotto il pesante piumino imbottito, ma le mattine precedenti aveva notato che indossava i jeans. Blu, con una piega stirata che correva al centro delle gambe. Dio, chi è che faceva ancora la piega ai pantaloni? Sua madre? Eppure sembrava un po’ troppo adulto per vivere ancora con la mamma. Una moglie, allora? Non portava la fede. E comunque, perché ci stava pensando? Un fremito di disagio le scosse le spalle e sentì improvvisamente di avere paura.

    Chiuse gli occhi, e lasciò che la musica le invadesse la mente e lo sbuffare del treno le desse conforto, nella speranza che il sonno la aiutasse a superare la prossima ora e dieci minuti. Fu allora che sentì il piede dell’uomo toccarle lo stivale. Spalancò gli occhi e tirò indietro la gamba come se si fosse scottata.

    «Ma che cavolo?», gracchiò. Erano le prime parole che pronunciava da quando si era svegliata quella mattina.

    «Scusa», disse lui, fissandola con due occhi pungenti come frecce. Il suo piede non si mosse.

    E Mollie capì dal suo tono che era tutt’altro che dispiaciuto.

    Grace pensò che in un certo senso fosse carino. Il modo in cui lui infastidiva la ragazza che voleva soltanto dormire. Non poté fare a meno di sorridergli. Lui non la notò nemmeno. Nessuno la notava mai. Ma a lei non importava. Ci aveva fatto l’abitudine.

    Piegò le dita all’interno dei guanti da bambina che portava e si insaccò nelle spalle fino alle orecchie, provando a fingere di dormire. Lei però non era mai stata brava a fingere. È proprio così come la vedi. Era questo che sua madre diceva sempre di lei. E ora si ritrovava bloccata a convivere con suo fratello, per un mese intero. Non che lui fosse in casa molto spesso. Per fortuna, perché era tremendamente pignolo.

    Abbassò lo sguardo sul sedile vuoto al suo fianco per assicurarsi che la borsa fosse ancora lì. Nessuno si sedeva mai accanto a lei finché non restavano solo posti in piedi. Non vi mordo mica, avrebbe voluto dire, ma poi rinunciava sempre. Si limitava a sfoderare il suo sorriso imperfetto, con lo spazio tra gli incisivi, e annuire. Un gesto che di solito metteva la gente a proprio agio. Neanche fossi una criminale, a giudicare da come mi guardano, pensò. Non poteva fare a meno di mostrare la sua ansiosa irrequietezza e, tutto sommato, non le importava proprio niente di cosa pensavano gli altri.

    Io sono io, avrebbe voluto gridare.

    Rimase con la bocca cucita.

    Capitolo 3

    «Chloe! Sean! Devo sgolarmi ogni mattina? In piedi! Subito!».

    Lottie si allontanò dalle scale scuotendo la testa. Andava sempre peggio. Se non altro mancavano pochi giorni alle vacanze di metà trimestre, e allora sarebbe riuscita a fuggire al lavoro senza martoriarsi le corde vocali.

    Svuotò la lavastoviglie. Il cesto della biancheria era ancora mezzo pieno, così cacciò in lavatrice un altro carico e la avviò, poi trascinò il mucchio di panni umidi nell’asciugatrice. Fino a poco tempo prima sua madre, Rose Fitzpatrick, la aiutava un po’ con i lavori di casa. Ma il loro rapporto adesso era più teso che mai, e Rose non era nella sua forma migliore.

    Lottie sorseggiò una tazza di caffè caldo per placarsi i nervi. Mandò giù tre antidolorifici e cercò di massaggiarsi la schiena nel punto, ancora dolente, in cui aveva ricevuto la pugnalata. Se le ferite del corpo sarebbero lentamente guarite, sapeva che quelle psicologiche avrebbero lasciato cicatrici indelebili dentro di lei. Guardò fuori dalla finestra, nel mattino gelido, e si domandò se dovesse prendere un maglione per ripararsi dal freddo. Si era messa una maglietta nera a maniche lunghe, consumata sui polsini, e un paio di jeans attillati. Aveva buttato via i suoi fedeli Ugg la settimana prima e ora indossava gli stivaletti neri in pelle senza tacco di Katie.

    «Tieni, madre», disse Chloe, piombando in cucina. «Potrebbe servirti oggi».

    «Grazie». Lottie prese la felpa blu dalle mani della figlia diciassettenne. Notò che Chloe si era messa un fondotinta pallido e un ombretto fumé con tanto di mascara nero. I capelli biondi erano raccolti in uno chignon sulla sommità della testa.

    «Lo sai che non ti è permesso truccarti per andare a scuola».

    «Lo so. Infatti non sono truccata». Chloe afferrò una scatola di cereali e iniziò a trangugiarli.

    «Hai perfino il lucidalabbra. Andiamo. Non vorrai cacciarti nei guai».

    «No. Questo non è trucco. Solo un tocco leggero di lucido per proteggermi dall’aria fredda», spiegò Chloe, togliendosi le briciole di cornflakes dalle labbra appiccicose.

    Lottie scosse la testa. Era troppo presto per discutere. Sciacquò la tazza sotto il rubinetto. «Ti sto solo avvisando nel caso gli insegnanti lo notino».

    «Certo!», esclamò Chloe, alzando il naso. Proprio come suo padre, pensò Lottie.

    «Mi preoccupo per te».

    «Non rompere. Sto bene». Chloe raccolse lo zaino e si diresse verso la porta.

    «Posso darti un passaggio se vuoi».

    «Vado a piedi, grazie».

    La porta si chiuse con un tonfo. Lottie non era del tutto convinta che la figlia stesse bene. Sentirsi chiamare madre le bruciava ancora. Le dava sui nervi e Chloe lo sapeva. Lo faceva apposta. Solo in rari momenti di tenerezza estrema chiamava Lottie mamma.

    «Vorrei un pancake», disse Sean, entrando in cucina con il cravattino dell’uniforme in mano.

    «Sean, quanti anni hai?». Lottie gli avvolse la cravatta intorno al collo e iniziò a fare il nodo.

    Il figlio la scrutò da sotto le lunghe ciglia. «Non vedo l’ora di compiere quindici anni ad aprile. Forse allora la smetterai di trattarmi come un bambino».

    «Ti ho mostrato un’infinità di volte come si fa il nodo alla cravatta».

    «Papà non ha mai imparato a farlo. Mi ricordo che glielo facevi sempre tu».

    Lottie sorrise con aria malinconica. «Hai ragione. E mi dispiace, ma non ho tempo per fare i pancake. Guardi troppe serie americane». Gli scostò i capelli dagli occhi e gli diede una stretta alla spalla. «Ci vediamo più tardi. Fai il bravo a scuola».

    Tirò su la cerniera della felpa, arraffò la borsa e il cappotto e scappò verso la porta d’ingresso.

    «Ho qualche speranza di rimediare un passaggio?», chiese Sean.

    «Se ti sbrighi».

    Aspettò che il figlio prendesse un vasetto di yogurt dal frigorifero e un cucchiaio dal cassetto delle posate.

    Mentre raccoglieva lo zaino da terra, le disse: «Se tu sei pronta, lo sono anch’io».

    Lottie lanciò un grido su per le scale. «A dopo, Katie. Da’ un bacio a Louis da parte mia». Poi, senza attendere che la ragazza rispondesse, seguì il figlio fuori dalla porta.

    Un’altra tipica mattina a casa Parker.

    Capitolo 4

    Il treno si fermò alla stazione della Maynooth University. Non scese nessuno. Non c’erano mai studenti sulla prima corsa del mattino da Ragmullin a Dublino; avrebbero affollato invece il treno successivo, quello delle sette. Il binario era pieno, però. Il caffè fumava nell’aria gelida e i pendolari si accalcavano fra loro in cerca di calore e di posti liberi via via che salivano a bordo.

    Mollie sperò che l’uomo seduto di fronte a lei scendesse. Tuttavia, non fu così fortunata. Come gli altri giorni, era diretto a Dublino.

    Mentre lui se ne stava con le braccia conserte e il volto girato verso il finestrino, lo studiò di nuovo. Aveva lo sguardo rivolto altrove, eppure Mollie se lo sentiva addosso. Che schifo, pensò con un brivido. Strofinando le mani su e giù per le braccia, cercò di scacciare il freddo. Quella sensazione così intensa non poteva dipendere solo dall’aria esterna che penetrava dalle porte aperte. Era l’uomo seduto di fronte a lei che emanava gelo.

    Lo osservò mentre distoglieva lo sguardo dal finestrino e sorrideva. Le labbra rosa e sottili si inarcarono verso l’alto senza che il sorriso arrivasse a scaldare gli occhi azzurro ghiaccio, con quelle pupille scure e penetranti.

    «Hai studiato alla Maynooth?», le domandò.

    La sua voce le trapassò il cuore come una scheggia. Sembrava un tono diverso da quello che aveva usato poco prima. Curioso, eppure accusatorio. Deglutì, e negò scuotendo la testa.

    «Quale college hai frequentato?», insisté l’uomo.

    Avrebbe proprio dovuto dirgli di levarsi dai piedi. Non erano affari suoi. Che diamine, erano due perfetti sconosciuti. O forse no? Aggrottando la fronte, lo scrutò da vicino. C’era qualcosa di vagamente familiare in lui? No, concluse. Nulla.

    «Il gatto ti ha morso la lingua?». Di nuovo quel sorriso. Che, a guardarlo bene, non sembrava affatto un sorriso.

    Mordendosi l’interno della bocca, Mollie desiderò scendere da quel maledetto treno e allontanarsi il più lontano possibile da lui. Ti stai comportando in modo irrazionale, la ammonì la sua voce interiore. Vuole solo essere cortese. Fare conversazione. Anche se nessuno faceva conversazione a quell’ora del mattino.

    Decisa a spostarsi, si guardò intorno, ma il treno si stava riempiendo e avrebbe rischiato di restare in piedi. Diede un’occhiata dall’altro lato del corridoio e incrociò lo sguardo di una giovane donna seduta vicino al finestrino opposto. C’era un posto libero accanto a lei. Doveva forse spostarsi là? Sarebbe sembrato strano, dato che c’era ancora un posto libero più vicino? Però non conosceva quell’uomo, quindi cosa le importava?

    Stringendo la borsa del portatile al petto, si alzò, afferrando la sciarpa prima che toccasse terra. Attraversò il corridoio e si lasciò cadere sul sedile accanto alla giovane. Tuttavia, perfino mentre tirava un sospiro di sollievo, sentì che l’aria gelida si diradava per lasciare spazio al calore di una rabbia inespressa.

    Fissò lo sguardo in un punto a caso davanti a sé, nella speranza che la ragazza non cercasse di intavolare una conversazione. Purtroppo, non fu così fortunata.

    «Io mi chiamo Grace, e tu?». La giovane azzardò un sorriso.

    Mollie gemette e si affrettò a chiudere gli occhi. Quella mattina non gliene andava bene una.

    Due file più in là, l’uomo infilò il mento nella sciarpa. Aveva visto la giovane donna alzarsi dal posto di fronte al tizio chiacchierone per andare a sedersi dall’altro lato, accanto alla ragazza con il sorriso sbilenco. Era un bene che fosse nervosa. Quel tizio l’aveva distratta. L’aveva spaventata. Sorrise nella sciarpa di lana. Sarebbe finita dritta tra le sue mani.

    Se quell’altra puttana non fosse scappata, non avrebbe avuto bisogno di rimpiazzarla. Ma a lui piaceva essere sempre un passo avanti. Come diceva sua madre.

    Il pensiero della madre gli fece scivolare via il sorriso dalle labbra, così affondò le mani in tasca mentre il tremore iniziava a scuotergli le giunture. Faceva freddo e il riscaldamento era sempre intermittente sul treno, ma ora si stava senza dubbio congelando. Scosse la testa, nel tentativo di scacciare l’immagine della madre e di sostituirla con quella della ragazza che stringeva al petto il portatile. Aveva la giacca abbottonata fino al collo e lui si domandò che cosa indossasse sotto. Si cambiava d’abito una volta arrivata al lavoro? Conosceva così tante cose di lei, almeno fin quando non oltrepassava le porte di quell’anonima palazzina di uffici su Townsend Street, e spariva dalla sua visuale.

    Il treno si fermò e ripartì verso le stazioni malfamate delle periferie. La carrozza si scaldò notevolmente per via della calca. Il corridoio ormai era pieno di persone che tenevano strette borse e telefoni, l’aria satura di puzza di piedi e odore di corpi. Era così affollato che non riusciva più a vederla. Chiuse gli occhi, rievocò la sua immagine dai ricordi e le accarezzò i capelli lisci e scuri con un dito immaginario, il tutto mentre si toccava attraverso la tasca del cappotto. Non poteva più aspettare. Quella sera l’avrebbe rivista.

    Il treno oscillava e sbuffava, accelerando per poi rallentare mentre entrava nella stazione di Connolly a Dublino. Il respiro caldo dei passeggeri creò un’atmosfera di attesa mentre tutti si preparavano a scendere. Lo attendeva una lunga giornata in cui avrebbe pensato a lei. L’avrebbe aspettata per ore. Ma ne sarebbe valsa la pena. Alle sei e mezza di quella sera, sarebbe stata sua.

    Capitolo 5

    Arrivata alla centrale della Garda, l’ispettore Lottie Parker salì le scale e si avviò lungo il corridoio. Il suo ufficio rimodernato si trovava sul retro dell’area comune. Era l’ultimo pezzo del puzzle che aveva richiesto tre anni di ristrutturazioni ed espansioni per essere completato. Aveva persino una porta che si chiudeva per bene. Eppure non riusciva a farci l’abitudine, così prese posto alla sua vecchia scrivania nell’ufficio comune. Il sergente Mark Boyd era seduto di fronte a lei nella stanza affollata, che condivideva con i detective Larry Kirby e Maria Lynch.

    «Posso usarlo io, se tu non lo vuoi», le disse strizzandole l’occhio e indicando l’ufficio vuoto alle spalle di Lottie.

    «Neanche per sogno», rispose. «È bello potermi rintanare lì quando ne ho bisogno. Chiudo la porta e urlo in santa pace».

    «Tu urli anche qui, per la maggior parte del tempo. Ormai siamo immuni alle tue sfuriate». Allineò le pagine di un fascicolo e lo chiuse.

    «Che cos’hai detto, Boyd?»

    «Sto solo esprimendo ad alta voce quello che pensiamo tutti», mormorò sottovoce.

    «Capisco quando non sono gradita». Afferrò la borsa di pelle consumata, se la gettò sulle spalle e si incamminò verso la sua stanza, tirandosi dietro la porta.

    Alla scrivania, digitò sulla tastiera e il computer prese vita. Aprì la pagina che aveva visitato il giorno prima, poi cliccò e zoomò sulla fotografia della venticinquenne Elizabeth Byrne. Non era ancora stato classificato come caso di persona scomparsa perché era passato troppo poco tempo. Al momento però non c’era molto altro di cui occuparsi a Ragmullin, così aveva affidato a Boyd il compito di dare una rapida occhiata a quella sparizione sospetta.

    Con il mento posato sulla mano, studiò la foto. Esaminò lo sguardo lucente della giovane, poi passò ai capelli di un luminoso biondo rame, raccolti dietro l’orecchio, che scendevano in maniera suadente sugli occhi castani. D’istinto si portò la mano all’acconciatura scarmigliata. Aveva proprio bisogno di farsi taglio e colore. Mancava una settimana al giorno di paga, ma non si sarebbe comunque potuta permettere di spendere ottanta e passa euro per il parrucchiere.

    «Posso fare altro riguardo a Elizabeth Byrne?». Boyd era in piedi sulla porta, con un piede dentro e uno fuori dall’ufficio.

    «Non mordo», gli disse, cercando di trattenere il sorriso sulle labbra.

    «Davvero? Pensavo ti stessi affilando i denti giusto un attimo fa».

    «Non rompere le scatole, Boyd. Entra e siediti».

    Il collega chiuse la porta e si accomodò sulla sedia in tela grigia, che Lottie aveva strategicamente posizionato in modo tale che chi sedeva non potesse vedere cosa stesse facendo. Che in quel momento non era poi molto, a essere onesta.

    «Hai trovato qualcosa dai filmati delle telecamere a circuito chiuso?», gli domandò.

    Sfogliando il fascicolo sulle ginocchia, Boyd passò lo sguardo su una pagina, poi le posò di fronte una foto in bianco e nero.

    «Sai che non è ufficiale», le ricordò.

    «Lo so».

    «Non sono ancora passate quarantotto ore».

    Annuì. «Dimmi cos’hai scoperto finora e basta».

    «Perché sei così irritabile stamattina?»

    «Boyd! Dimmi che cavolo sto guardando».

    Il sergente accartocciò le spalle e si chinò sulla scrivania. «È un fermo immagine della telecamera della stazione. Scattato nel momento in cui acquistava l’abbonamento settimanale, lunedì mattina alle 5:55, prima di salire sul treno per Dublino. Lavora al Centro di servizi finanziari come responsabile di una banca tedesca. A quanto dicono i colleghi, è rimasta là per tutto il giorno e ha timbrato l’uscita alle 16:25 per poter prendere il treno delle 17:10 per Ragmullin. Ho chiesto aiuto a un amico della centrale della Garda di Store Street. Ha controllato i filmati delle telecamere della stazione di Connolly, ma finora non l’ha individuata».

    «Ci sono telecamere su ogni binario?»

    «Solo sulle linee della DART. Altrimenti sono puntate solo sull’atrio generale e le biglietterie».

    «Accidenti».

    «Un termine delicato, detto da te».

    «Sto cercando di smettere con le parolacce. Katie non vuole che il piccolo Louis prenda l’abitudine».

    «Ah! Gesù…» rise Boyd. «Non ne vuole proprio sapere di tornare al college?»

    «Tu che dici?». Lottie scosse la testa. «Si è cacciata in testa di andare a New York per incontrare Tom Rickard, il nonno di Louis».

    «Potrebbe anche essere un bene».

    Rimuginando sulle parole di Boyd, Lottie ripensò al trauma che la sua famiglia aveva subito l’anno precedente dopo la morte dell’unico figlio di Tom Rickard. Jason, il fidanzato di Katie. Alcuni mesi dopo, Katie, all’epoca diciannovenne, aveva scoperto di essere incinta. Aveva rimandato l’iscrizione al college, e adesso era completamente assorbita dal figlio.

    Era anche vero però che il piccolo Louis era una sorta di ricostituente per la famiglia. Chloe e Sean lo coccolavano di continuo. Katie faceva fatica, certo, ma da vera testarda si impuntava a non volere aiuti da parte di Lottie. Aveva fatto il passaporto per Louis ed era decisa ad andare a New York. Anche se ancora non si era mai parlato dei costi. Magari quella sera. O magari no.

    «Cambiare aria per un po’ potrebbe farle bene», disse. «Ma non ne sono sicura».

    «Hai paura che poi non voglia più tornare. Vero?», le chiese, facendosi subito serio.

    Lottie lo osservò mentre appoggiava la schiena all’indietro e incrociava le braccia sulla camicia azzurra stirata e sulla cravatta blu immacolata. Aveva i capelli brizzolati, tagliati corti come al solito, ed era slanciato fino a sembrare quasi troppo magro, ma non proprio. I suoi quarant’anni abbondanti se li portava molto meglio di lei, doveva ammetterlo. Lottie si divertiva a battibeccare con lui e sapeva di piacergli, ma la sua vita era troppo complicata per imbarcarsi in qualcosa di serio.

    «Non sono mai sicura di niente quando si parla dei miei figli», rispose.

    «Un giorno alla volta, okay?»

    «Certo». Raccolse l’immagine della telecamera a circuito chiuso prima che Boyd cominciasse a farle domande imbarazzanti. «Una venticinquenne scompare senza lasciare tracce dal treno Dublino-Ragmullin delle 17:10 un lunedì sera qualunque. Siamo sicuri che sia salita a bordo di quel treno?»

    «Era una pendolare regolare. Ieri sera ho parlato con alcuni passeggeri che uscivano dalla stazione. In molti l’hanno vista, ma non sono sicuri del giorno, anche se due persone giurano che fosse a bordo lunedì. Ricordano di averla vista in piedi in corridoio prima che riuscisse ad accaparrarsi un posto a sedere dopo Maynooth. Nessuno dei testimoni ha saputo dirci altro, però, perché sono scesi entrambi alla stazione successiva, Enfield».

    Lottie commentò: «Ma Elizabeth non è mai arrivata a casa».

    «Esatto».

    «Forse è scesa anche lei a Enfield».

    «Le telecamere della stazione confermano il contrario».

    «Dunque torniamo alla stazione di Ragmullin. Abbiamo un’immagine di lei quella mattina ottenuta dalla telecamera a circuito chiuso. Che mi dici della sera?»

    «Tutte le telecamere sono puntate sulla biglietteria, o sul parcheggio. Ma sappiamo che non ha un’auto, quindi lunedì mattina deve essere arrivata in stazione a piedi».

    «Potrebbe essere rimasta sul treno ed essere finita da qualche altra parte».

    Boyd scosse la testa. «Ho verificato con tutte le stazioni fino a quella di Sligo, dove termina la tratta, e non c’è traccia che fosse a bordo, se non quanto detto dai testimoni che pensano di averla vista prima di Enfield».

    «I media la chiameranno la ragazza scomparsa dal treno». Poi stampò la foto e la porse a Boyd. «Dimmi cosa vedi».

    «Una giovane donna. Capelli corti sulle spalle. Una manciata di lentiggini sul naso. Occhi castano scuri e labbra carnose. Posso dire che è carina?»

    «Boyd! Intendevo qualcosa sulla sua personalità». Scosse la testa in segno di esasperazione.

    «È solo una foto. Non sono mica un veggente».

    «Provaci».

    Il collega sospirò. «Ha l’aria di una persona abbastanza assennata. Niente piercing al naso o alle sopracciglia. Nessun tatuaggio visibile, anche se si tratta solo di un primo piano. Lo sguardo sembra limpido e luminoso. Non sembra faccia uso di droghe».

    «Ho pensato anch’io lo stesso. Abbiamo controllato i suoi profili social?»

    «Niente da domenica sera».

    «Che cosa diceva l’ultimo post?»

    «Solo una GIF su Facebook con un gatto mezzo annegato e la didascalia Non ditemi che domani è lunedì. Vi prego».

    «Pensi che se la sia squagliata?»

    «Vive con i genitori, e la madre dice che dalla sua camera non manca nulla».

    Lottie si alzò afferrando la giacca e la borsa. «Andiamo a dare un’occhiata. Magari troviamo qualcosa».

    «Non sono ancora passate quarantotto ore».

    «Sei un pappagallo? Continui a ripeterti».

    «Elizabeth è un’adulta. Penso che tu sia un po’ troppo precipitosa con questa faccenda».

    «O Cristo santo, smettila di lagnarti. Sempre meglio che starsene fuori al gelo a dare la caccia a ragazzini che fanno le corse o a raccogliere informazioni sugli incontri clandestini di pugilato a mani nude».

    «Che Dio mi aiuti», borbottò Boyd.

    Lottie aprì la porta e lo guardò mentre il collega si alzava lentamente. Quando le passò accanto e percepì il suo profumo di sapone, dovette trattenere la mano che voleva tendersi a cercare quella di lui. Meglio non compromettere la tregua instabile che avevano raggiunto.

    «Ma poi perché il gattino bagnato?», le domandò.

    «Non sono affari tuoi», rispose con un sorriso, e attraversò a passo deciso l’ufficio principale, lasciandosi alle spalle lo sferragliare dei radiatori che si raffreddavano. Nel corridoio, si imbatté nel sovrintendente Corrigan.

    «Stavo giusto venendo da te», le disse. «Nel mio ufficio. Adesso».

    Lottie rimase a bocca aperta a squadrare la stazza corpulenta del superiore. Negli ultimi tempi le sembrava di aver rigato dritto. Oppure no?

    «Cos’hai combinato adesso?», disse Boyd, ritirandosi nel suo ufficio.

    «Niente! Spero». Incrociò le dita mentre si avviava lungo il corridoio per raggiungere Corrigan.

    «Siediti, Parker. Lo sai che mi dà sui nervi vederti saltellare da un piede all’altro».

    «Io non…».

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